De Chirico, l'ultima metafisica: com'è la mostra al Palazzo dei Musei di Modena


Una rivalutazione importante, quasi una scoperta, di un periodo fecondo del grande pittore che nel suo ultimo decennio di vita (1968-1978) completò con lucida coscienza e con raffinata tecnica l’anello esistenziale della sua avventura. Una chiave di volta necessaria e coscientemente felice. L’articolo di Giuseppe Adani.

Un’alta e singolare Mostra di de Chirico a Modena. Un evento felice che porta nuova luce su un potente faro dell’arte. Cogliamo questa preziosa occasione non certo per tediare il lettore e dissertare ancora sugli innumeri volumi già espressi intorno al fenomeno del Surrealismo europeo dove il nostro pittore è stato primo sacerdote. Vogliamo soltanto rimarcare l’evento in tutto il suo valore e vorremmo avvicinarlo quasi con un gioco di pensiero che piacerebbe a quell’angolo di umor faceto che il gran Giorgio portava sempre con sé.

Giorgio de Chirico è mai stato a Modena? Ovvero ha mai soggiornato in questa città, gemella di Ferrara, laddove il “non è” si allarga a una danza di aggettivi che intessono inquieti misteri, ricchi di immagini e sensibilità, che sorreggono ricerca e poesia? Modena è serrata da due fiumi rivali, è ritrosa e forte; offre allo spirito pervagante dilemmi di profonda commozione con il suo Duomo bozzolato nella pietra eterna e con la sua torre incredibile, incuneata nella terra acquosa, che chiama le altre torri lontane delle città e delle Abbazie: è una città di fermezze in questa terra cispadana ora silente che vide un tempo, come in sogno, “le donne, i cavalier, l’arme e gli amori”! Tutti i soggetti in duetto con lui.

Ma oggi De Chirico è venuto con una mostra sorprendente, giacché questo palombaro delle atmosfere sospese qui di certo idealmente si è adagiato in quel giro sinfonico che prende lo spirito nelle antinomie preternaturali degli enigmi, e che il pittore dialettico sempre portava a tenzone. Quale fu dunque l’eco remota del dialogo tra il muto Giorgio indagante e l’immobile, sublime Wiligelmo?

Giorgio de Chirico, Autoritratto con pullover nero (1957)
Giorgio de Chirico, Autoritratto con pullover nero (1957) Un segno di equilibrio in una carriera cosciente, ove una volontà ferrata si manifesta pienamente consapevole del proprio pensiero espressivo e del dominio formale, assoluto.

E dobbiamo porgerci un’altra domanda, che investe una storia personale, ma pure la storia dell’arte europea dell’epoca nostra: Giorgio de Chirico nella sua lunga avventura pittorica è stato anche lontano dal suo stigma metafisico? ha avuto periodi opposti, diversi? Crediamo di no, crediamo in sostanza che la sua linfa classica e saliente – di misura sconcertante, e appunto per questo moderna – sia rimasta viva in tutta la sua carriera e che immancabilmente sia riaffiorata in senso ancora numinoso, ma limpido, nell’ultimo periodo della sua fecondità. Così da risultare sommamente preziosa.

La mostra di Modena Giorgio de Chirico. L’Ultima Metafisica, Palazzo dei Musei, sino al prossimo 12 aprile, è un evento nazionale, ma di portata universale. È l’arte italiana, con parole di nuova scoperta, alla quale ci troviamo di fronte. Quel ragazzino nato in Grecia portava come primiero nome di battesimo “Giuseppe”, il che evoca due personaggi dall’eco biblica: uno di colui che fu venduto in Egitto e che trionfò in terra straniera, e l’altro che fu il tenace accompagnatore della Sacra Famiglia tra mille lavori nell’ombra. Dai due pare che abbia preso la tenacia, la dirittura di percorso di una vita intera. E col nuovo nome di Giorgio si apprestò al grande torneo dell’arte, laddove rifiutò la nitida seppur bella e sola raffigurazione pittorica per sviscerare verità irradianti, sempre inquiete: “obscura de re lucida pango” ha potuto essere il suo motto nell’antica antinomìa tra l’insidiosa proposta figurativa e il “non veduto” pascoliano, così capace di interpellare l’animo.

Giorgio de Chirico, Interno metafisico con officina (1969)
Giorgio de Chirico, Interno metafisico con officina (1969) Torna impellente nel pittore il desiderio di un résumé di comprensione onnipresente su di sé e sul suo lavoro, e tutto appare accatastato, ma vivo di memoria. Questo ha sempre fatto parte dell’animo di de Chirico.
Giorgio de Chirico, La tristezza della primavera (1970)
Giorgio de Chirico, La tristezza della primavera (1970) Un titolo reverso per un dipinto estremamente poetico e misurato che non a caso è stato scelto come insegna del catalogo. La duplicità degli elementi tiene aperta ogni illazione critica, ma si rivela come lo stigma più verace del colloquio dechirichiano.
Giorgio de Chirico, Frutta con busto di Apollo (1973)
Giorgio de Chirico, Frutta con busto di Apollo (1973) Un riposo di canto elevato. Un amore abbracciato con cura, esclusivo, che distende le icone più care, più ferme, al cospetto dell’Egeo sempiterno e degli umori di lui, giovinetto.

La mostra di Modena – si può dire – mancava alla prospezione intensa, conclusiva della vita artistica di De Chirico, al suo linguaggio necessario, al suo gioco sempre premente di richiamo al passo estremo del “che cosa” vi sia oltre i sensi. Una mostra che è realmente feconda ai nostri studi sul più grande ermeneuta pittorico di un Occidente dal Novecento tragico e pulsante, ma che travalica ogni confine del tempo.

Ed è alla illuminante, larga visione di Elena Pontiggia che adesso il surrealismo del grande maestro viene collocato nella indispensabile luce della sua carriera, ma del pari rimane personalissimo e ancor più prezioso in composizioni armoniche e in una esecuzione particolarmente accurata che rende ogni dipinto di questa ultima fase come una preposizione perentoria dell’antica autoanalisi, che diventa l’avventura più impegnativa e ricca per ogni osservatore. Anzi, è l’osservatore che viene coinvolto sino al desiderio del possesso, quel possesso che è il vero atteggiamento di immedesimazione con un’arte che non tralascia mai il richiamo, l’obbligo della decifrazione, e diventa l’appagamento segreto di ogni intelligenza.

Giorgio de Chirico, Annibale (1975 circa)
Giorgio de Chirico, Annibale (1975 circa) Un recupero volitivo nella figura di un grande vincitore, poi smarrito. Un brano forte di pittura, quasi polemico tra il percorso del suo lavoro e le prossime mete, già cogitate.
Giorgio de Chirico, Il figliuol prodigo (1975)
Giorgio de Chirico, Il figliuol prodigo (1975) Potrebbe essere questa un’immagine conclusiva del nostro breve excursus, ma dobbiamo segnalare i molti capolavori presenti in mostra, su ciascuno dei quali sarà più che doverosa la sosta e la riflessione. Tornano il Mattino delle Muse, i Cavalli in riva al mare, le Piazze d’Italia, e persino la visione metafisica di New York. Qui emblematicamente de Chirico ci propone una chiusura ove tutte le sue istanze rivivono e sorprendentemente si compongono nell’appagamento dell’arte.

Il compito dialogico di De Chirico diventa dunque sempre più alto, e qui il capitolo di Ara H. Merjian su “Metafisica anacronica: De Chirico circa 1968” diventa un invito solenne per gli spiriti indagatori, mentre il controcanto – così vicino al carattere volutamente svagato del pittore dell’umorosa assenza – viene bellamente disteso da Francesco Poli nel suo saggio “Ironia metafisica”, più che utile finalmente per comprendere l’habitus interiore di un callido istrione dalle intese scelte taglienti. Chi può avvicinarsi al sommo Giorgio? Spiriti inquieti diremmo, ma parmenidei e tutti protesi all’essere! Spiriti così sempre presenti! La mostra è davvero un palcoscenico di ricevimento di colte persone.

Scrivendone non si può dimenticare il “cast” intellettuale e sociale che ci propone questo avvenimento. Elena Pontiggia in primo luogo, la Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, il Sindaco di Modena Massimo Mezzetti, l’Assessore alla Cultura Bartolamasi, la Direzione dei Musei di Modena, la celebre editrice d’arte “Silvana”, lo Studio ESSECI-Sergio Campagnolo con il suo forte Simone Raddi. E ciascuno dei visitatori non dimenticherà il soggiorno modenese che veracemente sarà prodigo di dulcitudini davvero seducenti, più che memorabili.


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L'autore di questo articolo: Giuseppe Adani

Membro dell’Accademia Clementina, monografista del Correggio.



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