Una nuova socialità? Su cultura, società e Covid: libertà significa dovere e responsabilità


Il Covid ci impone una riflessione sul nostro senso di comunità, tanto più adesso, mentre la situazione si aggrava. Come ne uscirà la nostra società?

Ieri riguardavo Autunno, il dipinto di Peter Bruegel il Giovane. Mi colpiva l’aria di festa che traspare dalla tela: i contadini in primo piano intenti a lavorare il maiale, quelli sullo sfondo immersi nelle pratiche della vendemmia, con botti, tini, acini, carretti per trasportare il prezioso raccolto. E ancora altre persone pronte a mettere pentole sul fuoco (da far partire), altri che si intravedono nella piccola casa, indaffarati a osservare, discutere, organizzare la festa. Perché l’autunno vuol dire festa, comunità, riti sociali: dalle sagre alle cene, dalla (ri)scoperta dei prodotti della terra alla dolce malinconia legata al passaggio di stagione. L’estate portatrice di bagordi ed esagerazione è alle spalle, l’inverno con le rigidità climatiche e fisiche è di là da venire. Dunque è il momento per incontrarsi con calma, dialogare, confrontarsi, mettere in forma e pratica rituali sacri (le celebrazioni dei defunti) e pagani (Halloween).

Niente di tutto ciò sembra essere quest’autunno del nostro scontento. Ripiombati in un semi-confinamento in cui le regole, spesso invasive della società, impongono un nuovo distanziamento sociale, la rinuncia a quasi tutti i rituali di comunità, l’impossibilità di ritrovarsi con gli amici per cene dialogiche o conversazioni da salotto. Il coprifuoco, perfino, un po’ come avveniva a Parigi alla fine del 1500, quando alle sette di sera le campane di Notre-Dame davano il segnale che indicava alla gente l’obbligo di chiudersi in casa, a porte sprangate. E anche l’arte paga il suo tributo al virus. I musei e le mostre, che strenuamente avevano resistito durante le settimane di settembre e ottobre, sono stati costretti a chiudere dall’ultimo corposo Dpcm. Eppure, ancora, mi chiedo: davvero questi luoghi di cultura sono veicoli talmente imponenti di contagio? Davvero in pinacoteche e Kunsthalle vi sono probabilità di assembramenti talmente alte? Ne dubito fortemente, ma posso immaginare il pericolo rappresentato dal flusso di persone, anche turisti, che si sarebbero spostati per andare a visitare gli Uffizi o i Musei Vaticani privi delle folle di stranieri.

Pieter Bruegel il Giovane, Autunno (1624; olio su tavola, 42,8 x 59 cm; Bucarest, Museo Nazionale d'Arte della Romania)
Pieter Bruegel il Giovane, Autunno (1624; olio su tavola, 42,8 x 59 cm; Bucarest, Museo Nazionale d’Arte della Romania)


Ma come si è arrivati a questo punto, almeno in Italia? Per l’incapacità governativa di prevedere la seconda ondata, dicono alcuni. Per un atteggiamento troppo permissivo permesso da alcuni presidenti di Regione, dicono altri. Tuttavia, il ritorno del virus è un dato di fatto e ci ritroviamo tappezzati di colori differenti in base alle province in cui si vive, si dimora, si lavora, si studia. Quello che a me colpisce, tuttavia, è la mancanza di responsabilità dimostrata da molti. Responsabilità civile e umana, di rispettare le regole di distanziamento durante i mesi estivi per tutelare le persone fragili e rispettare tutti coloro appartenenti al campo medico-sanitario che hanno lottato strenuamente durante i mesi passati.

Riguardando i mesi appena trascorsi, diciamo da giugno a ottobre, mi sembra evidente il passaggio che sta caratterizzando la nostra società: dalla cura sui alla incuria sui, dall’essere una comunità (in linea puramente teorica) al trasformarsi in una sorta di monade, capitalisticamente concentrati nel pensare alla propria sorte, in un delirio di individualismo solipsistico che considera l’altro come un con-corrente e non come un simile, verso cui mostrare solidarietà e altruismo soprattutto se rischia di trovarsi in difficoltà. L’autocontrollo del proprio Sé si è allentato alquanto, si tende a scavalcare o sopravanzare l’altro, in una società occidentale in cui l’imbarbarimento del discorso pubblico e un surplus quotidiano di emozioni negative è oramai certificato da numerosissimi studi sociologici. Non conta dunque salvare la comunità ma soltanto sé stessi? Siamo di fronte a una regressione a una società hobbesiana in cui l’homo homini lupus tornerà regola dirimente? Eppure, soprattutto durante una pandemia come quella in corso, il concetto di libertà dovrebbe coincidere, in termini kantiani, con quelli di dovere e responsabilità. Anche perché nessuno si salva da solo e non può esserci futuro senza una socialità che ne tratteggi le possibilità.

Siamo dunque entrati in un processo di destoricizzazione, in cui ci si rende conto che non siamo più noi a fare la storia ma ce la troviamo già bell’e fatta da eventi al di fuori del nostro controllo? Per rispondere a queste domande è necessario svolgere ricerche approfondite. Quello che mi pare evidente è un ulteriore sfilacciamento del legame sociale, travolto dalla disgregazione di quel sentire comune che sta alla base della comunità di individui alla quale tutti, volenti o nolenti, apparteniamo in quanto esseri umani e sociali.


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Massimo Cerulo

L'autore di questo articolo: Massimo Cerulo

Massimo Cerulo, sociologo, è professore associato di sociologia all'Università di Perugia e chercheur associé del laboratorio CERLIS - Centre de Recherche sur les Liens Sociaux (Università di Paris Descartes, Università Paris 3 Sorbonne Nouvelle, Centre National de la Recherche Scientifique).



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