Giulio Romano a Palazzo Ducale, una mostra di disegni nei luoghi per i quali furono immaginati


Recensione della mostra “‘Con nuova e stravagante maniera’. Giulio Romano a Mantova” (a Mantova, Palazzo Ducale, fino al 6 gennaio 2020)

Si contarono più di 270mila visitatori quando a Mantova, a Palazzo Te, il 12 novembre del 1989 si chiusero le porte della grande mostra su Giulio Romano (Giulio Pippi de’ Iannuzzi; Roma, 1499 circa - Mantova, 1546) ch’era cominciata appena due mesi addietro, il 1° di settembre: l’eccezionale successo di quella straordinaria esposizione, curata da tre esperti d’elevatissima caratura (Ernst Gombrich, Manfredo Tafuri e Christoph Frommel), era dovuto a un insieme di fattori in grado di portarci a definire irripetibile quella rassegna, che richiese almeno tre anni di preparazione e coinvolse un comitato scientifico internazionale, composto da studiosi che avevano già lavorato con profitto e ottimi risultati sul grande allievo di Raffaello. Intanto, Giulio Romano aveva fino a quel momento goduto di scarsa considerazione (specialmente presso il grande pubblico), e la mostra si pose come occasione per la riscoperta dell’artista. Ancora, s’ebbe l’opportunità di lavorare su di una gran mole di materiale inedito, eventualità che consentì agli storici dell’arte di fissare molti punti della carriera di Giulio Romano (le ricerche portarono poi alla pubblicazione, nel 1992, d’un Repertorio di fonti documentarie curato da Daniela Ferrari e introdotto da Amedeo Belluzzi, sotto l’egida del ministero). Molti e importanti furono i prestiti: i Due Amanti dell’Ermitage, la Donna allo specchio dal Museo Puškin, la Madonna Hertz di Palazzo Barberini, la Madonna della gatta di Napoli, il Ritratto di giovane del Thyssen-Bornemisza, senza contare l’alto numero di disegni. Infine, si consideri che la mostra arrivava alla fine d’una vasta campagna di restauri che aveva interessato Palazzo Te, per l’occasione riaperto al pubblico: si può dunque ben immaginare l’entusiasmo generale che aveva investito la città e non solo.

Impossibile ripetere una mostra simile: pertanto, la rassegna che s’è aperta a Mantova, a Palazzo Ducale, a trent’anni di distanza da quell’evento (“Con nuova e stravagante maniera”. Giulio Romano a Mantova, fino al 6 gennaio 2020) non dev’essere misurata secondo quel metro di paragone, bensì per quello che è: una mostra sull’attività da disegnatore di Giulio Romano, con qualche incursione sul tema della bottega e degli allievi. Per inquadrarla al meglio, sarà opportuno rimarcare che si tratta d’una mostra che ha avuto una gestazione piuttosto lunga e tribolata, le cui origini vanno ricercate molti anni indietro, dal momento che già dieci anni fa si ragionava d’organizzare, a Mantova, una mostra su Giulio Romano. Per il progetto, che avrebbe conosciuto diversi cambî di forma nel corso degli anni, già s’immaginava un dialogo col Louvre (sono del resto i fogli dell’istituto parigino quelli che oggi sostengono in gran parte la rassegna di Palazzo Ducale): peraltro, nel 2012, al museo francese s’era tenuta un’esposizione d’una quarantina di fogli, curata da Laura Angelucci e Roberta Serra, entrambe studiose italiane del Dipartimento Arti Grafiche del Louvre ed entrambe curatrici della mostra di quest’anno, assieme a Peter Assmann e Paolo Bertelli e con la collaborazione di Michela Zurla. Ed era emersa la volontà di collaborare a una rassegna più grande. Nel frattempo, nel mezzo, c’è stato di tutto: i contraccolpi della crisi economica del 2007-2008, il terremoto dell’Emilia che ha colpito anche Palazzo Ducale, la riforma, l’autonomia, il nuovo assetto direttivo di Palazzo Ducale, il succedersi delle amministrazioni locali (all’inizio s’immaginava infatti una mostra che coinvolgesse anche Palazzo Te: come possiamo constatare, s’è poi giunti a concepire quest’anno due mostre totalmente separate). Il progetto è dunque slittato fino a quest’anno.

L’importanza della mostra non risiede tanto nella novità del materiale, quanto nel fatto che molti dei disegni portati a Palazzo Ducale non erano mai stati esposti prima d’ora (l’occasione è pertanto utile per confronti de visu mai proposti in precedenza), nel fatto ch’è data facoltà d’osservare diversi fogli nei luoghi per i quali Giulio Romano immaginò i progetti che aveva tracciato sulla carta, e nell’estensione della sezione riservata agli allievi di Giulio: un lavoro in ampia parte dipendente dalle numerose ricerche sul tema compiute da Stefano L’Occaso, che hanno trovato ulteriore sistemazione nel recentissimo volume Giulio Romano «universale», ch’è stato pubblicato quest’anno e che ha fornito un utile strumento di studio.

Sala della mostra Con nuova e stravagante maniera. Giulio Romano a Mantova
Sala della mostra “Con nuova e stravagante maniera”. Giulio Romano a Mantova


Sala della mostra Con nuova e stravagante maniera. Giulio Romano a Mantova
Sala della mostra “Con nuova e stravagante maniera”. Giulio Romano a Mantova


Sala della mostra Con nuova e stravagante maniera. Giulio Romano a Mantova
Sala della mostra “Con nuova e stravagante maniera”. Giulio Romano a Mantova

La mostra di Palazzo Ducale è tripartita: la prima sezione s’intitola Il segno di Giulio, è allestita al pianterreno del Castello di San Giorgio ed è dedicata ai diversi temi della produzione grafica di Giulio Romano. La seconda, Al modo di Giulio, si dipana tra Corte Nuova e Appartamento di Troia offrendo al pubblico la possibilità d’esaminare i disegni in relazione con gli spazî progettati da Giulio. La terza, Alla maniera di Giulio, prende forma nell’appartamento della Rustica ed è a sua volta divisa in due porzioni: da una parte s’indaga il Giulio Romano architetto, e dall’altra s’affronta l’argomento degli allievi. Il percorso s’apre con una sala che prende in esame gli esordî della carriera di Giulio Romano nella bottega di Raffaello, tema sul quale torna anche Sylvia Ferino-Pagden (già membro del comitato scientifico della mostra del 1989) nel suo saggio a catalogo: la studiosa menziona due dei disegni con cui la mostra comincia, ovvero gli studî per la scena della Donazione di Costantino, destinata a decorare una delle pareti della sala di Costantino in Vaticano (rimasta incompiuta dopo la scomparsa di Raffaello nel 1520), presi come esempî del tratto di Giulio Romano, che proprio a partire da quanto lasciato dal suo illustre maestro sviluppò la composizione “con ulteriori rapidi tratti di penna, non ingrossando o assottigliando il tratto, bensì raddoppiandolo, oppure accentuando i contorni delle linee in determinati punti, moltiplicandole”. Se ne ricava la sensazione d’un disegno dal tratto “nervoso, svolazzante e quasi in rilievo”: è un Giulio Romano che non si discosta molto da Raffaello. In mostra c’è spazio anche per prove più precoci, come il Pan e Siringa eseguito in preparazione degli affreschi della stufetta del cardinal Bibbiena, e pertanto basato su di uno schizzo di Raffaello: l’attribuzione a Giulio Romano (a lungo contesa con Giovanni Francesco Penni, altro giovane artista attivo in quegli anni nell’atelier dell’urbinate) è motivata dal fatto che il segno è ripassato più volte e che l’opera palesa alcuni elementi riconducibili alla maniera di Giulio (le figure sinuose, i volti fortemente espressivi).

Se la sezione “romana” è naturalmente povera, dato che l’artista lasciò l’allora capitale dello Stato Pontificio quand’ancora non aveva venticinque anni (e s’aggiunga che i disegni romani sono quelli di più difficile assegnazione), il nucleo “mantovano” è invece ricchissimo, anche in tal caso per forza di cose (dal 1524 in poi, Giulio non avrebbe più abbandonato la città dei Gonzaga). In mostra, il passaggio da Roma a Mantova è fin troppo brusco, e si fa poca luce sul contesto che l’artista trovò al suo arrivo nel marchesato: si fatica dunque a comprendere perché l’ambiente fu così recettivo nei confronti dell’arte di Giulio, e perché proprio a Mantova si poterono elaborare molte delle innovazioni che di lì si sarebbero poi diffuse altrove. Nel recente studio monografico di Stefano L’Occaso leggiamo che Giulio trovò a Mantova “una città che poteva vantare alcune soluzioni decorative estremamente innovative nel panorama nord-italiano: in parte si trattava di novità d’ispirazione romana, come le grottesche e gli stucchi di ‘marmo pesto’ della Scalcheria; in parte invece si trattava di soluzioni stilistiche, formali e anche compositive di cultura padana o veneta”: più nel dettaglio, Mantova era città artisticamente molto aperta (vi avevano lavorato il Correggio, Lorenzo Costa il Vecchio, Dosso Dossi, e da ultimo Lorenzo Leonbruno (Mantova, 1477 - 1537) che, a seguito d’un soggiorno a Roma, importò in patria grottesche e ornati che richiamavano le antichità classiche. Si può dunque ben intuire come un allievo di Raffaello quale era Giulio Romano potesse inserirsi in maniera relativamente facile in un ambiente incline ad accogliere con favore le novità, tanto più se quelle novità venivano elaborate da un artista di grande talento e capace di rinnovarsi in continuazione. Tant’è che, a Mantova, Giulio avrebbe mutato il proprio modo di disegnare: ciò che soprattutto lo differenzia da Raffaello sta nel fatto che Giulio è meno interessato del maestro allo studio della singola figura. Anzi, spesso lo studio dettagliato di quest’ultima è assente nell’ambito del processo creativo. Ne conseguono composizioni che comunicano un forte dinamismo: “utilizzando lo stratagemma di evitare chiasmi ben definiti”, scrive Ferino-Pagden, “egli rafforza ulteriormete la sensazione di instabilità e quindi di movimento. I corpi dànno sempre più l’impressione di avere una consistenza morbida, pastosa. Questo aspetto è particolarmente evidente negli studî per gli stucchi, in cui Giulio sembra anticipare la pasticità della materia che lavorerà”.

La sorprendente forza plastica dei disegni di Giulio Romano emerge da molti dei fogli presenti in mostra: basterà qui citare il disegno 3551 del Département des Arts graphiques del Louvre, ovvero un Convoglio militare con soldati del reparto di fanteria, preparatorio per il fregio della camera degli stucchi di Palazzo Te, o il burrascoso Combattimento di tritoni e mostri (3517 del Louvre) con la sua scena estremamente concitata, e che Roberta Serra suppone corrispondere a “una fase intermedia nella concezione della decorazione del fregio” (e il modello finito probabilmente è andato perduto), o ancora un Nettuno che rapisce Anfitrite (3496 del Louvre) per la camera delle Aquile di Palazzo Te, tracciato in modo sommario, con pochi segni, ma sufficienti a delineare già tutti gli elementi della composizione finita. La più nitida caratteristica dei disegni di Giulio Romano, che si palesa in tutta la sua tangibile evidenza nelle sale al pianterreno del Castello di San Giorgio (tra i fogli di cui s’è detto, lo si vede segnatamente nel Nettuno), è quella “prestezza” che gli veniva riconosciuta da Giorgio Vasari: in altri termini, l’artista di Roma era dotato d’una formidabile velocità d’esecuzione, unita alla capacità d’immaginare diverse fasi dello studio d’un modello in un unico disegno. Molti hanno sottolineato come questa caratteristica del suo modus operandi fosse in certa maniera obbligata, date le pressioni che l’artista riceveva a corte, il poco tempo per terminare le opere, l’avvicendarsi di prestigiosi incarichi, il carattere d’urgenza di molti dei suoi progetti. Alla rapidità s’unisce l’elevata forza espressiva che leggiamo nei volti dei personaggi, soprattutto se abbiamo modo d’osservare i rarissimi schizzi preparatorî per la camera dei Giganti in Palazzo Te, a cominciare dal superlativo foglio con Gli dèi dell’Olimpo che assistono terrorizzati alla caduta dei Giganti che, scrive Laura Angelucci, “prepara con tratto rapido e sicuro il quarto nord-occidentale della volta”: l’espressività è però un elemento che si ritrova anche in disegni lontani da quello che doveva essere l’aspetto definitivo dell’opera (ne è esempio la Donna in piedi che solleva un tendaggio, dove le acquerellature tipiche dei disegni di Giulio sono funzionali a studiare il comportamento della luce). Il percorso prosegue radunando i disegni secondo nuclei tematici: fogli per Palazzo Te, schizzi per manufatti e oggetti di vario genere, disegni preparatorî per le pale che avrebbero abbellito le chiese di Mantova, disegni destinati a oggetti d’arte decorativa, dai gioielli al vasellame. Tra i momenti più alti da segnalare, il frammento di cartone (uno dei tre superstiti) dell’Adorazione già nella cappella Boschetti in Sant’Andrea a Mantova e oggi al Louvre (il cartone, invece, proviene dal Nationalmuseum di Stoccolma), e ancora i bizzarri disegni, mai esposti, per bicchieri e bacili, vive attestazioni delle vette cui poteva spingersi l’estro fantasioso del genio giuliesco (si vedano il Mestolo a forma di cestino o il Bacile con due manici decorato con anatre e canne palustri, quest’ultimo studiato anche in sezione: entrambi sono in prestito dal British Museum), e infine il confronto tra il grande arazzo di Nicholas Karcher (Bruxelles, ? - Mantova, 1562) e le invenzioni di Giulio, che fornì i progetti per una serie d’arazzi con Giochi di putti ordinata da Federico II. Alcuni disegni per opere di committenza gonzaghesca anticipano ai visitatori ciò che incontreranno proseguendo il loro cammino nell’appartamento di Troia.

Giulio Romano, Papa Silvestro I portato sulla sedia gestatoria, seguito dalla guardia svizzera e da un cardinale su un mulo (1520-1524; penna e inchiostro bruno, 418 x 288 mm; Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques, inv. 3874)
Giulio Romano, Papa Silvestro I portato sulla sedia gestatoria, seguito dalla guardia svizzera e da un cardinale su un mulo (1520-1524; penna e inchiostro bruno, 418 x 288 mm; Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques, inv. 3874)


Giulio Romano, Pan e Siringa (1513-1516; matita rossa e stiletto su carta, 184 x 181 mm; Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques, inv. 4035)
Giulio Romano, Pan e Siringa (1513-1516; matita rossa e stiletto su carta, 184 x 181 mm; Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques, inv. 4035)


Giulio Romano, Convoglio militare con soldati del reparto di fanteria (1529-1531 circa; penna e inchiostro bruno, 236 x 431 mm; Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques, inv. 3551)
Giulio Romano, Convoglio militare con soldati del reparto di fanteria (1529-1531 circa; penna e inchiostro bruno, 236 x 431 mm; Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques, inv. 3551)


Giulio Romano, Combattimento di tritoni e mostri marini (1527-1528 circa; penna e inchiostro bruno, acquerellature brune, matita nera, 253 x 820 mm; Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques, inv. 3517)
Giulio Romano, Combattimento di tritoni e mostri marini (1527-1528 circa; penna e inchiostro bruno, acquerellature brune, matita nera, 253 x 820 mm; Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques, inv. 3517)


Giulio Romano, Nettuno rapisce Anfitrite (1527-1528; penna e inchiostro bruno, 213 x 412 mm; Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques, inv. 3496)
Giulio Romano, Nettuno rapisce Anfitrite (1527-1528; penna e inchiostro bruno, 213 x 412 mm; Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques, inv. 3496)


Giulio Romano, Gli dèi dell'Olimpo assistono terrorizzati alla caduta dei Giganti (1532-1534; penna e inchiostro bruno, acquerellature a inchiostro bruno, matita nera, lumeggiature bianche su tre fogli incollati insieme, 504 x 920 mm; Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques, inv. 3476)
Giulio Romano, Gli dèi dell’Olimpo assistono terrorizzati alla caduta dei Giganti (1532-1534; penna e inchiostro bruno, acquerellature a inchiostro bruno, matita nera, lumeggiature bianche su tre fogli incollati insieme, 504 x 920 mm; Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques, inv. 3476)


Giulio Romano, Donna in piedi che solleva un tendaggio (1524 o 1531 circa; penna e inchiostro bruno, acquerellature brune su carta vergata, 233 x 158 mm; Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques, inv. 3568)
Giulio Romano, Donna in piedi che solleva un tendaggio (1524 o 1531 circa; penna e inchiostro bruno, acquerellature brune su carta vergata, 233 x 158 mm; Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques, inv. 3568)


Giulio Romano, Testa di pastore (1531 circa; carboncino su due fogli di carta incollati insieme, 367 x 245 mm; Stoccolma, Nationalmuseum, NMH 357/1863)
Giulio Romano, Testa di pastore (1531 circa; carboncino su due fogli di carta incollati insieme, 367 x 245 mm; Stoccolma, Nationalmuseum, NMH 357/1863)


Giulio Romano, Mestolo a forma di cestino (1530-1540 circa; penna e inchiostro bruno con acquerellature brune, 70 x 246 mm; Londra, British Museum, inv. 1874,0808.72)
Giulio Romano, Mestolo a forma di cestino (1530-1540 circa; penna e inchiostro bruno con acquerellature brune, 70 x 246 mm; Londra, British Museum, inv. 1874,0808.72)


Giulio Romano, Sezione di bacile con doppio manico decorato con pesci, un'anatra e una rana in uno specchio d'acqua e canne palustri (1530-1540 circa; penna e inchiostro bruno con acquerellature grigio-brune, rialzato con biacca su carta preparata grigio-bruna, ritagliato, 106 x 236 mm; Londra, British Museum, inv. 1874,0808.67)
Giulio Romano, Sezione di bacile con doppio manico decorato con pesci, un’anatra e una rana in uno specchio d’acqua e canne palustri (1530-1540 circa; penna e inchiostro bruno con acquerellature grigio-brune, rialzato con biacca su carta preparata grigio-bruna, ritagliato, 106 x 236 mm; Londra, British Museum, inv. 1874,0808.67)


Nicholas Karcher, Venere, un satiro e putti che giocano (1539-1540; arazzo di lana e seta, 410 x 450 cm; Modena, Raffaele Verolino)
Nicholas Karcher, Venere, un satiro e putti che giocano (1539-1540; arazzo di lana e seta, 410 x 450 cm; Modena, Raffaele Verolino)


Giulio Romano, Giochi di putti (1539-1545; penna e inchiostro marrone, acquerello, biacca, 438 x 564 mm; Londra, Victoria and Albert Museum)
Giulio Romano, Giochi di putti (1539-1545; penna e inchiostro marrone, acquerello, biacca, 438 x 564 mm; Londra, Victoria and Albert Museum)

E in quello ch’è forse il più noto degli ambienti giulieschi in Palazzo Ducale si consuma anche la sezione più dubbia della mostra. È certo un’opportunità fuori dall’ordinario quella di poter vedere i disegni esattamente nei luoghi dove avrebbero preso vita le invenzioni che Giulio Romano tracciò sui fogli: è però lecito domandarsi se l’occasione può far sorvolare sugl’ingombranti apparati installati nelle sale di Palazzo Ducale, che inficiano la piena leggibilità delle decorazioni interferendo con gli ambienti, com’è nel caso della sala di Troia, dove una pesante struttura con superfici riflettenti spezza la vista delle scene dipinte sulle pareti, per di più confondendole attraverso gli specchi, oppure come nel camerino dei Cesari, dove un pannello s’allunga inutilmente verso l’alto andando a coprire un terzo della visuale, o ancora come nell’adiacente galleria dei Mesi, dove enormi totem pensati per ospitare i singoli fogli vanno inevitabilmente a modificare la percezione della veduta d’insieme del locale. Se si riesce nell’impresa di superare l’impatto, allora s’apprezzerà l’idea d’unire i disegni coi risultati finali. Si comincia dalla camera dei Cavalli, dove il disegno preparatorio per la Caduta di Icaro si può confrontare con la scena dipinta sul soffitto, grazie anche a uno specchio appositamente situato vicino al foglio. Con eccelsa capacità d’inventiva, Giulio immaginò un Icaro potentissimo, in caduta libera verso il riguardante, col padre che tenta disperatamente d’arrestare il suo volo, invano: le proporzioni e le distanze ravvicinate delle due figure, nel foglio, garantiscono icasticamente la sensazione del corpo che precipita, quasi risucchiato in un vortice di nubi con, sullo sfondo, lo squarcio che lascia filtrare la luce del sole, responsabile della sciagura. L’artista che ha poi trasposto l’invenzione sul soffitto (secondo i curatori della mostra Fermo Ghisoni da Caravaggio, mentre L’Occaso parla di Anselmo Guazzi) non è riuscito a comunicare le stesse sensazioni: è comunque importante porre l’accento sul carattere innovativo della soluzione, dacché potrebbe essere il primo caso di telero per soffitto. Nella stessa sala c’è spazio anche per una tavola proveniente da uno dei camerini dell’appartamento di Troia: si tratta di Giove, Nettuno e Plutone che si dividono a sorte i regni del mondo, opera attribuita in maniera concorde a Luca da Faenza (notizie dal 1531 al 1538) e risalente al momento in cui gli ambienti dell’appartamento vennero costruiti.

La sala di Troia espone al pubblico uno dei suoi pochi disegni preparatorî che sopravvivono: si tratta dello studio delle figure per l’Allegoria della Fama, disegnate da Giulio “con estrema precisione in tutti i loro elementi nel più minuto dettaglio, dallo sguardo intenso alle bocche semiaperte, fino alle pieghe arzigoggolate dei panneggi, senza tralasciare la vaporosità delle nuvole sulle quali camminano e che si ammacano sotto i loro passi” (Roberta Serra). Un disegno alquanto significativo, poiché in mostra non sono molti gli esempî di fogli che giungono a un tal grado di finitezza. Tra i migliori studî per la sala di Troia è poi possibile annoverare quello con Diomede ferito da Pindaro (foglio 14195 dell’Albertina di Vienna), che ci mostra la scena, dipinta sul lato sud della sala, quasi com’è nella sua redazione definitiva (peccato solo che non lo si possa vedere nella sala, dal momento che è esposto nell’ultimo locale del pianterreno del Castello: la scelta viene motivata dai curatori come un “invito”, rivolto al visitatore che termina il tragitto nella prima sezione, “a proseguire il percorso in Corte Nuova, nell’Appartamento di Troia”: forse ci s’immaginava che il pubblico interrompesse la visita al piano inferiore?). E ancora, risulta oltremodo interessante il disegno per la scena del Diomede che combatte contro i fratelli Ideo e Fegeo (3529 del Louvre), che si distingue dal precedente, realizzato a penna su carta, per la presenza di acquerellature e lumeggiature bianche, che potrebbero tuttavia esser state aggiunte posteriormente. L’ideale confronto tra i due fogli consente di cogliere le differenze tra le diverse fasi della preparazione: il foglio 3529 del Louvre, peraltro, potrebbe anche essere, secondo un’ipotesi avanzata da Roberta Serra in occasione dell’esposizione di Mantova, “il modello di presentazione dell’opera al committente Federico II Gonzaga”.

Si può concludere la seconda sezione percorrendo la galleria dei Mesi: qui, i totem di cui s’è detto accolgono i disegni d’Ippolito Andreasi (Mantova, 1548 - 1608), che appena ventenne, nel 1568, eseguì numerosi rilievi del palazzo. Dai fogli vergati con precisione e accuratezza dalla sua penna e ripassati con acquerello grigio ricaviamo svariate informazioni: sappiamo perciò che la galleria presentava molte più sculture di quelle che attualmente custodisce (e non sappiamo quale fine sia stata riservata a molte di esse), sappiamo che alcuni dei rilievi che la decoravano sono stati sostituiti, sappiamo che l’ambiente ha conosciuto alcune modifiche (nel 1572, la loggia è stata raddoppiata e tamponata). Una delle più peculiari caratteristiche di quest’ambiente era la presenza, qui testimoniata dal foglio 10880 del Kunstpalast di Düsseldorf, d’un orologio (oggi ne rimane solo il quadrante) nella testata est: si tratta d’uno dei primi casi d’orologi inseriti in una decorazione d’artista.

Sala della mostra Con nuova e stravagante maniera. Giulio Romano a Mantova
Sala della mostra “Con nuova e stravagante maniera”. Giulio Romano a Mantova


Sala della mostra Con nuova e stravagante maniera. Giulio Romano a Mantova
Sala della mostra “Con nuova e stravagante maniera”. Giulio Romano a Mantova


Sala della mostra Con nuova e stravagante maniera. Giulio Romano a Mantova
Sala della mostra “Con nuova e stravagante maniera”. Giulio Romano a Mantova


Sala della mostra Con nuova e stravagante maniera. Giulio Romano a Mantova
Sala della mostra “Con nuova e stravagante maniera”. Giulio Romano a Mantova


La Sala di Troia
La Sala di Troia


Giulio Romano, La caduta di Icaro (1536; penna e inchiostro bruno, acquerellature a inchiostro bruno, matita nera, lumeggiature di gouache bianca applicate a pennello, tracce di quadrettatura a matita nera, 389 x 577 mm; Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques, inv. 3499)
Giulio Romano, La caduta di Icaro (1536; penna e inchiostro bruno, acquerellature a inchiostro bruno, matita nera, lumeggiature di gouache bianca applicate a pennello, tracce di quadrettatura a matita nera, 389 x 577 mm; Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques, inv. 3499)


Anselmo Guazzi, La Caduta di Icaro sul soffitto della camera dei Cavalli
Anselmo Guazzi, la Caduta di Icaro sul soffitto della camera dei Cavalli


Giulio Romano, Allegoria della Fama (1536-1538; penna e inchiostro bruno, acquerellature a inchiostro bruno, lumeggiature bianche su carta cerulea, 254 x 304 mm; Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques, inv. 3499)
Giulio Romano, Allegoria della Fama (1536-1538; penna e inchiostro bruno, acquerellature a inchiostro bruno, lumeggiature bianche su carta cerulea, 254 x 304 mm; Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques, inv. 3499)


L'affresco di Giulio Romano con Diomede che combatte contro i fratelli Ideo e Fegeo
L’affresco di Giulio Romano con Diomede che combatte contro i fratelli Ideo e Fegeo


Giulio Romano, Diomede combatte contro i fratelli Ideo e Fegeo (1536-1538; penna e inchiostro bruno, acquerellature a inchiostro bruno, matita nera, lumeggiature bianche, 409 x 657 mm; Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques, inv. 3529)
Giulio Romano, Diomede combatte contro i fratelli Ideo e Fegeo (1536-1538; penna e inchiostro bruno, acquerellature a inchiostro bruno, matita nera, lumeggiature bianche, 409 x 657 mm; Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques, inv. 3529)


La galleria dei Mesi
La galleria dei Mesi


Ippolito Andreasi, Testata est della loggia dei Marmi (1567-1568 circa; penna e inchiostro bruno, acquerello grigio, sopra matita nera, 487 x 340 mm; Düsseldorf, Museum Kunstpalast, Graphische Sammlung, inv. FP 10880)
Ippolito Andreasi, Testata est della loggia dei Marmi (1567-1568 circa; penna e inchiostro bruno, acquerello grigio, sopra matita nera, 487 x 340 mm; Düsseldorf, Museum Kunstpalast, Graphische Sammlung, inv. FP 10880)

La rassegna di Palazzo Ducale si conclude nella Rustica, dove dapprima s’affastellano i disegni per architetture, e poi s’incontrano le opere degli artisti della bottega. Tra i disegni più discussi è un foglio con Cristo e l’adultera (si tratta del modello per l’incisione a bulino eseguita da Diana Scultori e custodita agli Uffizi, che in mostra gli viene esposta a fianco), dalla lunga storia attributiva: in mostra è assegnato in via dubitativa allo stesso Giulio Romano. Si tratta presumibilmente d’un’elaborazione destinata semplicemente alla stampa (o, tutt’al più, dovette fornire da modello per una lunetta decorativa nella chiesa della Trinità dei Monti a Roma), ed è esposta in ragione del fatto che sarebbe esemplificativa del gusto di Giulio Romano per le colonne tortili: e in effetti, proprio la splendida facciata della Rustica che ospita i fogli rappresenta uno dei primi impieghi di questo elemento architettonico e una delle più ardite e innovative sperimentazioni dell’artista. Non mancano i disegni per Palazzo Te (tra i quali quelli per la Porta del Te, per la quale l’artista propone, scrive Laura Giacomini, “una composizione a travata ritmica con l’intreccio tra un ordine dorico rustico maggiore e uno minore trabeati, così edicole coronate da timpano, il centrale triangolare e i laterali arcuati, inquadrano sia il portale principale, qui con lunetta scolpita, sia quelli ai lati”) e ne sono esposti anche due per la casa di Giulio Romano che l’artista acquistò negli anni Trenta, tra cui spicca il “belissimo progetto autografo” (così L’Occaso) conservato al Nationalmuseum di Stoccolma, dov’è possibile osservare come l’artista avesse immaginato la facciata di casa propria (tanto più prezioso per il fatto che l’assetto fu modificato nell’Ottocento e per il fatto che Giulio si trovò a dover lavorare su di un edificio preesistente).

Gli allievi di Giulio Romano accompagnano il pubblico verso la conclusione della mostra. Nella sala della Mostra s’apprezza il confronto tra il San Giovanni Evangelista di Fermo Ghisoni da Caravaggio (Caravaggio, 1505 circa - Mantova, 1575) col suo disegno: malgrado la composizione rimanga identica, l’artista introduce considerevoli varianti nella redazione finale, a cominciare dall’espressione del santo (più serafica e composta di quella che compare nel disegno), per proseguire con la presenza del calice e dell’aquila simboli dell’evangelista, l’assenza del velo dal braccio destro dell’angelo, la posizione leggermente più rialzata dell’angelo (e dunque le sue minori proporzioni). Il foglio, uno dei rarissimi di Fermo Ghisoni, appare, secondo lo storico dell’arte Paolo Bertelli, “fresco nella realizzazione” e con molti degli elementi tipici della maniera del pittore: ci si riferisce, nello specifico, alle “dita affusolate con le ultime falangi rivolte verso l’alto” e alle “soluzioni delle pieghe dei panneggi”. Nella sala figura anche la Madonna col Bambino e i santi Benedetto e Giovanni evangelista data a Rinaldo Mantovano (San Benedetto Po?, 1502 circa - Mantova, 1540), in prestito dalla parrocchiale di Gonzaga, per attestare come gli allievi lavorassero sui disegni del maestro (il modello per la pala della chiesa di Gonzaga è però in mostra solo riprodotto). La penultima sala presenta un buon numero di fogli di Giovanni Battista Bertani (Mantova, 1516 - 1576), continuatore dei progetti di Giulio dopo la sua scomparsa, offrendo ai visitatori una panoramica sui temi dei disegni di bottega, che spaziano dall’ornato alle opere a soggetto religioso, dai disegni per dipinti mitologici a quelli per opere allegoriche: ammiriamo le capacità compositive di Bertani nei disegni per pale d’altare (il Matrimonio mistico di santa Caterina), l’estro fantasioso che quasi esaspera l’espressività tipica di Giulio con esiti stravaganti in fogli quali l’Apollo sul carro o le Tre furie, mentre l’apice del dramma si tocca in un disegno con la Punizione di Atteone, il mitologico cacciatore che suscitò l’ira di Diana (e non di Venere come indicato da Peter Assmann nella scheda in catalogo) per averla spiata nuda, affronto per il quale fu tramutato in cervo. La chiusura è affidata a un ulteriore confronto, tra la tavola con Orfeo straziato dalle baccanti, di collezione privata, e il suo disegno, il 3494 del Louvre: il direttore di Palazzo Ducale (cui sono state affidate le schede in catalogo delle due opere) non convince nel suo avventurarsi ad attribuire il dipinto alla mano di Fermo Ghisoni sulla sola base dei panneggi (più interessante appare l’assegnazione ad Anselmo Guazzi proposta da L’Occaso). È invece un autografo di Giulio il disegno, decisamente più vigoroso ed efficace della traduzione “a colori” del discepolo.

Giulio Romano, Cristo e l'adultera (1530-1540; penna e inchiostro bruno, acquerellature a inchiostro bruno, tracciato preparatorio a matita nera, lumeggiature bianche su carta preparata in beige, 410 x 563 mm; Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques, inv. 3614)
Giulio Romano, Cristo e l’adultera (1530-1540; penna e inchiostro bruno, acquerellature a inchiostro bruno, tracciato preparatorio a matita nera, lumeggiature bianche su carta preparata in beige, 410 x 563 mm; Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques, inv. 3614)


Il cortile della cavallerizza
Il cortile della cavallerizza


Giulio Romano, Progetto per la Porta del Te a Mantova (1530-1536 circa; penna e inchiostro, acquerellature, 369 x 551 mm; Stoccolma, Nationalmuseum, NMH 360/1863)
Giulio Romano, Progetto per la Porta del Te a Mantova (1530-1536 circa; penna e inchiostro, acquerellature, 369 x 551 mm; Stoccolma, Nationalmuseum, NMH 360/1863)


Fermo Ghisoni da Caravaggio, San Giovanni evangelista (1552; penna e inchiostro bruno, acquerello bruno, matita nera, 264 x 230 mm; Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques, inv. 35351)
Fermo Ghisoni da Caravaggio, San Giovanni evangelista (1552; penna e inchiostro bruno, acquerello bruno, matita nera, 264 x 230 mm; Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques, inv. 35351)


Fermo Ghisoni da Caravaggio, San Giovanni evangelista (1552; olio su tela, 202 x 165 cm; Mantova, cattedrale di San Pietro)
Fermo Ghisoni da Caravaggio, San Giovanni evangelista (1552; olio su tela, 202 x 165 cm; Mantova, cattedrale di San Pietro)


Giovanni Battista Bertani, Tre furie con ali di pipistrello e sei demoni con teste di animali (1560-1570; penna e inchiostro bruno, tracce di matita nera e quadrettatura a matita nera, 190 x 150 mm; Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques, RF 514)
Giovanni Battista Bertani, Tre furie con ali di pipistrello e sei demoni con teste di animali (1560-1570; penna e inchiostro bruno, tracce di matita nera e quadrettatura a matita nera, 190 x 150 mm; Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques, RF 514)


Giovanni Battista Bertani, Apollo sul carro (1560 circa; inchiostro bruno, matita nera, acquerellature a inchiostro bruno, quadrettatura a penna, 146 x 224 mm; Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques, inv. 6047)
Giovanni Battista Bertani, Apollo sul carro (1560 circa; inchiostro bruno, matita nera, acquerellature a inchiostro bruno, quadrettatura a penna, 146 x 224 mm; Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques, inv. 6047)


Giovanni Battista Bertani, Atteone trasformato in un cervo (1560 circa; matita nera, penna e inchiostro bruno, acquerellature grigie e brune, lumeggiature bianche parzialmente ossidate, 322 x 444 mm; Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques, inv. 20926)
Giovanni Battista Bertani, Atteone trasformato in un cervo (1560 circa; matita nera, penna e inchiostro bruno, acquerellature grigie e brune, lumeggiature bianche parzialmente ossidate, 322 x 444 mm; Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques, inv. 20926)


Giulio Romano, Orfeo straziato dalle baccanti (1530 circa; penna e inchiostro bruno, acquerellature a inchiostro bruno, 249 x 310 mm; Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques, inv. 3494)
Giulio Romano, Orfeo straziato dalle baccanti (1530 circa; penna e inchiostro bruno, acquerellature a inchiostro bruno, 249 x 310 mm; Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts graphiques, inv. 3494)


Anselmo Guazzi, Orfeo straziato dalle baccanti (1530 circa; olio su tela, 59,5 x 59 cm; Collezione privata)
Anselmo Guazzi, Orfeo straziato dalle baccanti (1530 circa; olio su tela, 59,5 x 59 cm; Collezione privata)

Annunciata da più d’un anno con eccezionale enfasi (Mantova, del resto, aspettava da tempo una mostra su Giulio Romano: il battage è pertanto comprensibile), l’esposizione trae il suo più alto valore, come s’è ribadito, dai diversi confronti tra disegno e opera, tra ideazione ed esecuzione, avvalendosi d’una mole di fogli imponente (sono più di settanta solo quelli in arrivo dal Louvre: la mostra di Palazzo Ducale ha dunque esteso il raggio d’azione di quella tenutasi a Parigi nel 2012, che aveva un impianto simile ma che constava di meno di cinquanta disegni). I risultati non sono ovviamente paragonabili a quelli della mostra del 1989, ma di sicuro sarà corretto sottolineare come la rassegna di Palazzo Ducale riesca a trasmettere al grande pubblico l’immagine d’un Giulio Romano come multiforme ed estroso leader d’una fabbrica estremamente attiva e produttiva, dove s’incontravano artisti di diverso talento e capacità, e che per tal ragione spesso dava adito a risultati altalenanti (la pensava più o meno alla stessa maniera già Vasari, quando nell’edizione giuntina delle Vite scriveva, parlando degli allievi e dei collaboratori di Giulio, che “se bene alcuni si persuadono essere da più di chi gli fa operare, conoscono questi cotali, mancata la guida loro prima che siano al fine, o mancando loro il disegno e l’ordine d’operare, che per aver perduta anzi tempo o lasciata la guida, si trovano come ciechi in un mare d’infiniti errori”). Emergono dunque in maniera abbastanza chiara i legami tra opere e luoghi e tra maestro e allievi, anche se ovviamente non c’è la pretesa di ricostruire le singole personalità dei discepoli: un intento che, del resto, si spingerebbe oltre gli obiettivi della rassegna. La stessa Roberta Serra rimarca, nel catalogo, che la questione è spinosa, ma se non altro la sequenza di fogli è utile per intuire come la maniera giuliesca si sia affermata e diffusa anche dopo la scomparsa dell’artista. Per altri argomenti, come il tema dell’organizzazione dei cantieri e del modo in cui Giulio trasferì a Mantova quanto appreso lavorando a Roma con Raffaello, occorrerà trovar sostegno nel catalogo.

La pubblicazione si configura, da un lato, come un focus sull’attività grafica di Giulio (le due curatrici ripercorrono la storia dei disegni dell’artista al Louvre, e in più Roberta Serra offre una rapida carrellata sul rapporto tra maestro e allievi per ciò che s’evince dai fogli in mostra), e dall’altro come un excursus sui principali aspetti della presenza di Giulio Romano a Mantova, introdotti dal saggio di Carlo Marco Belfanti che si sofferma sugli equilibri geopolitici del marchesato (e poi ducato) dei Gonzaga al tempo di Giulio: il contributo di Renato Berzaghi si concentra sugl’interventi di Giulio in Palazzo Ducale, Paolo Bertelli (assieme a Berzaghi) ricostruisce la divisione del lavoro tra gli allievi di Giulio sempre in Palazzo Ducale, lo stesso Bertelli approfondisce il lavoro dell’artista di Roma per il Duomo di Mantova, e infine Paolo Carpeggiani prende in esame due casi (il palazzo di Marcantonio Thiene a Vicenza e la Villa Della Torre-Allegrini a Fiumane) individuati come esemplificativi delle abilità di Giulio co,e architetto. Chiudono il catalogo, in appendice, un’analisi di Luisa Onesta Tamassia sui documenti sull’artista nell’Archivio di Stato di Mantova e un breve affondo di Augusto Morari sulla tecnica giuliesca delle grottesche.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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