Un vertice di modernità di Orazio Gentileschi: la Visione di Francesca Romana


La “Visione di Francesca Romana”, capolavoro che Orazio Gentileschi realizzò tra il 1618 e il 1620, lodatissimo da Roberto Longhi, è uno dei vertici della produzione del pittore pisano, perché è un dipinto straordinariamente moderno.

Ci sono due agiografie di santa Francesca Romana che narrano un preciso episodio, occorso il 6 settembre del 1431, quando la mistica romana, al secolo Francesca Bussa de’ Leoni, aveva sessantasette anni: mentre ascoltava la messa nella chiesa di Santa Cecilia, Francesca Romana venne rapita da una grande luce che la condusse in una stanza ov’era seduta la Vergine, con tre corone in capo, e risplendente di luce dorata, con in braccio Gesù, un bambino d’otto mesi d’età. Francesca venne condotta da un angelo vestito di fiori al cospetto della Madonna, e il piccolo Gesù cominciò a scherzare con lei. La santa, mossa d’amore, ebbe il desiderio di prendere il Bambino tra le braccia, ma il pargolo spariva ogni volta che lei provava ad avvicinarsi. Dopo qualche tentativo, una voce dalle nubi le ricordò il senso quella visione: cercare Gesù ogni giorno e infiammarsi d’amore per lui.

L’episodio è riportato nei testi di Ianni Mattiotti, sacerdote romano che fu confessore e primo biografo di Francesca Romana, e di fra’ Ippolito da Roma: li aveva bene in mente Orazio Gentileschi quando, verso il 1618, ebbe l’incarico di dipingere la Visione di Francesca Romana per i benedettini olivetani della chiesa di Santa Caterina Martire di Fabriano. È uno dei vertici della sua intera produzione, e non soltanto di quella del suo periodo marchigiano.

Solitamente si tende a pensare a Orazio Gentileschi come all’ingombrante padre di Artemisia, o tutt’al più come un seguace di Caravaggio. No: Orazio Gentileschi ebbe una personalità artistica definita, multiforme e versatile, altissima. Sapeva essere metafisico e terreno, sofisticato e crudo, intimo e magniloquente, fu capace d’aderire alla rivoluzione caravaggesca senza perder di vista la sua eleganza toscana, e fu in grado d’esprimersi con una compostezza e una pacatezza intrise d’emozione, che superano le maglie del manierismo tosco-romano ma rispetto al naturalismo caravaggesco sono situate su di un piano diverso, più meditato e spirituale. Fu Orazio un pittore dotato di straordinaria sensibilità, mai domo, colto e preciso, originale e totalmente autonomo, attento indagatore dell’arte del passato. Sono elementi che l’osservatore ritrova nella Visione di Francesca Romana.

Orazio Gentileschi, La Visione di santa Francesca Romana (1618-1620; olio su tela, 270 x 157 cm; Urbino, Galleria Nazionale delle Marche)
Orazio Gentileschi, La Visione di santa Francesca Romana (1618-1620; olio su tela, 270 x 157 cm; Urbino, Galleria Nazionale delle Marche)

È un incontro ultraterreno che Orazio Gentileschi descrive con una trepidazione ch’è forse più propria del nostro mondo. Il formato è verticale, il taglio obliquo: l’incontro tra la Vergine e santa Francesca Romana avviene sopra a una scalinata, sopra la quale è posto un trono di nubi soffice e saldo che accoglie la regina del cielo. La santa, con l’abito nero e il velo bianco delle Oblate di Tor de’ Specchi, l’istituto religioso femminile da lei fondato, è inginocchiata sul primo scalino, mentre Gesù Bambino, come fan tutti i bambini d’otto mesi d’età, smanaccia verso il suo volto per accarezzarla. Dietro, un bellissimo angelo vestito di broccato dorato s’inginocchia a sua volta tenendo le mani incrociate sul petto: è l’accompagnatore celeste che secondo le agiografie condusse Francesca Romana davanti alla Madonna. In alto, un coro di cherubini si manifesta entro un’abbagliante luce dorata che investe le nubi, e sull’angolo si nota una tenda di tessuto verde cangiante, tirata a mo’ di sipario: un dettaglio che si ritrova in altre opere di Orazio Gentileschi dello stesso periodo o di poco più tarde, come l’Annunciazione della Galleria Sabauda, rivisitazione dell’omologo dipinto della chiesa di San Siro a Genova, nella quale l’incontro tra la Vergine e l’arcangelo è parimenti esaltato da una tenda che si scosta.

Orazio Gentileschi, per la sua composizione, aveva vagliato tanto le fonti letterarie quanto quelle artistiche. Conosceva sia i testi di Ianni Mattiotti e di fra’ Ippolito da Roma, sia un paio di precedenti iconografici quattrocenteschi, quello del ciclo degli episodî della vita di Francesca Romana realizzato per la chiesa di Santa Maria Nuova, e gli affreschi di Antoniazzo Romano eseguiti nella chiesa di Tor de’ Specchi. Eppure, benché il sostrato di questo dipinto sia fondamentalmente quattrocentesco, Orazio Gentileschi seppe produrre un’opera di sconcertante modernità. E non soltanto per il modo intimo, delicato, toccante, commovente con cui l’artista seppe affrontare il tema della visione, offrendo al riguardante un corrispettivo per immagini delle parole delle agiografie. C’è, intanto, l’essenza forse più pura dell’arte di Orazio Gentileschi: quella delle raffinatezze d’un toscano che non rinunciò mai alle sue armonie coloristiche (la bellezza delle cromie della Visione è stata riconosciuta da tutti coloro che hanno scritto di questo mirabile dipinto), ma che accolse le novità del luminismo caravaggesco, “con conseguente trasparenza e risalto di modellato”, ebbe a scrivere Carlo Gamba. Ancora, la Visione di Francesca Romana brilla per la semplicità della sua composizione, per la compostezza con cui il divino si manifesta nel quotidiano della santa, per l’intelligente idea di suggerire l’incontro tra spirituale e terreno anche con l’incontro tra la luce dorata e quella cupa, per l’originalità d’un lirismo che potrebbe suggerire ulteriori spunti tratti dalle opere che Lorenzo Lotto lasciò nelle Marche durante i suoi ripetuti soggiorni in questa terra.

Una terra dove, peraltro, la Visione di Francesca Romana è sempre rimasta nonostante le tribolate traversie storiche che dovette attraversare: dopo esser rimasta per più d’un secolo e mezzo nella chiesa di Santa Caterina Martire, la tela uscì nel 1798 a seguito delle soppressioni napoleoniche degli ordini religiosi, anche se l’abate che all’epoca reggeva il monastero olivetano, Silvestro Marcellini, riuscì a evitare che l’opera venisse spedita a Milano, a Bologna, a Parigi o in altre città dove finirono molte delle opere che decoravano le chiese marchigiane. Alla scomparsa di Marcellini, le opere ch’erano nelle sue disponibilità furono ereditate da un ufficiale pubblico, Carlo Rosei, e nel 1941 i discendenti di quest’ultimo vendettero la tela allo Stato italiano: così oggi questo vertice della produzione gentileschiana è patrimonio di tutti, e lo si può ammirare alla Galleria Nazionale delle Marche.

C’è, infine, un ulteriore aspetto che rende importante quest’opera: la possiamo considerare come “uno dei primi dipinti realizzati sui rapporti tra colore, luce e forma che costituiscono il fondamento di tutta la pittura moderna, fino all’impressionismo di Monet e Renoir”, ha scritto lo storico dell’arte Andrea Bernardini. Fu Roberto Longhi, nel 1916, a spiegare cos’è che rendesse così eccezionale questo dipinto, che lui considerava “una delle prime cose riescite sulla base dei valori, invece che sulla base dei colori”: un dipinto dove l’equilibro tra forma, luce e colori raggiunge vette inusitate e sottende una complessità da intendersi come “rapporti scalati di quantità luminose nei colori; quantità che appunto perché scalate divengono qualità d’arte: valori”. La rivoluzione caravaggesca aveva trovato un interprete aggiornato e innovativo, anche in un dipinto devozionale destinato a una chiesa di periferia: nell’arte del Seicento non è raro trovare queste punte in provincia.

 


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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