L’internet generato dagli utenti ha prodotto uno dei più singolari paradossi culturali del nostro tempo: il declino delle recensioni professionali a fronte della dilagante pervasività delle recensioni amatoriali, rese su qualunque prodotto o servizio possa essere acquistato oggi da un essere umano. È noto a tutti che, oggi, piattaforme e social ci offrono la possibilità di pubblicare, senza grossi filtri, la nostra opinione su qualsiasi cosa, dall’annaffiatoio comperato per bagnare i gerani sul terrazzo fino all’hotel in cui abbiamo prenotato le nostre vacanze, tanto che ormai molti basano i loro acquisti sui punteggi delle recensioni user-generated e decidono di comperare qualcosa dopo aver letto le opinioni di chi è già in possesso di quel prodotto oppure ha già usufruito di quel servizio. Il rovescio, apparentemente paradossale, è che sono quasi del tutto scomparse le recensioni scritte da chi scrive recensioni per mestiere. Ci pensavo mentre leggevo una notizia che ha sollevato qualche discussione negli Stati Uniti e che in Italia è passata quasi del tutto sotto traccia: a partire dal 1° settembre, la Associated Press smetterà di pubblicare recensioni di libri. L’agenzia di stampa ne ha dato comunicazione ai suoi collaboratori attraverso una circolare che Dan Kennedy di Media Nation ha pubblicato sul suo sito personale: “Purtroppo”, si legge nella circolare, “il pubblico delle recensioni di libri è relativamente basso e non possiamo più sostenere il tempo necessario per pianificare, coordinare, scrivere e revisionare le recensioni”. E poi, traduco letterale: “La AP continuerà a occuparsi di libri come storie, ma al momento queste saranno gestite esclusivamente dal personale interno”.
È una decisione che sorprende più per la sua brutale onestà che per il fatto in sé: in sostanza, il pubblico sembra non abbia più la voglia o l’interesse di leggere recensioni scritte da professionisti. Perché allora sprecare tempo e soldi per commissionare a un collaboratore esterno una recensione professionale che, quando va bene, sulla più parte dei lettori avrà lo stesso effetto di un riassunto della trama, e quando va male sarà semplicemente ignorata? Perché dover spendere denaro per chiedere a qualcuno di leggere il libro, farsi un’idea, valutarlo e condividere la sua valutazione col pubblico, se il pubblico ormai s’accontenta delle stories (adopero lo stesso termine della circolare) che si limitano a riscrivere la descrizione in quarta di copertina, o tutt’al più un comunicato? Si fa prima a somministrare ai lettori una risciacquatura di una nota stampa, nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore basterà un reel di trenta secondi su Instagram.
Fin qui, niente di strano per chi lavora nell’editoria culturale: la novità, semmai, è che c’è qualcuno che ha il coraggio di giocare a carte scoperte e di ammettere, seppur implicitamente, che non c’è più interesse a far uscire recensioni di libri perché il pubblico desideroso d’informarsi sulle uscite editoriali si sta orientando verso altri tipi di contenuti. Quali? Chi voglia farsi un’idea piuttosto precisa può recuperare un articolo uscito qualche settimana fa su Mow Mag, a firma di Alessia Kant, che offre a grandi linee una qualche spiegazione su quello che sta accadendo in Italia, terra in cui il paesaggio della critica culturale è ancor più desertificato di quello degli Stati Uniti dove pure le agenzie di stampa chiudono le recensioni dei libri. Il processo non è nuovo: già tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta c’era chi lamentava la scomparsa della critica, e le ragioni profonde sono quelle che ci tiriamo dietro da decenni: da una parte l’istituzionalizzazione della critica, dall’altra i nuovi modelli organizzativi dell’industria culturale che ha sempre più bisogno di buona stampa (o, ancor più banalmente, di buona comunicazione), sempre meno necessità di critica. È un circolo vizioso: riassumendo brevemente e semplificando con una certa violenza, le case editrici, per ovviare all’imprevedibilità che caratterizza il mercato in cui operano, pubblicano sempre più libri, un po’ perché spinte dalla necessità di vendere di più in un settore dove c’è una sovrabbondanza d’offerta, un po’ perché mosse dalla speranza d’ottenere maggiore visibilità sulle piattaforme online da cui passa ormai una porzione consistente delle vendite, un po’ perché le librerie rinnovano gli scaffali alla velocità della luce, un po’ perché la concorrenza s’è intensificata. In un simile contesto di sovrapproduzione, la critica si trova sempre più marginalizzata perché, da un lato, non riuscendo più a esercitare la propria azione di mediazione sul pubblico, assiste a una progressiva riduzione della propria rilevanza, e dall’altro perché, essendo oggi i tempi di obsolescenza di un libro molto più rapidi rispetto a quelli di anche soltanto cinque o dieci anni fa, la funzione del marketing diventa più utile in quanto più veloce e più semplice rispetto alla critica e pertanto in grado di garantire un impatto immediato sulle vendite. A tutto questo vanno poi aggiunti altri fenomeni, come l’erosione dell’autorità culturale della critica (detta altrimenti: oggi una recensione di un critico professionista non determina più il destino di un libro), la legittimazione dal basso (buona parte del pubblico oggi tende a dar più ascolto alle cosiddette community e agli influencer che alla critica) e le sempre più strette interrelazioni tra coloro che producono e coloro che valutano (ovvero quel fenomeno da alcuni causticamente detto “amichettismo”). È un processo simile a quello che ha interessato anche l’arte, un pantano di cui s’è già abbondantemente scritto su queste pagine, ma dal quale l’arte riesce forse a salvarsi un po’ meglio, per ragioni che si diranno poco più sotto.
Per guardare più da vicino alla questione sollevata da Associated Press, lo storytelling che si mangia la critica appare più come una conseguenza che come una causa, esattamente come i bookinfluencer di cui si parla nell’articolo di Mow Mag, che difficilmente verrebbe da additare come i responsabili della crisi della lettura: sono semmai una conseguenza che rischia d’aggravare il declino. Lo storytelling s’è inserito nel vuoto di mediazione che la critica e il giornalismo culturale hanno cominciato a lasciare ancor prima ch’esistessero i social e ha consentito la proliferazione di influencer e creator che, favoriti da algoritmi che premiano la sintesi estrema e la rapidità, hanno offerto quello che mancava: immediatezza, coinvolgimento degli utenti, presunta vicinanza, senso di far parte d’una comunità. E pure una certa gradevolezza: oggi basta puntarsi in faccia un telefono da poche centinaia di euro e utilizzare un programma di editing anche basilare per avere un video accattivante da somministrare alla propria base (e per molti, l’influencer che suggerisce libri sulla base del colore della copertina in un video di una trentina di secondi è più interessante e soprattutto più piacevole rispetto alla recensione di chi fa critica per mestiere). La loro affermazione rischia però, come anticipato, di trasformarsi in un fattore di rinforzo della crisi della critica e della crisi della lettura, da un lato perché molte case editrici preferiscono investire su queste figure, e dall’altro perché una parte consistente di quello che gli influencer suggeriscono alla loro utenza non è frutto d’una valutazione critica e imparziale resa ai lettori secondo criteri professionali, ma più semplicemente deriva da accordi di sponsorizzazione che l’influencer di turno ha stretto con l’editore, che gli ha passato il titolo da raccontare ai suoi follower, o da inserire in una lista dei “dieci libri da leggere durante l’estate” o simili.
L’arte, dicevamo, è riuscita in parte a salvarsi dal dominio dei suggeritori amatoriali che nell’editoria si sono ritagliati un ruolo sempre più consistente, per una serie di ragioni. Intanto, perché parlare di mostre e musei è logisticamente più impegnativo che parlare di libri: non puoi parlare di una mostra dalla cameretta di casa tua, devi andarla a visitare, con tutto quel che comporta in termini di tempo e spesa (ragione per la quale il grosso degli influencer e dei creator del nostro settore si contenta d’offrire al proprio pubblico forme più o meno superficiali di divulgazione, e raramente si vedono influencer d’arte andare in giro per mostre: se le visitano, solitamente è perché sono vicine a dove hanno la base, oppure perché l’organizzazione li invita e di conseguenza trovare un influencer o un creator con numeri significativi che faccia critica è quasi impossibile, per ragioni di cui s’è già detto). Poi, perché l’arte viene percepita come una nicchia più della letteratura. Per fare un paragone sportivo: l’arte sta alla scherma come la letteratura sta al calcio. Ovvero, è uno sport che guardiamo con ammirazione ma che non valutiamo perché riteniamo che per valutarlo occorra conoscerlo bene. Dall’altra parte c’è invece uno sport su cui chiunque si sente legittimato a esprimere un parere, malgrado richieda non meno competenze rispetto all’altro. E, ancora, perché nel settore dell’arte, nonostante tutto, in Italia esiste ancora una rete di testate specializzate molto seguite e dinamiche che, seppur interessate dalla crisi, fanno nel complesso numeri molto alti e costituiscono un’eccellenza, di cui c’è poca contezza fuori dal comparto e che, almeno in Europa, non ha eguali.
Naturalmente questo non significa che il settore dell’arte soffra meno il problema della progressiva scomparsa della critica. Anzi: anche nell’arte è lo storytelling che comanda. C’è dunque da rassegnarsi? Le recensioni verranno definitivamente soppiantate dalle stories? Altri seguiranno l’esempio della Associated Press? Sarebbe bello poter dire di no e offrire una prospettiva rassicurante, ma se una delle principali agenzie di stampa del mondo ritiene antieconomica la produzione di recensioni di libri, riesce veramente difficile intravedere un futuro radioso per la critica, riesce difficile dire che sarebbe sufficiente invertire la rotta e basterebbe semplicemente che i giornali tornassero a fare critica. Al momento, purtroppo, non s’intravedono possibilità per un miglioramento dello status quo. Ora, non posso parlare per gli Stati Uniti conoscendo poco il pubblico e il sistema editoriale di quelle latitudini, ma per l’Italia si può dire, a meno d’imprevedibili stravolgimenti, che le recensioni, con tutta probabilità, caleranno in maniera sempre più consistente sulle testate generaliste e riusciranno a sopravvivere nelle testate specializzate, per il semplice fatto che, tolta la parte sempre più risicata di pubblico che legge quotidiani e riviste su carta, i comportamenti degli utenti digitali (ricerche, frequentazione dei social network, utilizzo di app e via dicendo) tendono a premiare la specializzazione. Non è detto però che anche le testate specializzate riescano a reggere bene i contraccolpi di un’infodemia sempre più grave (non sappiamo, per esempio, che impatto potrà avere l’intelligenza artificiale). Si potrebbe, certo, sottolineare che la critica dovrebbe evolversi e trovare altre forme: video di lunga durata, Substack, podcast e altri formati percepiti come più freschi dal pubblico. Il problema però non sembra essere il formato: un critico costa X sia che scriva un articolo, sia che s’accenda una telecamera in faccia. Il problema, dunque, è che fare critica è un mestiere oneroso. E allora, se non vogliamo veder definitivamente morta la nostra critica, che di certo non soffre meno rispetto a quella degli Stati Uniti, servirebbero misure utili, da un lato, a garantire l’indipendenza dell’editoria, e dall’altro a incentivare la lettura. In questo senso bene ha fatto il ministro Alessandro Giuli che nel Piano Olivetti nella Cultura ha messo sul piatto dieci milioni di euro per rafforzare l’offerta culturale dei quotidiani cartacei e quarantaquattro per il sostegno alle biblioteche, alle librerie e all’editoria. Ovvio però che non basta, anche perché il Piano Olivetti non tiene conto delle testate che lavorano col digitale, e il grosso dei fondi per l’editoria riguarda l’acquisto di libri: servirebbero, dunque, azioni di promozione della cultura critica che partano dalle scuole, premi e riconoscimenti, campagne di sensibilizzazione che valorizzino il ruolo della critica come strumento di conoscenza e mediazione culturale per far capire al pubblico che leggere recensioni o saggi critici è un valore aggiunto per una consuetudine consapevole con la cultura (per tanti, invece, oggi una stroncatura o una recensione negativa equivalgono a un affronto, a un insulto: è la più evidente e immediata conseguenza della disabitudine alla critica), sostegno all’editoria digitale. E il pubblico dovrebbe riconoscere che se la crisi continuerà ad aggravarsi e se la critica scomparirà dagli orizzonti di un pubblico sempre meno abituato alla critica, a mancare non saranno i libri. I libri continueranno a esserci. Mancheranno i lettori.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Al suo attivo anche docenze in materia di giornalismo culturale (presso Università di Genova e Ordine dei Giornalisti), inoltre partecipa regolarmente come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).
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