Riccardo Bacchelli aveva un vivido ricordo giovanile di Picasso, ricordo non grato. Faceva allora, 1911, pratica come segretario di redazione alla Voce di Prezzolini, anche mettendo in pagina gli articoli. “Per qualche tempo”, scriverà Prezzolini ne Il tempo della Voce, “il Bacchelli aiutò o sostituì il Prezzolini nella compilazione dei numeri del periodico, come aveva fatto lo Slataper”. Ma era una tarda sgarberia: “è qui a Firenze un giovane, Bacchelli di Bologna, che farà lui la Voce questa estate col nome di Papini, e più tardi mi servirà da segretario”, scriveva infatti il 16 luglio 1912 a Alessandro Casati, che finanziava il giornale, compreso il regolare stipendio di Bacchelli.
Il ricordo era della revisione e impaginazione dello sterminato articolo Picasso e Braque di Ardengo Soffici, pubblicato il 24 agosto 1911. “Mi parve”, scriverà Bacchelli nel 1949, “un’ingegnosa e sterile curiosità, un’aberrazione del razionalismo critico, esasperato e spinto dal suo proprio vuoto, a diventar mania consequenziaria”. La scoperta cubista di Soffici contribuì poi niente meno che alla scissione dalla Voce di Gaetano Salvemini, colonna politica del giornale, che fondò il suo L’Unità: “Fra gli ‘amici della Voce’”, aveva scritto immediatamente a Prezzolini, “gli uni si appassionano agli articoli su Verbicaro e si divertono agli articoli su Picasso; gli altri si appassionano e si scazzottano magari per Picasso e se ne infischiano di Verbicaro [nda: a Verbicaro, Cosenza, un’epidemia di colera aveva provocato in quei giorni una rivolta duramente repressa]… È evidente che non è possibile andare più a lungo insieme”. Bacchelli stesso, in capo a un anno, se ne sarebbe distaccato: “dopo solenni accuse di estetismo me ne allontanai con Scipio Slataper, che un po’ mi dava ragione e un po’ torto. Occorre dire che ci furono liti e sdegni? Pace!”.
“Un’ingegnosa e sterile curiosità” di Soffici: di questa impressione tanto persistente dopo trentotto anni (lui scrisse trentasei, non la sola imprecisione; è poi interessante che due volte vi ricorra quell’ironico “divertente” usato da Salvemini), fece lo spunto per un breve saggio di rara veemenza contro Picasso. Della cui opera – precisava - non intendeva “fare un esame propriamente critico ma, come si diceva una volta, una fisiologia”. Pubblicato l’11 giugno 1949 ne Il Mondo di Mario Pannunzio, era aggressivo fin dal titolo, Picasso despota e tiranno, con quel sofisticato raddoppio di epiteti sinonimi uno dell’altro. Titolo in realtà più sprezzante, essendo stato ridotto certamente per esigenza tipografica, come si vedrà dalla ristampa nei Saggi critici (Mondadori 1962): Picasso, ossia l’artista moderno come despota e tiranno pubblicitario.
L’articolo corrispondeva perfettamente alla linea del settimanale, creato da Pannunzio per promuovere una “terza forza” politica intransigentemente anticomunista. La demolizione di Picasso è infatti un sontuoso, barocco campione di guerra fredda culturale, data la condizione della vasta popolarità che in quel 1949 aveva raggiunto in Italia, e che culminerà con le grandi mostre a Roma e Milano (qui soprattutto, grazie al rocambolesco ottenimento di Guernica, che il recente libro di Rachele Ferrario ha nuovamente documentato).
Seguiva e precedeva una varietà di contributi: Piero Dorazio, per esempio, sostenne che a Picasso, oltre che a Cézanne e Matisse, si deve quella “frattura che oggi esiste fra pubblico e arte”; il filosofo Panfilo Gentile dichiarò di appartenere alla “plebe zotica (che) fino ad oggi non è riuscita ad ammirare Picasso”; Paolo Monelli, che aveva accompagnato Picasso in una visita al Vaticano e gli sedette vicino in un celebre pranzo alla trattoria “La Cisterna” dopo il Consiglio per la Pace, riferì indignato che “i giovani picassiani avevano guardato Picasso come l’attore al suggeritore”.
La popolarità italiana di Picasso si era avviata con l’esposizione alla Biennale del 1948, alla quale seguirono tre riuscitissime mostre in galleria a Venezia, Roma (questa, pare itinerante) e Milano. A Roma inoltre Picasso, che dal 1944 era iscritto al partito comunista francese, partecipò appunto il 30 ottobre 1949 al Consiglio dei Partigiani per la pace, per cui aveva disegnato il simbolo della Colomba, assurgendo come in Francia a emblema (non incontrastato) dell’artista engagé. Il Corriere d’Informazione, per esempio, il 29 marzo aveva ripreso dal Figaro parigino l’annuncio che “i comunisti hanno sollecitato il pittore, a progettare un cartello sul quale figuri la colomba della pace”, segnalando come il quotidiano conservatore l’avesse “sottolineata favorevolmente”.
Appunto questa appare l’occasione colta da Bacchelli: “L’arte di Picasso non la salveranno i manifesti politici, a cui pare che abbia intenzione di accedere. Ma a questo proposito è pur da dire che il comunismo di Picasso, sulla sincerità del quale non mi permetto di sollevare il minimo dubbio, è strumento intimidatorio”. Il mezzo attraverso cui si realizza e impone è la pubblicità: “egli costituisce in quest’epoca pubblicitaria fino alla sconcezza, un vero enigma di riserbo e di discrezione” [ma] è in effetti il fenomeno artistico più indiscreto e clamoroso e sgargiante del pubblicitarismo odierno sguaiatissimo e intromettentissimo. […] È condannato ad essere il ‘creatore’, nel senso che s’adopera la parola appunto nell’enfatico e fatuo e pretensioso gergo delle ‘grandi sartorie’, dei ‘modelli’ d’una moda, della sua. ‘Modelli’ altrettanto stagionali”.
Nella conclusione Bacchelli ritorna all’aspetto politico del fenomeno: “Che la sua arte sia quanto di meno popolare può immaginarsi, non c’è neanche bisogno di dirlo, ma val la pena di osservare quanto il comunismo sia adatto a sconcertare i picassiani e il suo vero pubblico […], facendo l’ipotesi che la pittura di Picasso sia assunta ed imposta come arte per i comunisti. Arrivando per tal modo, ipotetico, al popolo, essa sconcerterebbe ancor più i comunisti che non i borghesi capitalisti e snobisti. Ormai è abbastanza noto, anzi è un luogo comune, che il difetto storico dei ceti borghesi è la paura. Sulla paura di non capirlo, diffusissima, lavora efficacemente la voga picassiana, che lavora, pure efficacemente, su quell’altra paura, pur diffusissima, che hanno gli artisti deboli e gli intellettuali in genere, di non essere all’avanguardia”.
Tanta asprezza e foga contro un mostro sacro internazionale dell’arte e della politica, da parte di un mostro sacro nazionale della letteratura, venne del tutto ignorata, salvo la nuda registrazione nelle Pezze d’appoggio bibliografiche dell’enciclopedico Enrico Falqui (e dire che, per Picasso, Falqui aveva un suo trasporto). Lo stesso Francesco Arcangeli, che ne era amico, non lo nominerà nel saggio del 1953, Picasso, “voce recitante”, 32 fittissime pagine due delle quali di esergo, da Argan a Lionello Venturi, per “portare in breve il lettore nel cuore dell’onda enorme di risonanza che l’opera del maestro ha provocato entro le menti degli intellettuali del nostro tempo”. Così, al momento stesso di essere pubblicata, la fisiologia di Bacchelli si inabissò (egualmente dopo la ristampa in volume).
La prima traccia, rimasta solitaria, affiorerà nel 1979, nel libro Intellettuali e PCI. 1944-1958 di Nello Ajello, che sul “Mondo” avere scritto e aveva l’intelligenza politica per apprezzare il valore di quella stroncatura di Picasso: “La sua qualifica di ‘compagno’”, scrive, “lo rende gradito ai militanti, ma, se davvero diventasse popolare, la sua pittura [nda: così immagina nel 1949 un “conservatore” come Riccardo Bacchelli] sconcerterebbe ancor più i comunisti che non i borghesi capitalisti e snobisti”. Per altre notizie si dovranno poi attendere due belle ricerche universitarie di Lorenzo Nuovo (2009), che ne diede anche un breve sunto, e di Romina Viggiano (2018).
I comunisti (artisti, critici, dirigenti di partito a cominciare da Togliatti) erano nel 1949 al culmine di una controversia ideologica su realismo, cubismo e astrattismo che risaliva al 1944, a Roma appena liberata, e che aveva visto al centro il giudizio su Picasso; controversia tanto più delicata e insidiosa per l’avversione e la diffidenza di cui era oggetto in Unione Sovietica, sotto l’accusa di formalismo decadente. Da un lato erano i Guttuso, Trombadori, Mario De Micheli; dall’altro i Turcato e i Corpora. La polemica l’aveva aperta Togliatti con una sferzante “Nota” sulla mostra collettiva allestita nel 1948 a Bologna: “una raccolta di orrori e scemenze… forse pensano che per apparire ‘uomini di cultura’ sia necessario, davanti a queste cose, darsi l’aria di intenditore e superuomo e biascicare frasi senza senso”. A una risentita protesta degli artisti (Guttuso compreso), Togliatti replicava: “preferite star tra di voi, attribuendo insospettati valori metafisici o polemici alle vostre bizzarrie geometriche e anatomiche? Peggio per tutti noi: troveremo sollievo non in una raccolta di fotografie, ma in un album, se volete, del più paradossale Goya”.
Il sarcasmo delle “bizzarrie anatomiche”, la citazione di Goya, suonano di allusioni inequivoche. Dopo la sconfitta elettorale del 1946 Togliatti, in un discorso ritrovato da Ugo Finetti, si era scagliato fra gli altri contro “gli intellettuali cosiddetti di alta cultura, che alle volte sono degli strambi, gli intellettuali che apprezzano le pitture di Picasso”. “Rideva di Picasso”, ha scritto Italo De Feo, allora suo segretario, “dicendo che in una sola cosa era stato bravissimo: nell’averla data a bere alla gente sciocca”.
“Non comprendiamo nulla”, concludeva la replica agli artisti, “delle vostre studiate, fredde, inespressive e ultra accademiche stravaganze, esse di nulla parlano a noi e alla comune degli uomini se non forse di un non raggiunto equilibrio intellettivo e artistico”. Bacchelli aveva cioè colto e colpito in pieno un nervo centrale della politica culturale comunista, il che spiega (al di là di altre ragioni che si possono supporre, ma sarebbe esercizio inutile) l’assoluto silenziamento del Picasso despota e tiranno sulla ricchissima, allora, stampa e pubblicistica del Pci. A supporto dell’inopportunità politica, avrà poi giocato l’euforia di mondanità, non senza punte grottesche, che si stese sul soggiorno romano di Picasso. Si è già fatto cenno al pranzo alla “Cisterna”, di cui l’Unità del 30 ottobre diede la cronaca in terza pagina, segnalando fra i convitati Guttuso, Ranuccio Bianchi Bandinelli, che fece “il brindisi a nome degli intellettuali romani”, Palma Bucarelli a fianco di Picasso, Moravia, Giulio Einaudi. Ce n’era stato un altro, il giorno prima, da Piperno, al Ghetto: la racconta Carlo Muscetta nelle sue memorie. Il tavolo era “presieduto da Picasso, che aveva accanto una giovane calabrese, Rita Pisano”, alla quale fece un ritratto a matita per suggerimento dello stesso Muscetta, che fu poi “pronto”, come scrive, “a levarglielo di mano”. Una grande serata si svolse a casa di Luchino Visconti, raccontata in un piccolo libro di Ugo Pirro, nel quale Picasso figura come il premio di una caccia al tesoro fra Turcato e Consagra, che volevano convincerlo alle loro ragioni artistico-politiche.
Acuta, e questa anticipatoria, era poi la denuncia di Bacchelli del “pubblicitarismo” quale cuore dell’arte di Picasso, la riduzione dell’arte a spettacolo o fenomeno da atelier di moda. Ma di questo non importò a nessuno, se qualcuno se ne accorse.
O probabilmente se ne accorse (e lo plagiò) Giovanni Papini, nel “nuovo diario di Gog” pubblicato appena due anni dopo (1951, Il libro nero, Vallecchi), nel quale si trova un’intervista apocrifa a Picasso che avrà strascichi anche internazionali fino a metà degli anni Sessanta, come segnalato dal solito Falqui. “A forza di spassarmela”, mise Papini in bocca a Picasso, “con tutti questi giochi, queste funambolerie, con i rompicapo, i rebus e gli arabeschi, son diventato celebre abbastanza presto. E la celebrità significa, per un pittore, vendite, guadagni, fortuna, ricchezza… Io sono soltanto un ‘amuseur public’ che ha capito il suo tempo e sfruttato, meglio che ha saputo, l’imbecillità, la vanità e la cupidigia dei suoi contemporanei”.
L’esposizione, nel 1953. alla Galleria Nazionale di Roma, darà invece a Pasolini la materia per un vasto esercizio di dolente populismo (Picasso), elaborato in una lingua e retorica letterarissime, con il quale rimprovera a Picasso di “non riuscire”, commenterà Carlo Salinari, “a sottrarsi all’errore volontaristico”: “… Egli - tra i nemici / della classe che specchia, il più crudele, / fin che restava dentro il tempo d’essa / - nemico per furore e per babelica / anarchia, carie necessaria - esce / tra il popolo e dà in un tempo inesistente: / ... Ah, non è nel sentimento / del popolo questa sua spietata Pace, / quest’idillio di bianchi uranghi. Assente / è da qui il popolo: il cui brusio tace / in queste tele, in queste sale, quanto / fuori esplode felice…”.
L’appendice letteraria al Picasso “italiano” si conclude nel 1957. Edito da Garzanti esce in libreria Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, dove la requisitoria di Bacchelli riceve un pirotecnico omaggio, tacito ma inequivocabile. Al capitolo nono, pagina 293 (ora Adelphi 261), durante la caotica perquisizione del brigadiere Pestalozzi nel tugurio della Zamira. Aveva scritto Bacchelli che a Picasso “è estraneo o mentito l’umano, se lo cerca, lo surroga con uno squallore, involontariamente caricaturale e grottesco, di segni esacerbati ed espressionistici”.
“Il diavolo, per la ragazza [la Mattonari Camilla], s’era tramuto in gallina”, scriveva ora il suo grande amico Gadda. “Registrava di pupilla matta e riteneva di rètina: con quell’occhio laterale che cianno i polli che pare una trovata di Picasso, un oblò del cesso, d’un cesso vuoto d’ogni intendimento e d’ogni attitudine a spiare, babordo o tribordo”.
Nello Ajello, Intellettuali e PCI. 1944 – 1958, Laterza, Bari 1979
Francesco Arcangeli, Picasso, “voce recitante”, “Paragone”, n. 47, 1953
Alberto Asor Rosa, Scrittori e popolo. Saggio sulla letteratura populista in Italia, Samonà e Savelli, Roma 1965
Luciano Caramel (a cura), Arte in Italia 1945 – 1959, Vita e Pensiero, n. ed., Milano 2013
Italo De Feo, Tre anni con Togliatti, Mursia, Milano 1971
Enrico Falqui, Critica, in Pezze d’appoggio, Casini, Roma 1951
Enrico Falqui, Papini contro Picasso, in La gran baraonda, Aldo Martello, Milano 1966
Rachele Ferrario, La contesa su Picasso. Fernanda Wittgens e Palma Bucarelli, La Tartaruga, Milano 2024
Ugo Finetti, Togliatti e Amendola. La lotta politica nel PCI, Ares, Milano 2008
Andrea Guiso, La colomba e la spada. “Lotta per la pace” e antiamericanismo nella politica del Partito comunista italiano (1949 – 1954), Rubbettino, Soveria Mannelli 2006
Luisa Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta, Bollati Boringhieri, Torino 1999
Nicoletta Misler, La via italiana al realismo. La politica culturale artistica del P.C.I. dal 1944 al 1956, Mazzotta, Milano 1973
Carlo Muscetta, L’erranza. Memoria in forma di lettere, a cura di Salvatore S. Nigro, Sellerio, Palermo 2009
Lorenzo Nuovo, La pagina d’arte de “Il Mondo” di Mario Pannunzio (1949 - 1966), Edizioni della Laguna, Mariano del Friuli 2010
Pier Paolo Pasolini, Picasso, “Botteghe Oscure”, XII, novembre 1953, poi in Le ceneri di Gramsci, Garzanti, Milano 1957
Chiara Perin, Guttuso e il realismo in Italia. 1944 – 1954, Silvana, Cinisello Balsamo 2020
Ugo Pirro, Osteria dei pittori, con una nota di Angelo Guglielmi, Sellerio, Palermo 1994
Giuseppe Prezzolini, Il tempo della Voce, Longanesi-Vallecchi, Milano-Firenze 1960
Carlo Salinari, La questione del realismo. Poeti e narratori del novecento, Parenti, Firenze 1960
Marco Veglia, La vita anteriore. Storia famigliare e letteraria di Riccardo Bacchelli (1891-1914), Il Mulino, Bologna 2019
Romina Viggiano, La Spagna alle prime Biennali del secondo dopoguerra. La ricezione della stampa, “Storie della Biennale di Venezia”, Edizioni Ca’ Foscari, Venezia 2019
Trentasei anni fa redigevo la Voce fiorentina, e fu così che mi trovai a passare in composizione e a mettere in pagina un articolo di Soffici, con riproduzioni, che dava notizia dell’ultima novità artistica parigina: il cubismo dei pittori Picasso e Braque.
Mi parve un’ingegnosa e sterile curiosità, un’intelligente ed intellettualistica escogitazione, un’aberrazione del razionalismo critico, esasperato e spinto dal suo proprio vuoto a diventar mania consequenziaria. E oggi, per lo meno nella sua originaria ortodossia geometrizzante, da tutti, se non sbaglio, giudicato nello stesso modo.
Si dice: esperienza necessaria. Lo dirò anch’io; ma quanti curiosi arbitrii passano sotto questa etichetta! Dramma, si dice anche; e certamente la sterilità della fantasia surrogata da astrazioni intellettualistiche, è dramma degli artisti che ne patiscono (s’intende di quelli che non ci speculano sopra), e dell’epoca, e dello spirito; ma quanti drammi di questo genere sono inutili, dolorosi principalmente in quanto inutili!
E non sono cominciati oggi. La storia delle arti e delle lettere ne è ricca, specialmente in epoche, come la nostra, di intensa coltura estetica e d’esaurimento della fantasia: condizioni favorevoli ambedue alle coltivazioni forzate. Dalle quali nasce quell’abbondanza statistica di prodotti in sé scarsi e indigenti, quell’applicazione di formole tecniche e stilistiche sulla carenza di forza creativa, che sono l’afflizione e la disgrazia dell’epoca nostra, Ne nasce anzi quella sterile e superflua ricerca di formole escogitate nel vuoto e dal vuoto,1 quella ricerca di novità, dove quel che propriamente manca è un qualsiasi di nuovo da dire; e l’errore, ne nasce, di tanta parte dell’arte odierna letteraria e figurativa e musicale e architettonica, che ignora e disprezza di principio che la ricerca di forme nuove ed espressioni, e insomma di linguaggi e tecniche nuove, ha da seguire e non precedere una ricchezza e novità d’intuizione e fantasia e sentimento; e che la ricerca di novità deve essere condizionata e necessitata da quel che già si possiede, naturalmente nuovo, poiché l’originalità è cosa che appartiene alla natura originante, mentre all’intellettuale appartiene la regola; e quando si scambino le parti, nuociono l’uno all’altra. Infine, se l’originalità nativa non sarà mai troppa, l’intelletto riflessivo non sarà mai abbastanza sobrio. Nella pratica opposta, ch’è di tanta parte degli artisti di oggi, anche dei maggiori, consiste e s’origina un morbo intellettualistico, drammatico certamente, come ogni morbo, ma che per tanto non cessa d’essere morbo.
In quanto escogitatore di formole, Picasso è il maggiore e il meno sobrio, e più ingegnoso e più intelligente: per questo, il più morboso di tutti. Sicchè il suo caso non è tanto artistico ed estetico, quanto psicologico, morale, sociale e politico. Dicendo politico, non mi riferisco al suo professato comunismo, come dicendo che non è un caso artistico non intendo di negare ch’egli sia artista.
Egli è artista, esattamente, quanto occorre e basta all’esecuzione di formole, di trovati, che servono ad imporre un programma di predominio e di sopraffazione intellettuale. Picasso è ammirevole e detestabile. Ammirevole la coerenza e il rigore logico e formale con cui egli si inibisce e rifiuta ogni qualità che, tradendo la formola, la renda in qualsiasi modo persuasiva e non intimidatoria; detestabile in sé stessa, l’intimidazione. E, per me, ammiro e detesto l’uomo e l’artista, lucidi, freddi, intelligentissimi, volontari; nell’arte e nella vita, e nello stile in cui si propongono al mondo, altèri, austeri, riserbati, tanto ch’egli costituisce, in quest’epoca pubblicitaria fino alla sconcezza, un vero enigma di riserbo e di discrezione.
Sono ben lontano, dunque, da spiegare offensivamente e grossolanamente il suo riserbo come il più astuto ed efficace trovato pubblicitario e reclamistico. Per altro, negli effetti, tale riesce quell’enigma, tale è condannato a riuscire, in effetti, perché in sé stessa, inevitabilmente, l’arte di Picasso è un’efficace, un’imperiosa, una lucida, fredda, intelligente, volontaria imposizione autoritaria, un magistero di dispotismo intellettuale, una tirannia.
Che essa si estenda e s’imponga tanto largamente, di qua e di là dall’Atlantico, significa che è il successo di una moda, di una in più mode, quante sono quelle colle quali Picasso, variando la propria fondamentale monotonia, contrariando continuamente le proprie stesse maniere, sconcertando sempre daccapo la massa dei suoi adepti e dei suoi ammiratori e dei suoi stessi oppositori, degli stessi refrattari ai suoi fascini e renitenti alle sue impostazioni, rinfresca la moda picassiana mondiale. Né ciò va attribuito, grossolanamente e offensivamente, a un calcolo astuto e voluto. È un inevitabile, è il principio stesso originario e naturale di lui uomo ed artista, che lo condanna a un tal successo, che è di una voga, di una moda, anzi, di dieci o cento voghe in una moda: come tale, in tutto contrario a quel ch’è il successo delle vere opere e personalità artistiche. Cosicchè il discretissimo e riservatissimo Picasso, il perpetuo contraddittore delle proprie maniere, com’è inevitabilmente monotono e invariabile nel proprio stesso mutare, è in effetti il fenomeno artistico più indiscreto e clamoroso e sgargiante del pubblicitarismo odierno sguaiatissimo e intromettentissimo.
Proprio la natura essenziale del pensiero picassiano, proprio in ciò e con quello ch’egli prende, in buona fede, ingannato da errore oggi più che diffuso, quasi universale, per un perenne e strenuo ricercarsi e superarsi; proprio in questo e con questo Picasso è condannato ad essere il “creatore”, nel senso che s’adopera la parola appunto nell’enfatico e fatuo e pretensioso gergo delle “grandi sartorie”, dei “modelli” d’una moda, della sua. “Modelli” altrettanto stagionali.
Certo, tutto si può immaginarci della voga picassiana, fuor che essa raggiunga e si plachi e si componga in quella comprensione luminosa e quieta, in quella comunicazione contemplativa, ch’è della sorte mondana dei veri artisti. In essa immaginata, trasferita in essa, la voga picassiana non potrebbe che spegnervisi. Siccome non intendo di fare un esame propriamente critico dell’opera di Picasso, ma, come si diceva una volta, una “fisiologia” dell’opera stessa, non sto ad elencare le variazioni picassiane, da Cézanne cubistizzato (artatamente), ai feticci negri, a Ingres, ai dipinti pompeiani e a qualunque altro esemplare, se non per rilevare che questo esercizio stilistico, rigoroso e sincero sempre, diventa falso e sfasato e sfatto, quelle volte che l’autore vuol rappresentare, narrare, esprimere qualcosa d’umano e non puramente, sterilmente artistico.
Il principio estetico dell’autonomia e dell’autosufficienza dell’opera d’arte, arrivato a Picasso non come concetto di meditata coltura ma come motto d’atelier, quel che si dice comunemente arte pura o arte per l’arte, in lui, nella sua natura arida e scarsa, si è tradotto nell’arbitrio e nell’assurdo di una pratica dell’arte intesa come un esaurimento di forme e stili alienati e vuotati, dell’arte esperita in un astratto intelletto formalistico e indifferente, nella curiosità, cangiante in quanto inerte, dell’arte attuata nel vuoto. Coerenza logica, acume di gusto, finezza e finitezza tecnica, larghezza grande di cognizioni e di notizie, con un acre e gelido genio di simulazione inventiva e di adeguazione stilistica, egli ne ha tanto quanto occorre e basta a far di sé l’ingegnoso e arido mostro capace e degno d’imporsi, come s’è imposto, al mondo, a questo d’oggi, suo succube.
Quello di Picasso è un rigido, e magari grandioso, sperimento scientifico fuor di posto: una specie di riduzione in vitro delle arti figurative a schemi. Era naturale che l’esperimento più significativo fosse geometrizzante e che tenda a risolversi nell’arabesco.
L’arabesco in sé, è la cosa più noiosa che ci sia. Ciò può darci, credo, la chiave di tale arte, il sentimento vero e dominante di essa ed in essa, e di quell’esperimento, in tutto contrario, non che all’arte vera, al concetto stesso dell’estetica moderna, che esclude forse un genere solo, quello del “manierismo”, mentre Picasso è “manierista” per eccellenza, in quella sua sensibilità speciale, d’una specie di sensibilità astrattiva, che ha inventato il suo implacabile e indifferente eclettismo.
E può essere stata, è stata, invenzione divertente, intellettualisticamente, divertentissima; ma dalla noia sgorga, e sfocia nella noia. La vedemmo infatti nascere dalla pittura picassiana più sua, e unica veramente e ingenuamente sentita; dagli inizi di lui, francamente e melanconicamente decadentistici e caricati; da quel loro stesso colore macero e mézzo [letterario, per ubriaco], da quella fievole stanchezza sazia e sazievole, esangue.
S’egli si fosse limitato in cotesta, ormai remota, elegia di un tedio squisito e un po’ marcido [sic, letterario, per marcio], il caso sarebbe artistico, ed esile alquanto. S’è fatto morale, inane ma enorme, in quanto la noia stessa, per natura propria inevitabile, l’ha dovuto obbligare a sviluppare ciò che la generava essa medesima: il suo virtuosismo manieristico, manieristico anche delle proprie stesse maniere, facendone ciò che solo poteva nascerne, l’istrumento di una mania dispotica.
Torno a dire, non per speculazione né per vanità: per fatalità, per orgoglio; per vizio, non per vezzo; non per fatuità, chè egli è anzi sconsolatamente serio.
Nella sua pittura infatti, tanto fornita di intelligenza, quanto sprovveduta d’anima, come non c’è piacere né gioia né imprevisto né fantasia, manca poi soprattutto l’ironia, quell’ironia che è la salute dell’arte e della poesia quando siano influite e insidiate dall’intelletto. Ho detto che la pittura picassiana tende alla più noiosa cosa, l’arabesco: è anche la meno spiritosa, la meno umoristica. E come alla serietà sconsolata di lui è estraneo o mentito l’umano, se lo cerca, lo surroga con uno squallore, involontariamente caricaturale e grottesco, di segni esacerbati ed “espressionistici”. E quest’è il caso in cui diventa falsa e irritante.
Non la salveranno i manifesti politici, a cui pare che abbia intenzione di accedere. Ma a questo proposito è pur da dire che il comunismo di Picasso, sulla sincerità del quale non mi permetto di sollevare il minimo dubbio, è strumento intimidatorio. Infatti, che la sua arte sia quanto di meno popolare può immaginarsi, non c’è neanche bisogno di dirlo, ma val la pena di osservare quanto il comunismo sia adatto a sconcertare i picassiani e il suo vero pubblico. È sempre la medesima fatalità; e la possiamo considerare intiera, facendo l’ipotesi che la pittura di Picasso sia assunta ed imposta come arte per i comunisti. Arrivando per tal modo, ipotetico, al popolo, essa sconcerterebbe ancor più i comunisti che non i borghesi capitalisti e snobisti.
Ormai è abbastanza noto, anzi è un luogo comune, che il difetto storico dei ceti borghesi è la paura. Sulla paura di non capirlo, diffusissima, lavora efficacemente la voga picassiana, che lavora, pure efficacemente, su quell’altra paura, pur diffusissima, che hanno gli artisti deboli e gli intellettuali in genere, di non essere all’avanguardia e al corrente. S’aggiunga a questo il vizio, essenzialmente intellettualistico, della smania di capire per capire, di quella vera dissolutezza propria dell’intelligenza a vuoto, e s’avranno gli elementi dell’etichetta, del cerimoniale, del rituale picassesco mondiale.
Possono avere aspetti frivoli o ridicoli, in sé sono serii. come serio è ogni tiranno, obbligato a considerare e praticare l’etichetta e il cerimoniale come un rito, il rito della sua autorità e, in segreto, della sua noia. Questa infatti Picasso illude e sazia nella gravità ritualistica e processionaria cui obbliga le turbe, e le folle degli imitatori, e le schiere dei critici. E nel variar le escogitazioni delle sue formole, obbligando chi lo segue ad un supremo sconcerto, egli sazia quell’ultimo e supremo ch’è d’ogni passione dispotica: il segreto disprezzo verso i propri soggetti.
Odiato pur che temuto, è motto d’ogni despota; ma un Caligola intellettuale dovrebbe integrarlo: Per essere meglio temuto, devono anche amarmi. Picasso è amatissimo, proprio, a me pare, in un inconscio e perverso anelito di liberazione, in una segreta e incattivita speranza o prescienza ch’egli uccida l’arte, quell’arte che ormai è un così diffuso motivo di umiliazione e di timore, quell’arte che ormai a milioni di persone impone l’insulso, improprio, deleterio timore, che le affascina, di passar per gente che non capisce: sicchè per non passar per fessi, si fanno far fessi.
E quando il fine implicito nell’arte di Picasso, ch’è di isterilire ed uccider l’arte, fosse conseguito pieno e certo, i picassiani di qua e di là dall’Atlantico, tirerebbero un sospiro d’ineffabile sollievo, umano, dopo tutto.
E sarà umano, quando sia scritto che l’errore, anzi il fato, di cui Picasso è attore e vittima esemplare, abbia ad uccidere ogni arte nel mondo di oggi e di domani.
Picasso despota e tiranno, “Il Mondo”, n. 17, 11 giugno 1949, p. 9
Picasso, ossia l’artista moderno come despota e tiranno pubblicitario, in Saggi critici, “Tutte le Opere di Riccardo Bacchelli”, vol. XIX, Milano, Mondadori 1962, pagg. 187-93