Quando gli artisti dipingevano come bambini. Il primitivismo infantilista nell'arte italiana del primo Novecento


Recensione della mostra “L'artista bambino. Infanzia e primitivismi nell'arte italiana del primo '900” a Lucca, Fondazione Ragghianti, dal 17 marzo al 2 giugno 2019.
Quando gli artisti dipingevano come bambini. Il primitivismo infantilista nell’arte italiana del primo Novecento

In un’intraprendente mostra che fu allestita alla Mole Antonelliana di Torino nel 1990 e che s’intitolava Espressionismo italiano, i curatori Renato Barilli e Alessandra Borgogelli si ponevano l’obiettivo dichiarato di “riportare alla luce una specie di continente sommerso di cui, come succede nella realtà geografica dalla quale è tratta la metafora, sopravvivono nuclei sparsi, picchi isolati, altopiani interrotti”: il continente sommerso che Barilli e Borgogelli intendevano far riemergere e sulla cui esistenza si voleva porre l’accento era, appunto, quello dell’espressionismo italiano. Un’etichetta che s’era adoperata per comodità, al fine di riunire sotto un’unica categoria una serie di diverse esperienze e personalità, e che tuttavia erano accomunate dalla volontà di tentare un’altra via rispetto a quella della pittura legata a logiche di mímesis. E un’etichetta mutuata dagl’indirizzi che andavano affermandosi contemporaneamente in Francia e nel nord Europa, benché gli espressionisti italiani fossero separati dai loro colleghi stranieri da divergenze alquanto marcate: prime tra tutte, il carattere disomogeneo degli espressionisti italiani, che mai s’unirono in gruppi (come invece accadde per gli artisti che fondarono Die Brücke a Dresda o Der blaue Reiter a Monaco di Baviera) o mai ebbero un luogo di riferimento, e la natura delle loro tensioni primitiviste. Si pensi a quanto soleva accadere nella Parigi o nella Monaco di Baviera d’inizio Novecento, quando il fascino per le culture extraeuropee orientò in maniera decisiva gl’interessi degli espressionisti d’area tedesca nonché quelli dei cubisti. Al contrario, in Italia la ricerca di forme archetipiche ebbe semmai qualche tangenza con gli esperimenti d’un Paul Klee che niente trascurò nella sua indagine sulle origini dell’arte (e “alle origini dell’arte” era anche il titolo d’una recente mostra milanese, curata da Michele Dantini e Raffaella Resch, che ha compiuto un’accurata indagine delle fonti artistiche e storiografiche alla base delle figurazioni dell’artista svizzero), e fu nutrita da un rinnovato interesse per l’arte medievale e per le espressioni artistiche dei bambini.

Oggetto di studî recenti, queste vicende dell’arte italiana a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo s’arricchiscono d’un nuovo contributo: la mostra L’artista bambino. Infanzia e primitivismi nell’arte italiana del primo ’900, allestita presso la Fondazione Ragghianti di Lucca fino al 2 giugno 2019 e curata da Nadia Marchioni. La rassegna lucchese intende fornire nuovi contributi al fine d’inquadrare in maniera più approfondita il contributo che l’universo infantile ha garantito all’arte italiana del primo Novecento: e per una mostra che si ponesse tale obiettivo non poteva esistere sede più appropriata, dacché si devono a Carlo Ludovico Ragghianti (Lucca, 1910 - Firenze, 1987) alcune pregnanti ricerche sul tema, ch’ebbero il merito di riconoscere l’importanza di certe pulsioni per la cultura artistica italiana d’inizio Novecento, di chiarire le connessioni tra arte infantile, arte popolare o spontanea e arte dei cosiddetti primitivi (gli artisti dal Duecento al primo Quattrocento), e di porre in relazione ai pittori d’area apuana quelle “proposte che, sia pure nell’ambito del culturalismo spiccato che contrassegna il periodo delle Secessioni, formano un traliccio bene identificabile”: un insieme d’artisti che, “senza essere né un cenacolo né un gruppo”, restarono “in circolo nel periodo anteriore al 1914, e gli scambi sono dichiarati”.

La critica ha già da tempo rilevato l’importanza della componente infantilista nell’arte dei primi del Novecento: una componente che rivestì un ruolo d’impatto significativo nel tentativo, da parte d’una vasta pletora d’artisti, di tornare alle radici della figurazione, e che si sommò (e in certi casi, come si vedrà, si mescolò) al recupero degli artisti che operarono prima del Rinascimento. La riconsiderazione dell’esperienze artistiche dei bambini ben s’attagliava ai propositi d’un’arte che privilegiava l’espressione rispetto alla rappresentazione (e per tali ragioni l’interesse per l’infanzia affascinò gran parte dei più innovativi artisti dell’epoca, da Klee a Kandinskij, da Gabrielle Münter a Franz Marc), e se si considera il fatto che presso diverse culture non si dà distinzione netta tra arte infantile e arte adulta, ne consegue che le istanze infantiliste risultassero anche consentanee alle ricerche di quanti guardavano con vivo trasporto alle manifestazioni artistiche delle popolazioni più lontane. Ne sortirono il fiorire di mostre dedicate all’arte dei bambini, lo studio delle peculiarità dei disegni dei più piccoli e del loro modo d’esprimersi attraverso segni e colori su carta, la volontà, manifestata da diversi artisti, di collezionare opere realizzate da bambini (ne fu un esempio il ben noto almanacco del Blaue Reiter promosso da Kandinskij). Sostanzialmente, vigeva la consapevolezza, enunciata in maniera più o meno esplicita secondo i singoli casi e le singole personalità, che i limiti del concetto d’arte andassero estesi, e per lavorare in tal senso occorreva, di conseguenza, estendere anche la platea dei soggetti da valutare, specie se tra i fini principali delle sperimentazioni s’annoverava quello di rimontare alle fonti primigenie dell’espressione artistica.

Una sala della mostra L'artista bambino alla Fondazione Ragghianti di Lucca
Una sala della mostra L’artista bambino alla Fondazione Ragghianti di Lucca


Una sala della mostra L'artista bambino alla Fondazione Ragghianti di Lucca
Una sala della mostra L’artista bambino alla Fondazione Ragghianti di Lucca


Una sala della mostra L'artista bambino alla Fondazione Ragghianti di Lucca
Una sala della mostra L’artista bambino alla Fondazione Ragghianti di Lucca

L’interesse per l’infanzia cominciò tuttavia a delinearsi ancor prima che molti dei protagonisti della stagione espressionista nascessero, e in tal senso una delle finalità della mostra di Lucca è anche quella d’allargare la veduta per individuare, almeno in Toscana, quali potrebbero essere state le necessarie premesse: le prime due sezioni fungono dunque da introduzione storica e teorica. Risalgono a poco dopo la metà dell’Ottocento le prime premure degli artisti nei confronti del mondo dell’infanzia: se per la Francia si può assegnare a Gustave Courbet una sorta di ruolo da apripista, in Italia il primato spetta ad Adriano Cecioni (Fontebuona, 1836 - Firenze, 1886), artista realista che partecipò all’elaborazione teorica della pittura di macchia, che fu altresì tra i principali estimatori italiani di Courbet (anzi, probabilmente fu proprio Cecioni l’artista che, in Italia, più s’avvicino alle idee del grande francese) e ch’ebbe una vicenda biografica oltremodo sfortunata. L’apertura de L’artista bambino è affidata a una terna d’opere di Cecioni (Ragazzi mascherati da grandi, Primi passi e Ragazzi che lavorano l’alabastro) che pongono il pubblico di fronte alla viva emozione che il pittore e scultore toscano doveva avvertire nell’approcciarsi a tutto ciò che riguardasse i bambini. Dei bambini, Cecioni ammirava la spontaneità e la libertà (lo si percepisce in Ragazzi mascherati da grandi, dipinto nel quale, sottolinea la curatrice nel suo saggio a catalogo, “l’autore sembra voler denunciare una sorta di cortocircuito fra età adulta e universo infantile: i bambini che immaginano giocosamente la vita futura si riflettono negli occhi del pittore che ritorna fanciullo e li ritrae con un inedito linguaggio formale dalle sprezzature tanto esibite da evocare quasi le ben più moderne maschere di Ensor”) oltre che l’espressività e la capacità di provare sensazioni molto più intense e sincere rispetto a quelle degli adulti (Primi passi è opera esemplificativa). È evidente che l’immaginario di Cecioni fu pesantemente condizionato dalle sue vicissitudini personali, e queste connessioni sono ben sottolineate nel saggio di Silvio Balloni che, attraverso l’esame d’alcuni stralci di certe lettere di Cecioni inviate alla moglie Luisa tra il 1872 e il 1884 (inedite e pubblicate per l’occasione, altro interessante risultato ottenuto dall’esposizione lucchese), identifica la matrice della sua viva partecipazione sui temi dell’infanzia in quello che viene definito come un “affetto filiale esasperato e logorante”, e che immaginiamo aumentato fino alle soglie della morbosità dopo che l’artista perse nel 1870 la piccola figlia Florina, con la conseguenza che tutte le sue attenzioni si rivolsero sull’altro figlio, Giorgio: l’artista, quando lontano da casa, scriveva lettere colme delle più banali, ripetute e futili raccomandazioni, e pretendeva che la moglie lo informasse quotidianamente sullo stato di salute del figlioletto, fino al punto di ritenere una specie d’affronto la mancata ricezione d’una lettera.

Agli anni Ottanta si possono far risalire anche i preamboli teorici: data al 1886 la pubblicazione d’un importante libretto dell’archeologo e storico dell’arte, allora neanche trentenne, Corrado Ricci (Ravenna, 1858 - Roma, 1934), che raccoglieva i risultati d’una conferenza tenuta l’anno prima a Bologna e a Firenze. Ricci, col suo volumetto intitolato L’arte dei bambini, si poneva l’obiettivo d’identificare “la norma che guida l’arte dei bambini”, arrivando alla conclusione che i piccoli non rappresentano la realtà per come la vedono, ma per come la percepiscono (e di conseguenza ogni bambino, sottolineava Ricci, ritrae anche “ciò che più gli interessa, ciò che più desidera”): le loro manifestazioni artistiche non sono pertanto imitative, ma descrittive. Vale, per esempio, quella che Ricci definiva la “legge dell’integrità personale dell’individuo”: se si pensa alla figura umana, il bambino è consapevole del fatto che gli esseri umani siano dotati di due occhi, un naso, una bocca, due braccia e due gambe, e a prescindere da quale sia la posizione che la figura assume nel disegno (il caso tipico è quello d’un uomo o d’una donna girati di fianco), nel disegno del bambino tutti i dettagli anatomici saranno esposti alla vista del riguardante. Il saggio di Corrado Ricci fu tenuto in considerazione da Vittorio Matteo Corcos (Livorno, 1859 - Firenze, 1933), che con il suo Ritratto di Yorick (un amico del pittore) riprese in maniera quasi pedissequa lo scritto, dal momento che quest’ultimo s’apriva con la descrizione d’una passeggiata che Ricci aveva fatto sotto i portici di Bologna, imbattendosi in alcuni graffiti realizzati da bambini (e lo stesso Corcos ne include alcuni nel suo dipinto). Il carattere pionieristico della pubblicazione di Ricci è rimarcato da Lucia Gasparini nel suo saggio a catalogo: L’arte dei bambini fu il risultato delle analisi che lo studioso compì dopo aver raccolto centinaia di disegni di bambini, ai quali s’avvicinò senza pregiudizî, e che gli consentirono non soltanto di focalizzare l’attenzione sul processo creativo più che sul risultato (anticipando dunque buona parte dell’arte del Novecento), ma anche, sottolinea Gasparini, di maturare “una percezione, seppur ancora vaga e non vestita di scientificità, di quella che sarà invece una strada maestra negli anni a venire sia in campo psicoanalitico che psichiatrico, ovvero la considerazione del disegno infantile quale preziosissimo strumento diagnostico” (l’arte infantile, per Ricci, “talvolta è rivelatrice”). Le riflessioni dello studioso ravennate condussero a un aumento degli studî sull’argomento, e anche diversi artisti ne colsero il fascino: s’è fatto l’esempio di Corcos, ma anche Giacomo Balla (Torino, 1871 - Roma, 1958) si misurò con l’arte dei bambini, come testimonia il suo Fallimento, presentato in mostra attraverso un bozzetto e un appunto preparatorio che forniscono chiara evidenza della cura che Balla profuse nel tentativo di riprodurre gli scarabocchi tracciati dai bambini su di una porta d’un negozio di via Veneto a Roma.

Adriano Cecioni, Ragazzi mascherati da grandi (olio su tavola, 32,5 x 24,3 cm; Firenze, Galleria d'Arte Moderna di Palazzo Pitti)
Adriano Cecioni, Ragazzi mascherati da grandi (olio su tavola, 32,5 x 24,3 cm; Firenze, Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti)


Adriano Cecioni, Primi passi (1868 circa; bronzo, 73 x 35 x 26 cm; Viareggio, Istituto Matteucci)
Adriano Cecioni, Primi passi (1868 circa; bronzo, 73 x 35 x 26 cm; Viareggio, Istituto Matteucci)


Adriano Cecioni, Ragazzi che lavorano l'alabastro (1867; olio su cartone telato, 39,7 x 47,8 cm; Milano, Pinacotecca di Brera)
Adriano Cecioni, Ragazzi che lavorano l’alabastro (1867; olio su cartone telato, 39,7 x 47,8 cm; Milano, Pinacotecca di Brera)


Vittorio Matteo Corcos, Ritratto di Yorick (1889; olio su tela, 199 x 138 cm; Livorno, Museo Civico Giovanni Fattori)
Vittorio Matteo Corcos, Ritratto di Yorick (1889; olio su tela, 199 x 138 cm; Livorno, Museo Civico Giovanni Fattori)


Giacomo Balla, Appunti dal vero per il quadro fallimento (1902 circa; Roma, Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea)
Giacomo Balla, Appunti dal vero per il quadro fallimento (1902 circa; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea)


Giacomo Balla, Fallimento (1902 circa; bozzetto, olio su tavola, 23 x 31 cm)
Giacomo Balla, Fallimento (1902 circa; bozzetto, olio su tavola, 23 x 31 cm)

La linea “tosco-apuana” è protagonista della terza sezione della rassegna della Fondazione Ragghianti: in particolare, è attorno alla figura di Alberto Magri (Fauglia, 1880 – Barga, 1939) che si concentra il percorso espositivo. La centralità di Alberto Magri nell’ambito della pittura infantilista d’inizio Novecento è stata sottolineata di recente, e in tal senso val la pena richiamare il lavoro di studiosi come Francesca Sini, Gianfranco Bruno, Umberto Sereni, Pierluca Nardoni, Raffaella Bonzano e altri che hanno contribuito al recupero di questo artista sostanzialmente isolato, ma nella cui poetica Nardoni, in un suo saggio del 2015, individuava il massimo esempio di quel primitivismo toscano che rimandava concettualmente alle riflessioni d’uno dei più importanti artisti di metà Ottocento, Luigi Mussini, secondo il quale parlare d’“infanzia” significava anche tornare all’infanzia dell’arte italiana, ovvero ai primitivi medievali. Si trattava, avrebbe spiegato Barilli in un altro suo saggio, di “costruire un nuovo futuro ripescando energia da un passato più lontano”, un passato nel quale i propositi d’imitazione del vero non erano ancora così stringenti da condizionare in maniera pressante chi creava opere d’arte (si riteneva, in sostanza, che l’arte dei primitivi fosse più libera e in certo senso più vicina a quella dei bambini). Magri, d’origini pisane, aveva intrapreso studî scientifici alla Normale di Pisa, soggiornò per qualche tempo a Parigi a inizio Novecento, poco più che ventenne, lavorò come illustratore e come autore di vignette satiriche, fu artista colto che studiò l’antico e presto scelse di stabilirsi a Barga, il borgo d’origine dei suoi genitori, in cui era solito trascorrere le sue estati. Evidentemente, ipotizza Nadia Marchioni, alla scelta della sua patria d’elezione contribuirono le letture pascoliane: il ritorno ai luoghi dell’infanzia è stato visto come una sorta di dedizione alla voce del fanciullino di Giovanni Pascoli (“tu sei il fanciullo eterno, che vede tutto con meraviglia, tutto come per la prima volta. L’uomo le cose, interne ed esterne, non le vede come le vedi tu: egli sa tanti particolari che tu non sai. Egli ha studiato e ha fatto suo pro degli studi degli altri. Sì che l’uomo dei nostri tempi sa più che quello dei tempi scorsi, e, a mano a mano che risale, molto più e sempre più. I primi uomini non sapevano niente; sapevano quello che sai tu, fanciullo”). Magri, per studî, inclinazione e trascorsi, era artista votato alla sintesi, e il suo passato, unito alla sua capacità di preservare lo sguardo del bambino, lo portò a produrre alcune opere dal carattere eminentemente bambinesco, come Il gioco della corda, acquerello che imita la figurazione ingenua d’un pargolo che nel suo disegno non intende catturare un momento, bensì descriverlo, o come Le Alpi Apuane da Barga, dove le montagne sono ridotte a profili verdi e azzurri ai quali l’artista appone i nomi delle singole vette. Un motivo, questo, che torna ne Il bucato, dove la scansione ritmica della scena, con le figure che si dispongono in maniera paratattica in primo piano, è memore dei rilievi romanici e delle tavole duecentesche.

Già Ragghianti era convinto del fatto che Magri fosse artista “che fa del Dugento toscano la sua poetica esclusiva e dominante, la condizione della sua visione lirica”, e lo si può indicare come il pittore che meglio, tra i tosco-apuani, seppe unire la base infantilista a quella medievista. Sono da leggere in questo senso i suoi polittici sulla vita dei campi (Il bucato sopra menzionato, La casa colonica e La vendemmia, tutti realizzati tra il 1911 e il 1913), per i quali lo stesso Magri aveva dichiarato le proprie fonti figurative (“ho sempre frequentato le gallerie, le chiese [...] ammirando e studiando di preferenza la pittura e la scultura del periodo giottesco e pregiottesco”: prova ne sono le sue riproduzioni d’opere medievali, come il San Cristofano, esposto in mostra, tempera che riprende la statua lignea del XIII secolo conservata nel Duomo di Barga). Ed ecco quindi che osservando la Barga dipinta sullo sfondo della terza tavola de La casa colonica non si potrà far a meno di pensare alla Arezzo che Giotto dipinse nella Basilica di San Francesco ad Assisi, i volti affilati dei contadini che si muovono sul paesaggio paiono uscire dalle tavole di Berlinghiero Berlinghieri, e addirittura il personaggio sulla destra che, ne La vendemmia, si trascina a fatica un bigoncio sulle spalle, pare una citazione pressoché letterale dal mese d’ottobre del ciclo dei mesi nel Duomo di Lucca, che peraltro tra il 1922 e il 1928 fu tradotto in incisioni xilografiche da Lorenzo Viani (Viareggio, 1882 - Lido di Ostia, 1936). E l’arte di Magri all’epoca non passò inosservata (Boccioni, per esempio, lo paragonò a Henri Rousseau), ed ebbe anche i suoi detrattori, che nella rievocazione dei primitivi antichi vedevano una sorta d’intellettualismo manieristico: ma questo suo recupero, ha spiegato Raffaella Bonzano, era funzionale a “fornire una risposta spontanea al bisogno di sinteticità di un pittore toscano che aveva avuto come unici maestri per la sua pittura quelli ammirati nelle gallerie e nelle chiese del suo luogo natio”, e il suo ricorrere agli schematismi infantili era un mezzo “per rendere i concetti in una forma più elementare e sintetica possibile”.

Alberto Magri conobbe però anche chi, in certa misura, fu affascinato dalle sue ricerche: s’è detto di Viani, che del gruppo degli apuani (che gruppo nel vero senso del termine in realtà non fu mai) probabilmente fu quello meglio inserito negli ambienti dell’arte, e che, al pari di Magri, poco prima degli anni Dieci prese insistentemente a modello l’arte medievale (l’impianto di un’opera come La benedizione dei morti del mare, presente in mostra nella sua versione in xilografia, richiama quello delle folle delle crocifissioni nei rilievi dei pulpiti toscani). Ma il discorso si potrebbe estendere anche ad Adolfo Balduini (Altopascio, 1881 – Barga, 1957), che in diverse sue opere (come Il ritorno dalla festa) palesa debiti nei confronti di Magri, di cui fu amico: probabilmente fu grazie all’artista barghigiano che Balduini decise di dar via all’impresa di riprodurre, anch’egli col mezzo della xilografia, i rilievi del Duomo di Barga (alcuni esempî sono presenti in mostra).

Alberto Magri, Il gioco della corda (1906-1908; acquerello su carta, 13 x 21 cm; Collezione privata)
Alberto Magri, Il gioco della corda (1906-1908; acquerello su carta, 13 x 21 cm; Collezione privata)


Alberto Magri, Le Alpi Apuane da Barga (1913; tempera su cartone, 13,5 x 44,5 cm; Collezione privata)
Alberto Magri, Le Alpi Apuane da Barga (1913; tempera su cartone, 13,5 x 44,5 cm; Collezione privata)


Alberto Magri, La vendemmia (1912; trittico: tempera, matita su tavola, 46 x 59 cm, 46 x 59 cm, 46 x 60 cm; Collezione privata)
Alberto Magri, La vendemmia (1912; trittico: tempera, matita su tavola, 46 x 59 cm, 46 x 59 cm, 46 x 60 cm; Collezione privata)


Alberto Magri, Il bucato, dettaglio (1913; trittico: tempera, matita su tavola, 46 x 63, 46 x 90, 46 x 63 cm; Collezione privata)
Alberto Magri, Il bucato, dettaglio (1913; trittico: tempera, matita su tavola, 46 x 63, 46 x 90, 46 x 63 cm; Collezione privata)


Alberto Magri, San Cristofano (1927 circa; tempera su tavola, 29,5 x 19 cm; Collezione privata)
Alberto Magri, San Cristofano (1927 circa; tempera su tavola, 29,5 x 19 cm; Collezione privata)


Adolfo Balduini, Il ritorno dalla festa (1920; tempera su cartoncino preparato a gesso, 46 x 59 cm; Collezione privata)
Adolfo Balduini, Il ritorno dalla festa (1920; tempera su cartoncino preparato a gesso, 46 x 59 cm; Collezione privata)


Lorenzo Viani, La benedizione dei morti del mare (1910-1915; xilografia, 180 x 170 mm; Siena, Collezione Banca Monte dei Paschi di Siena)
Lorenzo Viani, La benedizione dei morti del mare (1910-1915; xilografia, 180 x 170 mm; Siena, Collezione Banca Monte dei Paschi di Siena)

S’è fatto sopra un rapido cenno ad Henri Rousseau (Laval, 1844 - Parigi, 1910): la presenza a Lucca d’una Testa di cane del celebre “Doganiere” consente d’aprire un altro fronte, che coinvolge due figure capitali per l’arte del primo Novecento, quelle di Ardengo Soffici (Rignano sull’Arno, 1879 - Vittoria Apuana, 1964) e di Carlo Carrà (Quargnento, 1881 - Milano, 1966). Rousseau fu infatti una delle più interessanti scoperte di Soffici, che al pittore francese dedicò un articolo pubblicato sulla rivista La Voce nel 1910 e divenuto celeberrimo soprattutto perché si configurò come una sorta di manifesto (certo, apertamente provocatorio, ma altrettanto sicuramente non insincero) delle convinzioni del giovane artista e critico, forte sostenitore d’un’arte libera dalle convenzioni accademiche (“la pittura che dico io”, scriveva il Soffici vociano in quel famoso articolo, è “più ingenua, più candida, più virginale, per così dire. È la pittura degli uomini semplici, dei poveri di spirito, di coloro che non hanno mai visto i baffi di un professore. Imbianchini, muratori, ragazzi, verniciatori, pecorai mezzi pazzi, e vagabondi. Già!”). Quella di Rousseau era, a parer di Soffici, che detestava gli artisti da lui considerati aridi e artificiosi (ben note sono le sue feroci stroncature: ed è opportuno ribadire come tanto le scoperte quanto le violente critiche di Soffici sono state al centro d’una bella mostra che si tenne agli Uffizi tra il 2016 e il 2017), un’arte libera e genuina, e lo stesso artista fiorentino cercò di coglierne l’essenza, dapprima procurandosi opere del Doganiere, di cui divenne amico, e poi anche prendendo a copiarle. Soffici diventò pertanto un habitué dei mercatini rionali, alla ricerca di insegne, tele o tavolette realizzate da pittori dilettanti: la mostra introduce un interessante confronto tra un foglio disegnato da un pecoraio, il “Fuffa”, che con pochi segni a matita su carta tratteggia i profili di due contadine mostrando quelle doti di sintesi che esaltavano Soffici, una Figura di donna di Pablo Picasso (Malaga, 1881 - Mougins, 1973) che presenta caratteristiche sorprendentemente simili a quelle delle campagnole del Fuffa, e una grande tela di Soffici in prestito dal Museo del Novecento di Milano, I mendicanti, dove notiamo palesi punti di contatto tra il modellato delle figure protagoniste e quelle disegnate dal guardiano di pecore.

Queste ricerche sulla semplificazione formale impegnarono Soffici per quasi un quindicennio (in mostra si va dai paesaggi della metà del primo decennio del Novecento fino al Cacio e pere del 1914) e furono ben presto notate da Carlo Carrà: anzi, Marchioni nel suo saggio sostiene che l’articolo su Rousseau del 1910 fu decisivo per l’allontanamento di Carrà dal futurismo. Il 1° giugno del 1914 (curiosamente alla vigilia d’una mostra d’Alberto Magri che si tenne a Firenze), l’artista d’origini piemontesi pubblicò su Lacerba un articolo che da un lato si scagliava contro i “falsi primitivismi” degli espressionisti stranieri (Carrà non apprezzava il volersi rifare alle culture extraeuropee), e dall’altro ribadiva “la fantasia che noi futuristi abbiamo sempre dimostrato per le forme d’arte popolare”, e la convinzione “che soltanto negli spunti dell’arte diretta, antiaccademica, antidrogata, antimbecille, degli anonimi plebei, possiamo trovare gli sparsi brandelli del pallido genio italiano”. Sono le premesse dell’abbandono delle istanze futuriste da parte di Carrà che poi, in pieno clima di rappel à l’ordre e sulla scorta delle riflessioni di Soffici, sarebbe arrivato alla conclusione secondo la quale l’unico primitivismo possibile per l’Italia è quello che fa riferimento alla “verginità plebea di Giotto e degli altri primitivi, combattuta e vinta dagli intellettualismi più tardi” (così scriveva l’artista in un ulteriore articolo pubblicato su La Voce il 31 marzo del 1916), e che un’arte sincera necessitava d’un approccio alla realtà simile a quello d’un bambino (a rendere manifeste tali intenzioni, in mostra, è un Cavallo disegnato da Carrà nel 1915).

Dopo una breve sezione, la quinta, dedicata alla diffusione del primitivismo infantile nelle immagini della propaganda durante il periodo della prima guerra mondiale, una diffusione dovuta tanto a questioni di forma (una comunicazione simile a quella diretta ai bambini era considerata fortemente efficace: il pubblico ha modo d’osservare l’immediatezza delle illustrazioni d’artisti come Soffici, Carrà, De Chirico, Sironi) quanto a ragioni di contenuto (il bambino che aspetta a casa il ritorno del padre impegnato sul fronte fu un topos piuttosto battuto: ne è esempio Il ritorno di Duilio Cambellotti), si giunge all’epilogo, una breve panoramica sulle persistenze dell’infantilismo nell’arte degli anni Venti e Trenta. I risultati del lavoro di Carlo Carrà, malgrado nel 1921 l’artista avesse stabilito che erano finiti i tempi dell’“arte bambina”, s’apprezzano ne La casa dell’amore del 1922, e una certa forma d’opposizione alla mutata scena artistica (a imporsi negli anni che seguirono il primo conflitto mondiale sarebbero stati gli artisti metafisici e il classicismo del gruppo Novecento) si riconosce nelle opere d’artisti come Fillide Levasti (Firenze, 1883 - 1966), presente con La fiera del 1920 circa, o come Riccardo Francalancia (Assisi, 1886 - Roma, 1965), di cui è esposto un Ritratto di Gustavo (il figlio dell’artista) del 1923, che mostra spiragli d’apertura verso la metafisica. Si conclude con la ripresa consapevole delle istanze infantiliste negli anni Trenta: la rassegna chiude mostrando al pubblico Il carnevale dei poveri di Gianfilippo Usellini (Milano, 1903 - Arona, 1971), dove gli accenti gioiosi tipici della pittura infantile rendono più allegra una povera periferia milanese nei festeggiamenti per il carnevale, e lasciando intendere che l’interesse per l’infanzia avrebbe continuato a rimanere vivo per gran parte del prosieguo del Novecento.

Il Fuffa, Due contadine (1899; matita su carta, 25 x 19 cm; Milano, Collezione eredi Soffici)
“Il Fuffa”, Due contadine (1899; matita su carta, 25 x 19 cm; Milano, Collezione eredi Soffici)


Pablo Picasso, Figura di donna (1906; inchiostro e acquerello su carta, 15,7 x 60 cm; Milano, Collezione eredi Soffici)
Pablo Picasso, Figura di donna (1906; inchiostro e acquerello su carta, 15,7 x 60 cm; Milano, Collezione eredi Soffici)


Ardengo Soffici, I mendicanti (1911; olio su tela, 120 x 145 cm; Milano, Museo del Novecento)
Ardengo Soffici, I mendicanti (1911; olio su tela, 120 x 145 cm; Milano, Museo del Novecento)


Ardengo Soffici, Cacio e pere (1914; tempera su cartone, 70 x 45 cm; Collezione privata)
Ardengo Soffici, Cacio e pere (1914; tempera su cartone, 70 x 45 cm; Collezione privata)


Carlo Carrà, La casa dell'amore (1922; olio su tela, 90 x 70 cm; Milano, Pinacoteca di Brera)
Carlo Carrà, La casa dell’amore (1922; olio su tela, 90 x 70 cm; Milano, Pinacoteca di Brera)


Riccardo Francalancia, Ritratto di Gustavo (1923; olio su tela, 60 x 56 cm; Roma, Museo della Scuola Romana di Villa Torlonia)
Riccardo Francalancia, Ritratto di Gustavo (1923; olio su tela, 60 x 56 cm; Roma, Museo della Scuola Romana di Villa Torlonia)


Gianfilippo Usellini, Il carnevale dei poveri (1941; tempera su tavola, 130 x 90 cm; Rovereto, MART - Museo d'Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto)
Gianfilippo Usellini, Il carnevale dei poveri (1941; tempera su tavola, 130 x 90 cm; Rovereto, MART - Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto)

La mostra L’artista bambino interviene con un progetto scientifico d’alto livello nell’ambito d’un dibattito storico-artistico ancora aperto e che suscita interesse crescente, fornendo al pubblico utili e ampie chiavi di lettura per avvicinarsi a un tema complesso e affascinante. Ma sono anche altri i risultati importanti ottenuti dalla mostra: l’aver posto sotto una rinnovata luce l’arte dei tosco-apuani, delle cui vicende la critica si sta occupando da qualche anno ma che sono ancora pressoché sconosciuti al grande pubblico (e la sezione su Alberto Magri e conterranei, oltre a essere la più grande e completa, è anche la più originale), e ancora il lavoro sulle opere e gli scritti di Cecioni, la capacità d’aver dato vita a interessanti confronti (come quello tra Magri e Balduini, o quello che coinvolge il Fuffa, Picasso e Soffici). Se l’esposizione perde un poco di consistenza man mano che ci si avvicina verso le battute finali, ci si può comunque giovare del fatto che spesso in mostra torna puntuale la presenza delle riviste per l’infanzia, una sorta di fil rouge che lega quasi tutte le sezioni della mostra e a cui il direttore della Fondazione Ragghianti, Paolo Bolpagni, dedica un approfondimento sul catalogo (e forse i rimandi tra arte ed editoria sono uno dei temi più avvincenti dell’esposizione, benché in questa sede non se ne sia fatta menzione). In definitiva, un contributo per molti aspetti importante sul tema dei primitivismi nell’arte del primo Novecento in Italia, e una mostra che, pur essendo fortemente radicata nel proprio territorio, affronta un argomento che si estende ben oltre i confini regionali e, anzi, investe tematiche che animarono il dibatto europeo nel periodo preso in esame e che in Italia furono affrontate con certa originalità.

Il catalogo è probabilmente il punto più debole della rassegna: non certo per la qualità dei saggi, ma piuttosto per com’è stato strutturato. Ovvero, mancano le schede delle opere (anche se, per le mostre che riguardano l’arte d’Otto e Novecento, sta ormai diventando una regola più che un’eccezione) e manca anche una bibliografia strutturata, ragion per cui occorre scorrere più volte le note dei singoli contributi per ritrovare una fonte o un riferimento. Ma nel complesso, si può affermare che L’artista bambino rappresenti un’esposizione di qualità, che ben risponde a quella necessità, richiamata da Ragghianti nel suo saggio Bologna cruciale 1914 pubblicato nel 1969 e raramente analizzata con dovizia, di approfondire gli aspetti del primitivismo nell’Italia d’inizio Novecento in ragione di quello che lo studioso chiamava “il problema dell’arte infantile tra il ’900 e il ’920”.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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