Milano. Nel buio profondo che precede l’alba – ma al chiarore dell’aurora scopriremo un altro e più intenso senso di smarrimento nel nero pittorico che ci circonda – a colpire di Nobu at Elba è l’odore intenso che emanano i grandi quadri di Giovanni Frangi: il profumo inconfondibile della pittura a olio. Lo aveva scritto Giovanni Agosti, nel catalogo della mostra allestita nella Scuderia grande della Villa Panza di Biumo nel 2004, che quel lavoro dell’amico e compagno di strada coinvolgeva tutti i sensi, non solo quello della vista. Ma difficile era immaginare che l’olfatto potesse essere attivato ventun anni dopo la stesura della pittura, ora che la gigantesca installazione di allora è stata riproposta, esattamente come era, e grazie all’allestimento nuovo di Francesco Librizzi, nella Sala Stirling di Palazzo Citterio, l’addizione contemporanea firmata dal grande architetto inglese alla Pinacoteca di Brera, a Milano, la città di Frangi. Potenza della pittura, che trattiene intatta la sua chimica non solo emotiva e, nell’odore acre dell’olio, restituisce il profumo intrappolato in una materia così densa da mantenere per due decenni la sua sostanza olfattiva. E così corposa da invitarci (tentarci) a toccarla, negli strati corposi delle accese ninfee di monetiana memoria, nelle vaste campiture informali di grigi teutonici, nel gesto pittorico impetuoso di eco espressionista, nella pasta pittorica segnata come da un tir che inchioda sull’autostrada.
Nobu at Elba Redux si intitola la ri-proposta di un’esperienza (condivisibile fino al 18 gennaio, soltanto dal giovedì alla domenica a Palazzo Citterio, dalle 14 alle 19, ingresso libero) che nacque, nel segno di una pittura di paesaggio e di figurazione, come una doppia sfida: ai limiti dei dipinti da cavalletto e quindi capaci di abitare lo spazio coinvolgendo e stravolgendo l’ambiente circostante; al contesto che avrebbe accolto le opere, ossia la collezione di arte americana site specific nella casa-museo nel Varesotto di Giuseppe Panza (1923-2010), il grande mecenate italiano innamorato dell’arte minimalista USA, ma non solo. L’impresa riuscì, e del cantiere pittorico di quel ciclo paragonabile per dimensione e impegno all’arte medievale, ma anche alle stesure estesissime dei quadri di Anselm Kiefer, è rimasto il doppio catalogo del 2004 (5 Continents Editions). I due volumi documentano sia le quattro tele alte tre metri e mezzo (due lunghe quindici, le altre rispettivamente di otto e cinque metri) sia la lunga serie di foto di lavoro e di vita privata, di appunti e schemi, scritti e ricordi, che testimoniano l’iter creativo di questo “capolavoro” (il termine, condivisibile, è di Agosti) di Frangi. Ora che lo storyboard grafico è stato riesposto – come allora nella sala accanto all’ambiente in cui a dominare è la pittura di Nobu at Elba, e nelle stesse buste di plastica da classificatore del 2004, con il bordo bucherellato, appese alla parete come fossero quadri incorniciati – il ripristino di quella sfida, alle convenzioni e al tempo, è stato completato, con l’aggiunta di un nuovo, più piccolo catalogo (è scaricabile gratuitamente dal sito del museo: https://palazzocitterio.org/news/mostra/nobu-at-elba-redux/) sempre a firma di Giovanni Agosti che, ancora appoggiandosi a una non convenzionale sequenza di foto per la sue personalissime didascalie d’autore, ha rievocato i venti anni e passa trascorsi dall’esposizione a villa Panza a oggi.
Scopriamo così che dal 2004 le gigantesche tele, tali per dimensioni, impegno e magnificenza, hanno “riposato”, arrotolate e imbustate, in un deposito vicino allo studio di Frangi in via Spartaco a Milano; che le venti, leggere sculture dipinte, tornate ora a frapporsi tra lo spettatore e i dipinti con i quali interagiscono, avevano trovato invece ricovero in un altro magazzino, insieme ai 32 fogli del diario per immagini che accompagnò e spiegò l’impresa di Nobu at Elba; che ci è voluto un altro edificio industriale dismesso, dopo il Casale Litta dove l’opera vide la luce nel 2003-2004, ossia una ex tintoria a Borriana, per srotolare e rivedere le smisurate tele prima di riappuntarle, non senza difficoltà, su nuovi telai; ma anche che i cani di Frangi hanno avuto il permesso di passeggiare su quei paesaggi fluviali stesi a terra, annusandoli; e che qualche minima caduta di colore c’è stata sì, ma i dipinti hanno tenuto nel loro complesso. Eccome se hanno tenuto.
Ora come allora, è possibile infatti per lo spettatore immaginarsi e immergersi in un fiume che parte dal nero catramoso di Burri e Kiefer, che accoglie i lampi di Richter e di Schifano, ma anche i bagliori bresciani di Romanino, per superare l’idea di monocromo inattaccabile, come in Malevich e nel Rothko della Chapel di Houston, e ricongiungersi alla tradizione del naturalismo lombardo, sebbene pregno del romanticismo tedesco. Scopriranno, i visitatori che vorranno provare questa esperienza di arte totale, che gli elementi della natura (l’acqua, il corso fluviale, il suo estuario e la laguna, i colli sullo sfondo, lo skyline turrito) non sono poi così riconoscibili, ossia oggettivamente dichiarati. Tanto più che i due alberi nella parete pittorica opposta a quella di entrata sono stati sommersi, oscurati, quasi cancellati, dalle mani di colore che Frangi ha steso più volte in quest’opera carica sì di ripensamenti, ma forte di una certezza: che la pittura, nonostante le molte sgocciolature quasi rievochino l’umidità delle rive del fiume di notte, vale per sé stessa, come una figlia che si è resa autonoma dal padre, frutto di una pratica che il pittore vive in solitaria, sebbene attorniato dal calore di animali, figli, amici, amori.
Usciti come dai quadri, quali legni carbonizzati rilasciati dalla corrente del fiume, ecco che davanti ai dipinti giacciono i venti tronchi di albero che, realizzati in gommapiuma, come i dipinti degli anni Sessanta di Giulio Turcato esposti fino al 31 gennaio 2026 nella notevole mostra alla Fondazione Giuliani di Roma, costituiscono l’aspetto plastico dell’installazione Nobu at Elba. Le parti superiori di questi “corpi”, giunti come al termine della notte e ai limiti dell’umano, sono tinte prevalentemente di nero così che, allo sguardo del visitatore, gli apici delle sculture si andranno a confondere con il fondo buio della pittura a olio stesa, e spesso rappresa in incandescente materia, nelle plaghe e nelle piaghe del grande paesaggio interiore di Frangi. Arriva poi sempre, però, la luce elettrica, azionata da un congegno a tempo che in pochi minuti ci porta dall’alba alla notte profonda, a chiarire la veduta e a definire i contorni delle cose. Nello spettacolo muto di Nobu at Alba, la scena della pittura ricorda quella del teatro. E i fondali neri, frutto di finzione pittorica ma realissimi e concreti, prendono vita al ritmo feriale del passare delle ore.
Nobu at Elba, con le tele disposte a evocare un’architettura religiosa, con tanto di dipinti lungo le navate, la controfacciata e il transetto, e le sculture piazzate al centro dello spazio come fossero banchi, amboni e altari di una chiesa abbandonata, è stata mostrata per poco più di un mese nel febbraio-marzo 2024 a Villa Panza, senza che poi il padrone di casa decidesse di trattenerla per sempre nel museo, la sua collezione ora gestita dal Fai, per cui l’installazione era stata pensata ed eseguita. E adesso l’opera è riproposta a Milano (fino al 18 gennaio 2026) nel complesso braidense, per permettere una verifica della tenuta di questo ennesimo ritorno alla pittura, alla storia e alla natura (tale è stato ed è quello di Frangi rispetto alla scena contemporanea digitale, medialista, tardo concettuale). Il confronto è con i maestri del passato, remoto e prossimo, di Brera e di Palazzo Citterio. In attesa che un’istituzione, pubblica o privata, possa acquisire Nobu at Elba rendendo permanente l’esposizione di questo lavoro che riporta, come nei cicli medievali o nei teleri di Tintoretto, nel muralismo di Sironi o negli ambienti di Rothko, lo spettatore al centro della pittura.
L'autore di questo articolo: Carlo Alberto Bucci
Nato a Roma nel 1962, Carlo Alberto Bucci si è laureato nel 1989 alla Sapienza con Augusto Gentili. Dalla tesi, dedicata all’opera di “Bartolomeo Montagna per la chiesa di San Bartolomeo a Vicenza”, sono stati estratti i saggi sulla “Pala Porto” e sulla “Presentazione al Tempio”, pubblicati da “Venezia ‘500”, rispettivamente, nel 1991 e nel 1993. È stato redattore a contratto del Dizionario biografico degli italiani dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana, per il quale ha redatto alcune voci occupandosi dell’assegnazione e della revisione di quelle degli artisti. Ha lavorato alla schedatura dell’opera di Francesco Di Cocco con Enrico Crispolti, accanto al quale ha lavorato, tra l’altro, alla grande antologica romana del 1992 su Enrico Prampolini. Nel 2000 è stato assunto come redattore del sito Kataweb Arte, diretto da Paolo Vagheggi, quindi nel 2002 è passato al quotidiano La Repubblica dove è rimasto fino al 2024 lavorando per l’Ufficio centrale, per la Cronaca di Roma e per quella nazionale con la qualifica di capo servizio. Ha scritto numerosi articoli e recensioni per gli inserti “Robinson” e “il Venerdì” del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari. Si occupa di critica e di divulgazione dell’arte, in particolare moderna e contemporanea (nella foto del 2024 di Dino Ignani è stato ritratto davanti a un dipinto di Giuseppe Modica).Per inviare il commento devi
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