Uno sguardo fresco su alcuni dipinti famosi di Leonardo da Vinci. La lectio di Martin Kemp


È possibile fornire elementi nuovi per dare letture fresche di alcuni famosi dipinti di Leonardo da Vinci? A questa domanda ha risposto Martin Kemp durante la sua lectio dello scorso 15 febbraio al Leonardo3 Museum di Milano. Ecco cosa emerge considerando assieme il Leonardo scienziato e il Leonardo artista.

Leonardo da Vinci è un “pittore della luce”. Lo definisce così il professor Martin Kemp, storico dell’arte, a lungo docente all’Università di Oxford, uno dei massimi esperti del grande artista toscano, durante la lectio intitolata Leonardo da Vinci. A fresh look at some very famous paintings, tenutasi lo scorso 15 febbraio al Leonardo3 Museum di Milano in occasione dell’inaugurazione della nuova parete interattiva del museo dedicato agli studi dell’artista (leggi qui anche l’intervista di Federico Giannini al professor Kemp).

Leonardo, si sa, è una delle figure più indagate, più studiate, più esplorate della storia dell’arte. Non per questo, tuttavia, si possono considerare concluse le ricerche attorno a lui: Leonardo da Vinci, per ammissione stessa di Martin Kemp, continua a essere una figura sfidante: artista, scienziato, filosofo, inventore, teorico, ingegnere, tanti sono gli aspetti della sua multiforme personalità e uno dei terreni di studio del futuro, come lo studioso ci spiegava nell’intervista sopra menzionata, sarà proprio la trasversalità dei suoi interessi, dal momento che i diversi settori in cui operò sono stati troppo spesso studiati in maniera separata. Considerare Leonardo sotto profili multidisciplinari potrà riservare novità e sorprese in futuro. È dunque possibile gettare “uno sguardo fresco”, come dice il titolo, sui dipinti più famosi di Leonardo? È quanto a provato a fare Martin Kemp nel corso della sua lectio.

Martin Kemp durante la sua lectio
Martin Kemp durante la sua lectio

Gli anni giovanili: lo studio della natura dei dipinti realizzati nel solco del Verrocchio

Per avere un’idea di quanto Leonardo sia stato “pittore della luce” occorre, secondo Martin Kemp, osservare il pesce tenuto tra le mani da Tobiolo in un dipinto, Tobiolo e l’angelo, tradizionalmente attribuito al Verrocchio (è conservato alla National Gallery di Londra), in cui però parte della critica, tra cui lo stesso professor Kemp, ha voluto riconoscere la mano di Leonardo, limitatamente ad alcuni dettagli: nella fattispecie, sarebbe rivelatore il pesce, dipinto da un artista che “non è semplicemente un evocatore”, sottolinea il professore durante la lectio, “ma un pittore della luce, che si distingue per una tecnica quasi impressionistica”.

La carriera di Leonardo era cominciata nella bottega del Verrocchio, dove l’artista arrivò giovanissimo: “il Verrocchio”, continua lo storico dell’arte britannico, “si serviva di Leonardo come suo collaboratore, come faceva con artisti più anziani, come Lorenzo di Credi. Ma Leonardo aveva un talento particolare”, che gli consentì di realizzare dei capolavori fin da un’età molto precoce. È il caso, per esempio, dell’Annunciazione, opera particolarmente elaborata se si osserva lo studio della prospettiva, l’accuratezza nella resa degli elementi naturali, il disegno complesso. Leonardo, ipotizza Kemp, in queste prime fasi della sua carriera doveva essere impiegato nella bottega del Verrocchio come specialista nella raffigurazione di elementi naturali: è così che ci appare in un lavoro come il Battesimo di Cristo, eseguito dal Verrocchio assieme ad almeno altri due artisti della bottega, uno dei quali è Leonardo, mentre l’altro (quello che ha eseguito, per esempio, la palma del paesaggio) un ignoto molto meno talentuoso. “Quando il Verrocchio cercava nei suoi dipinti qualcosa che somigliasse molto alla natura”, afferma Kemp, “la persona che veniva chiamata per occuparsene era Leonardo”. Di qui, dunque, l’idea che nel Tobiolo e l’angelo della National Gallery si debba scorgere anche la mano del giovane Leonardo.

Di carattere ancora verrocchiesco è poi un’altra celebre immagine degli anni giovanili, il Ritratto di Ginevra de’ Benci oggi alla National Gallery di Washington, nel quale Leonardo non fa altro che ‘replicare’, in un certo senso, una scultura del Verrocchio (la Dama del mazzolino oggi al Museo del Bargello: l’opera di Leonardo, purtroppo, è stata tagliata in epoca imprecisata, altrimenti avremmo visto le mani della nobildonna). La vera novità (oltre che nello sguardo della donna, nel modo in cui guarda l’osservatore), anche in questo caso, risiede nel piglio già ‘da scienziato’ con cui Leonardo affronta il dato naturale: Martin Kemp, in particolare, richiama l’attenzione sul paesaggio e sulla verosimiglianza del ginepro che compare alle spalle della protagonista.

Andrea del Verrocchio e aiuti, Tobiolo e l'angelo (1470-1475; tempera su tavola, 83,6 x 66 cm; Londra, National Gallery)
Andrea del Verrocchio e aiuti, Tobiolo e l’angelo (1470-1475; tempera su tavola, 83,6 x 66 cm; Londra, National Gallery)
Leonardo da Vinci, Annunciazione (1472 circa; olio su tavola, 90 x 222 cm; Firenze, Galleria degli Uffizi, inv. 1890 n. 1618)
Leonardo da Vinci, Annunciazione (1472 circa; olio su tavola, 90 x 222 cm; Firenze, Galleria degli Uffizi, inv. 1890 n. 1618)
Andrea del Verrocchio e Leonardo da Vinci, Battesimo di Cristo (1470-1475 circa; tempera e olio su tavola, 177 x 151 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Galleria delle Statue e delle Pitture, inv. 1890 n. 8358)
Andrea del Verrocchio e Leonardo da Vinci, Battesimo di Cristo (1470-1475 circa; tempera e olio su tavola, 177 x 151 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Galleria delle Statue e delle Pitture, inv. 1890 n. 8358)
Leonardo da Vinci, Ritratto di Ginevra de' Benci (1474-1479; tempera e olio su tavola, 38,8 x 36,7 cm; Washington, National Gallery of Art)
Leonardo da Vinci, Ritratto di Ginevra de’ Benci (1474-1479; tempera e olio su tavola, 38,8 x 36,7 cm; Washington, National Gallery of Art)
Andrea del Verrocchio, Dama dal mazzolino (1475 circa; marmo, 59 x 46 x 24 cm; Firenze, Museo Nazionale del Bargello, inv. Sculture 115)
Andrea del Verrocchio, Dama dal mazzolino (1475 circa; marmo, 59 x 46 x 24 cm; Firenze, Museo Nazionale del Bargello, inv. Sculture 115)

La rappresentazione del tempo nell’Ultima cena e nella Battaglia di Anghiari

C’è un altro fenomeno a cui Leonardo è interessato: il tempo. E ne darebbe prova nella celeberrima Ultima cena dipinta tra il 1494 e il 1498 nel refettorio del convento di Santa Maria delle Grazie a Milano: il Cenacolo di Leonardo è oggi uno dei musei più visitati del capoluogo lombardo. “Ho a lungo pensato”, ha dichiarato Martin Kemp, “a come Leonardo ha lavorato sulla nozione di ‘tempo’ e a come quest’ultima si riflette nei suoi dipinti”. Se si osservano gli studi per l’Ultima Cena, si può facilmente notare come Leonardo abbia considerato i diversi motivi, i diversi momenti dell’episodio evangelico. Esiste un disegno, conservato a Windsor, che può essere considerato uno studio per l’Ultima Cena, in cui vediamo Cristo fare qualcosa che non avrebbe potuto fare sul dipinto finito: sta partecipando alla conversazione con gli apostoli, sta indicando gli oggetti sul tavolo. “Non dobbiamo immaginarlo come un serio studio preparatorio per il dipinto definitivo”, dice Kemp, “ma è interessante per il modo in cui Leonardo studia il dipanarsi della storia, da destra verso sinistra”, il tutto seguendo una sorta di diagramma geometrico, con Giuda che si trova sul lato destro del tavolo, si alza e dà avvio alla narrazione. “La fluidità del tempo in Leonardo non è un accidente”, spiega lo studioso, ma è un effetto voluto: Leonardo pensa alla narrazione come al racconto di una storia, per cui nella sua scena non vediamo tanto un momento congelato nel tempo, ma un episodio che si estende nel tempo. Lo rivelano anche certi dettagli, per esempio san Tommaso che indica verso il cielo, oppure san Pietro che stringe un coltello: dettagli che non incarnano semplici simboli, ma introducono elementi di una storia molto estesa. “Il tempo, nell’Ultima cena, è affrontato in maniera davvero molto sottile, ed è legato alla filosofia di Leonardo da Vinci”, che considerava il tempo come un continuum indivisibile.

Anche la Battaglia di Anghiari, nota solo attraverso copie o derivazioni, dal momento che Leonardo non riuscì a portare a termine il lavoro sulla parte del Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio a Firenze che avrebbe dovuto accogliere il dipinto, può essere pensata come una narrazione continua. “È un po’ come se qualcuno avesse scritto la sceneggiatura di una scena di battaglia in un film”, dice Martin Kemp. Ed è Leonardo stesso, nel suo Trattato della pittura, a fornire dettagliatissime indicazioni su come eseguire le scene di battaglia: “Farai prima il fumo dell’artiglieria mischiato infra l’aria insieme con la polvere mossa dal movimento de’ cavalli de’ combattitori; la qual mistione userai cosí: la polvere, perché è cosa terrestre e ponderosa, e benché per la sua sottilità facilmente si levi e mischi infra l’aria, nientedimeno volentieri ritorna in basso, ed il suo sommo montare è fatto dalla parte piú sottile; adunque il meno sarà veduta, e parrà quasi del color dell’aria. Il fumo che si mischia infra l’aria polverata, quando piú s’alza a certa altezza, parrà oscure nuvole, e vedrassi nelle sommità piú espeditamente il fumo che la polvere. Il fumo penderà in colore alquanto azzurro, e la polvere trarrà al suo colore. Dalla parte che viene il lume parrà questa mistione d’aria, fumo e polvere molto piú lucida che dalla opposita parte. I combattitori, quanto piú saranno infra detta turbolenza, tanto meno si vedranno, e meno differenza sarà da’ loro lumi alle loro ombre. Farai rosseggiare i visi e le persone e l’aria vicina agli archibusieri insieme co’ loro vicini; e detto rossore quanto piú si parte dalla sua cagione, piú si perda; e le figure che sono infra te ed il lume, essendo lontane, parranno scure in campo chiaro, e le lor gambe, quanto piú s’appresseranno alla terra, meno saranno vedute; perché la polvere è lí piú grossa e spessa. [...] Farai vincitori correnti con capelli e altre cose leggiere sparse al vento, con le ciglia basse, e caccino contrarie membra innanzi, cioè se manderanno innanzi il piè destro, che il braccio manco ancor esso venga innanzi; e se farai alcuno caduto, gli farai il segno dello sdrucciolare su per la polvere condotta in sanguinoso fango; ed intorno alla mediocre liquidezza della terra farai vedere stampate le pedate degli uomini e de’ cavalli di lí passati. Farai alcuni cavalli strascinar morto il loro signore, e di dietro a quello lasciare per la polvere ed il fango il segno dello strascinato corpo. Farai i vinti e battuti pallidi, con le ciglia alte nella loro congiunzione, e la carne che resta sopra di loro sia abbondante di dolenti crespe. [...] Potrebbersi vedere molti uomini caduti in un gruppo sopra un cavallo morto. Vedransi alcuni vincitori lasciare il combattere, ed uscire della moltitudine, nettandosi con le mani gli occhi e le guance ricoperti di fango fatto dal lacrimar degli occhi per causa della polvere. Vedransi le squadre del soccorso star piene di speranza e di sospetto, con le ciglia aguzze, facendo a quelle ombra con le mani, e riguardare infra la folta e confusa caligine per essere attente al comandamento del capitano; il quale potrai fare col bastone levato, e corrente inverso il soccorso mostrandogli la parte dov’è bisogno di esso. Ed alcun fiume, dentrovi cavalli correnti, riempiendo la circostante acqua di turbolenza d’onde, di schiuma e d’acqua confusa saltante inverso l’aria, e tra le gambe e i corpi de’ cavalli. E non far nessun luogo piano senza le pedate ripiene di sangue”.

Il vinciano comincia la propria descrizione partendo dalla scienza, e in particolare dalla fisica, poiché il modo in cui suggerisce di dipingere la polvere e il fumo altro non è che fisica della polvere e del fumo, il che è “molto caratteristico di Leonardo”, sottolinea Kemp. C’è, nell’opera di Leonardo da Vinci, un senso del tempo (e della velocità, aggiunge lo studioso, dal momento che dobbiamo immaginarci una scena concitata resa con straordinaria verisimiglianza) che ha quasi del cinematografico: i cavalli che corrono, i soldati che combattono colpendosi a vicenda, quelli che cadono a terra, chi sparisce dietro la polvere. È una dimensione che, di nuovo, emerge soprattutto dagli studi: probabilmente lo stesso non sarebbe accaduto nel dipinto finito.

Leonardo da Vinci, Ultima Cena (1493-1498; tempera su intonaco, 460 x 880 cm; Milano, Santa Maria delle Grazie)
Leonardo da Vinci, Ultima Cena (1493-1498; tempera su intonaco, 460 x 880 cm; Milano, Santa Maria delle Grazie)
Leonardo da Vinci, Studio per l’Ultima Cena e appunti architettonici e geometrici (1490-1494 circa; penna e inchiostro, 260 x 210 mm; Windsor, The Royal Collection, inv. 912542)
Leonardo da Vinci, Studio per l’Ultima Cena e appunti architettonici e geometrici (1490-1494 circa; penna e inchiostro, 260 x 210 mm; Windsor, The Royal Collection, inv. 912542)
Francesco Morandini detto il Poppi (?), Tavola Doria (1563?; olio su tavola, 86 x 115 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi)
Francesco Morandini detto il Poppi (?), Tavola Doria (1563?; olio su tavola, 86 x 115 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi)
Leonardo da Vinci, Mischia tra cavalieri, un ponte e figure isolate, studio per la Battaglia di Anghiari (1503 circa; penna e inchiostro marrone su carta noce chiaro, 160 x 152 mm; Venezia, Gallerie dell’Accademia, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe)
Leonardo da Vinci, Mischia tra cavalieri, un ponte e figure isolate, studio per la Battaglia di Anghiari (1503 circa; penna e inchiostro marrone su carta noce chiaro, 160 x 152 mm; Venezia, Gallerie dell’Accademia, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe)
Leonardo da Vinci, Cavalieri in lotta, studio per la Battaglia di Anghiari (1503 circa; penna e inchiostro nero su carta, 145 x 152 mm; Venezia, Gallerie dell’Accademia, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe)
Leonardo da Vinci, Cavalieri in lotta, studio per la Battaglia di Anghiari (1503 circa; penna e inchiostro nero su carta, 145 x 152 mm; Venezia, Gallerie dell’Accademia, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe)

La Gioconda letta attraverso Dante Alighieri

“Cosa si potrebbe dire di nuovo sulla Monna Lisa?”, si domanda Martin Kemp durante la sua lectio al Leonardo3 Museum. Sulla Gioconda, forse il quadro più famoso della storia, in effetti è stato detto di tutto, ma ciò non significa che siano precluse le possibilità di aggiungere qualcosa di significativo all’interpretazione dell’opera. A Milano, Kemp propone di leggere il celebre ritratto di Lisa del Giocondo alla luce di un passaggio del Convivio di Dante Alighieri. Ci si è a lungo interrogati sui motivi dell’attrazione che la Gioconda da secoli esercita su chi la osserva. Martin Kemp risponde affermando che questo celeberrimo dipinto si caratterizza per le ragioni che Dante descrive proprio nel Convivio, e in particolare in un passaggio del III trattato: “E però che potrebbe alcuno avere domandato dove questo mirabile piacere appare in costei, distinguo nella sua persona due parti, nelle quali l’umana piacenza e dispiacenza più appare. Onde è da sapere che in qualunque parte l’anima più adopera del suo officio, che quella più fissamente intende ad adornare, e più sottilmente quivi adopera. Onde vedemo che nella faccia dell’uomo, là dove fa più del suo officio che in alcuna parte di fuori, tanto sottilmente intende, che, per sottigliarsi quivi tanto quanto nella sua materia puote, nullo viso ad altro viso è simile: perché l’ultima potenza della materia, la quale [è] in tutti quasi dissimile, quivi si riduce in atto. E però che nella faccia massimamente in due luoghi opera l’anima – però che in quelli due luoghi quasi tutte e tre le nature dell’anima hanno giurisdizione – cioè nelli occhi e nella bocca quelli massimamente adorna e quivi pone lo ’ntento tutto a fare bello, se puote. E in questi due luoghi dico io che appariscono questi piaceri dicendo: ‘nelli occhi e nel suo dolce riso’. Li quali due luoghi, per bella similitudine, si possono appellare balconi della donna che nel dificio del corpo abita, cioè l’anima: però che quivi, avegna che quasi velata, spesse volte si dimostra”.

Leonardo, spiega Kemp, ovviamente non ha voluto illustrare Dante, ma questo brano ben s’attaglia alla Gioconda poiché, afferma lo storico dell’arte inglese, quella che Dante restituisce nel suo trattato è “grammatica dell’amore”. Leonardo ha dunque riversato la propria attenzione sugli occhi e sulla bocca della Monna Lisa perché è attraverso questi due elementi, sostiene Dante, che una persona ci suscita piacere o disgusto. Un bel sorriso provoca piacere poiché, dice Dante, occhi e bocca sono i “balconi” di quell’edificio che è il corpo della donna, abitato dall’anima: e attraverso tali “balconi” l’anima si manifesta.

Leonardo da Vinci, La Gioconda (1503-1513 circa; olio su tavola, 77 x 53 cm; Parigi, Louvre)
Leonardo da Vinci, La Gioconda (1503-1513 circa; olio su tavola, 77 x 53 cm; Parigi, Louvre)

Il Salvator Mundi

Il Salvator Mundi è diventato famoso soprattutto per il prezzo che ha totalizzato in asta da Christie’s nel 2017: 450 milioni di dollari, l’opera più costosa mai venduta all’asta nella storia. Si tratta di un dipinto che ha suscitato enormi dibattiti anche sull’attribuzione, con una parte della critica che si è schierata contro e un’altra a favore. Martin Kemp è da tempo tra coloro che sostengono l’autografia di Leonardo da Vinci. Si tratta, intanto, di un’invenzione molto replicata: sono numerose, infatti, le copie che derivano dall’originale leonardesco. Tuttavia, sottolinea Kemp, nelle altre versioni non c’è la “fisica dei capelli” che si riscontra invece nel Salvator Mundi andato in asta da Christie’s, ovvero il movimento realistico dei capelli, il modo in cui la luce si riflette su di essi, il modo stesso in cui sono dipinti. Si tratta della prova di un artista che comprende la portata scientifica del movimento dei capelli, studiati esattamente come si studia il movimento dell’acqua, secondo una celebre immagine di Leonardo.

Altro elemento che ha portato Kemp a tenere in considerazione l’attribuzione dell’opera a Leonardo è la sfera cristallina che il Salvatore tiene in mando: si tratta di cristallo di rocca, come si può notare osservando le bolle imprigionate sotto la superficie, e come è stato confermato a Kemp da esperti di mineralogia. Secondo il parere di Martin Kemp, questo elemento, oltre a essere descritto con un’altissima precisione, tipica di Leonardo da Vinci, introduce anche una novità iconografica, nel senso che non ci troviamo più dinnanzi a un Salvator Mundi, ma a un “Salvatore del cosmo”. Infine, il fatto che l’opera abbia delle parti che si vedano in maniera più nitida e altre che invece sono più sfocate potrebbe essere un’allusione a quella “doppia verità” alla quale Leonardo da Vinci allude nei suoi dipinti più tardi, e con la quale Martin Kemp ha concluso la sua lectio. Ci sono sostanzialmente dei fenomeni che possiamo conoscere, e che ricadono nel dominio della nostra facoltà di comprendere razionalmente ciò che accade, e altri invece che rimangono ineffabili, che vanno al di là delle nostre conoscenze. Non dobbiamo pensare a Leonardo come a un artista spirituale, anche perché lui stesso scrisse di voler lasciare la definizione “ne le menti de’ frati, padri de’ popoli, li quali per ispirazione sanno tutti i segreti” di non occuparsi delle “lettere incoronate [le Sacre Scritture] perché son somma verità”: con la sua arte, conclude Kemp, Leonardo voleva però rendere evidente la sua “doppia verità”.

Leonardo da Vinci (attr.), Salvator Mundi (1499 circa; olio su tavola; 65,6 x 45,4 cm; Collezione privata)
Leonardo da Vinci (attr.), Salvator Mundi (1499 circa; olio su tavola; 65,6 x 45,4 cm; Collezione privata)

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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

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