Il mercato dell'arte premia davvero l'innovazione o solo la rendita?


Nel mercato dell’arte contemporanea la novità è spesso subordinata alla rendita: visibilità, legittimazione e valore economico contano più del rischio creativo. E l’innovazione autentica fatica a emergere e a essere riconosciuta. L’articolo di Federica Schneck.

Nel mondo dell’economia, l’innovazione è ciò che sposta gli equilibri. È la forza che disegna il futuro, che rompe i paradigmi, che costringe il sistema a reinventarsi. Ma nel mondo dell’arte contemporanea, dove tutto appare instabile e in divenire, dove ogni artista sembra voler “rompere con il passato”, dove ogni biennale proclama il nuovo, è davvero l’innovazione a essere premiata? O, più subdolamente, è la rendita a dominare, economica, simbolica, curatoriale, travestita da avanguardia?

Il mercato dellarte, come ogni altro mercato, è costruito su dinamiche precise: visibilità, scarsità, reputazione, aspettativa. E come ogni altro mercato, anche quello dell’arte ha sviluppato le sue zone di sicurezza: artisti già affermati, gallerie consolidate, collezionisti influenti, istituzioni che garantiscono affidabilità. In questo ecosistema, quanto spazio resta per il rischio autentico, per la sperimentazione radicale, per l’irruzione dell’inaspettato?

È una domanda che interroga non solo il funzionamento del mercato, ma anche la nostra idea stessa di “arte contemporanea”. E che obbliga a riconsiderare se oggi l’arte sia ancora un laboratorio di senso o se sia diventata un settore come un altro, soggetto alle logiche del profitto e della protezione del capitale.

A parole, il mondo dell’arte premia la novità. Le fiere si presentano come vetrine del nuovo che avanza, le gallerie come fucine di giovani promesse, le riviste come radar del cambiamento. Ma chi frequenta con regolarità le grandi fiere internazionali, da Art Basel a Frieze, da TEFAF a FIAC, sa bene che, sotto la superficie, regna una profonda omogeneità. I linguaggi si somigliano, le tecniche si ripetono, le estetiche si uniformano.

Miart, fiera d'arte contemporanea
Miart, fiera d’arte contemporanea

Il fenomeno è noto: appena un artista sviluppa un linguaggio riconoscibile e spendibile, emergono rapidamente imitatori e variazioni sul tema. Lo stile si cristallizza, diventa formula, brand, segno distintivo da “produrre in serie”. Più che di innovazione, si tratta di standardizzazione del nuovo, un paradosso tipicamente postmoderno, dove anche la trasgressione viene codificata e messa a valore.

In questo contesto, ciò che davvero conta non è tanto il gesto innovativo, ma la sua capitalizzazione. Un artista può anche proporre un’opera dirompente, ma se non ha alle spalle una rete di legittimazione, curatori, critici, galleristi, advisor, difficilmente otterrà attenzione o mercato. Al contrario, un artista che ha già consolidato il proprio nome può permettersi di ripetersi senza grandi conseguenze. La domanda vera non è “chi innova?” ma: “chi trae rendita dall’innovazione?”. In molti casi, non sono gli artisti più radicali a beneficiare delle loro invenzioni, bensì coloro che riescono a intercettarne il linguaggio e a renderlo compatibile con il mercato.

Pensiamo alla street art, alla videoarte, alla performance: tutte pratiche inizialmente marginali, sperimentali, talvolta antagoniste. Oggi sono perfettamente integrate nel sistema, purché rientrino in determinati codici visivi, in specifici formati espositivi, in contesti controllabili. Non è un caso se molti dei maggiori performer contemporanei espongono ormai solo in musei o fiere, in formati replicabili, prevedibili, “curati”. Nel frattempo, artisti che lavorano ai margini, che non si piegano alle esigenze del mercato, faticano a emergere. Spesso rimangono invisibili, sottovalutati, esclusi. Non per mancanza di qualità, ma per mancanza di adattabilità al sistema. L’innovazione, nel mercato dell’arte, viene premiata solo se è funzionale, se genera attenzione senza creare disordine, se è nuova ma non troppo, se rompe ma non spacca.

Il nodo centrale è che il mercato dell’arte non valuta l’innovazione in base al suo impatto culturale, ma in base alla sua redditività potenziale. Un’opera innovativa, se non è già sostenuta da una narrazione vincente, non ha valore. E una narrazione vincente, lo sappiamo, si costruisce con investimenti mirati: pubblicazioni, mostre, vendite strategiche, relazioni istituzionali.

Questo sistema genera un meccanismo di auto-legittimazione: chi ha i mezzi per costruire valore, può decidere cosa vale. Così, la valutazione critica viene spesso sostituita dalla valutazione finanziaria. Il prezzo fa la qualità. Se un’opera vale milioni, allora “deve” essere importante. Se un artista è in asta da Sotheby’s, allora “deve” essere innovativo. Il mercato si auto-conferma e diventa autorità. Il rischio è che l’arte perda il suo slancio più profondo: quello di interrogare, di disallineare, di fare attrito. Perché l’innovazione vera, quella che scardina i paradigmi, non è mai comoda. E il mercato, per sua natura, predilige la stabilità, la continuità, la rendita.

Non tutto, però, si riduce al qui e ora del valore economico. La storia dell’arte ci insegna che l’innovazione vera agisce spesso nel lungo periodo. Molti artisti rivoluzionari sono stati ignorati in vita, e solo il tempo ha rivelato la portata del loro contributo. L’innovazione profonda è spesso invisibile ai mercati immediati, perché non è pensata per piacere ma per interrogare.

In questo senso, il giudizio storico e il giudizio di mercato raramente coincidono. E proprio per questo, il compito delle istituzioni culturali, musei, accademie, riviste, fondazioni, dovrebbe essere quello di custodire e promuovere la complessità, anche quando non è redditizia. Dovrebbe sostenere l’arte che rischia, che non si piega, che non genera rendita immediata ma semina domande per il futuro.

Il mercato dell’arte, oggi, si trova di fronte a un bivio. Da un lato, può continuare a premiare la rendita, a valorizzare ciò che funziona, a cercare il profitto breve. Dall’altro, può scegliere di sostenere pratiche più rischiose, più profonde, più lente. Ma questa scelta non spetta solo ai collezionisti o agli investitori: riguarda tutti noi.

Perché in fondo, la domanda è collettiva: che tipo di arte vogliamo sostenere? Quella che conferma il presente o quella che lo mette in discussione? Quella che si adatta al sistema o quella che lo decostruisce? Quella che genera capitale o quella che genera pensiero? Se davvero crediamo che l’arte sia ancora uno spazio di libertà e immaginazione, allora dovremmo avere il coraggio di rimettere in discussione le logiche che la governano. Anche a costo di perdere qualche certezza. Anche a costo, paradossalmente, di mettere in crisi il mercato stesso.


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Federica Schneck

L'autrice di questo articolo: Federica Schneck

Federica Schneck, classe 1996, è curatrice indipendente e social media manager. Dopo aver conseguito la laurea magistrale in storia dell’arte contemporanea presso l’Università di Pisa, ha inoltre conseguito numerosi corsi certificati concentrati sul mercato dell’arte, il marketing e le innovazioni digitali in campo culturale ed artistico. Lavora come curatrice, spaziando dalle gallerie e le collezioni private fino ad arrivare alle fiere d’arte, e la sua carriera si concentra sulla scoperta e la promozione di straordinari artisti emergenti e sulla creazione di esperienze artistiche significative per il pubblico, attraverso la narrazione di storie uniche.



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