Come si attribuisce un dipinto: Giovanni Battista Cavalcaselle e il metodo dell'“intuizione”


Lo storico dell'arte Giovanni Battista Cavalcaselle si affidava al metodo dell'intuizione, o impressione generale, per attribuire le opere: vediamo come procedeva.

Nella prima “puntata” di questa piccola serie di articoli dedicati alla storia della connoisseurship, avevamo fatto un rapidissimo riferimento (evidenziato soprattutto nei commenti alla discussione nata attorno allo stesso articolo) a un importante testo scritto nel 1968 da Enrico Castelnuovo: la voce Attribution dell’Encyclopedia Universalis. Lo avevamo citato perché lo studioso paragonava lì il metodo di Giovanni Morelli (1816 - 1891) a quello di Sherlock Holmes, e oggi chiamiamo nuovamente in causa Enrico Castelnuovo in quanto è nelle stesse pagine che l’autore ricostruiva, a grandi linee, la storia della metodologia attributiva contrapponendo, al metodo morelliano, quello fondato sull’"intuizione", il cui riconoscimento dell’importanza veniva fatto risalire al XVIII secolo, quando l’erudito Giovanni Bottari (1689 - 1775) scriveva che “quel che fa distinguere l’autore d’un quadro è quel tutto insieme che si presenta alla prima a uno che abbia gran pratica di quella maniera”. La definizione è oltremodo calzante: secondo questo modo di vedere, il nome dell’autore di un dipinto verrebbe fuori dagli schemi e dalle impressioni generali che renderebbero manifesto lo stile d’un pittore.

Giovanni Battista Cavalcaselle
Giovanni Battista Cavalcaselle
Avevamo visto che anche Giovanni Morelli prendeva in considerazione la possibilità di ricondurre la mano di un artista alle caratteristiche della composizione in generale: tuttavia, lo storico dell’arte veneto considerava relativa (e di sicuro secondaria) l’importanza di tali caratteristiche. Proprio per questa ragione, il suo metodo era del tutto incompatibile con quello del suo contemporaneo Giovanni Battista Cavalcaselle (1819 - 1897), che invece proprio sull’intuizione e sulla facoltà di desumere il nome di un artista da un’impressione generale fondava la propria capacità di formulare le attribuzioni. Il metodo di Cavalcaselle dunque, al contrario di quello di Morelli, non si concentra solo sui dettagli più minuti di un’opera d’arte, ma tiene in altissima considerazione tutti gli elementi di un dipinto, in particolare quelli che contribuiscono a creare un preciso schema compositivo. In altre parole, Cavalcaselle cercava di individuare le specifiche salienti dello stile di un pittore: i tipi di forme utilizzati, la più o meno spiccata propensione al dinamismo, il modo di abbigliare i personaggi e di rendere le acconciature, la morbidezza del tratto. E questo per arrivare a un’analisi complessiva dell’opera, in modo che ne uscisse uno schema che poteva esser paragonato a quello che lo studioso si costruiva per un pittore la cui produzione era ben nota. Ciò significa che lo storico dell’arte, studiando un artista, deve arrivare a una conoscenza del suo stile tale da permettergli di comporre, come detto, uno schema mentale con il quale mettere a paragone un’opera il cui nome non è noto: se lo schema di un’opera da attribuire potrà soddisfare in modo ragionevole lo schema compositivo di un artista che lo storico ha delineato, ci saranno buone probabilità che il dipinto sia proprio di quell’artista.

Per riuscire a condurre al meglio il proprio lavoro, Cavalcaselle aveva bisogno d’una gran quantità di appunti e disegni. Lo studioso, anche lui veneto come Morelli, aveva studiato all’Accademia di Belle Arti di Venezia, senza però riuscire a portare a termine il suo percorso accademico: aveva infatti preferito abbandonare gli studi per dedicarsi a viaggiare alla scoperta dell’arte, dapprima nelle sue terre d’origine,poi in tutta Italia, e quindi anche in Europa. Proprio durante i suoi viaggi, Cavalcaselle costruì e consolidò la sua fama di conoscitore ed ebbe modo di entrare a contatto con personalità importanti della cultura del suo tempo, tra le quali l’artista inglese Charles Eastlake, che divenne direttore della National Gallery di Londra nel 1855 e fece lavorare Cavalcaselle per qualche tempo nell’istituto londinese, o ancora il critico Joseph Archer Crowe, con il quale pubblicò una celebre Storia della pittura in Italia (History of painting in Italy).

Appunti di Giovanni Battista Cavalcaselle sulla Flagellazione di Piero della Francesca
Appunti di Giovanni Battista Cavalcaselle sulla Flagellazione di Piero della Francesca (credit: Fondazione Memofonte). A destra, il dettaglio del dipinto analizzato dallo studioso (1460 circa; tempera su tavola, 59 x 81,5; Urbino, Galleria Nazionale delle Marche)
Appunti di Giovanni Battista Cavalcaselle sulla Pala dei Cacciatori di Bartolomeo Caporali. A destra, uno dei due frammenti del dipinto
Appunti di Giovanni Battista Cavalcaselle sulla Pala dei Cacciatori di Bartolomeo Caporali (credit: Fondazione Zeri). A destra, uno dei due frammenti dell’opera che si conservano (1487; tempera su tavola, 39,5 x 29,5 cm; Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria)

Come si è anticipato, durante i suoi viaggi lo studioso veneto indugiava spesso nell’attività del disegno: Cavalcaselle si tratteneva di fronte alle opere d’arte, le studiava e le fissava sui suoi fogli con brevi schizzi fatti a penna o a matita, che gli servivano per tenere memoria delle peculiarità degli stili degli artisti che studiava. In un’epoca in cui la fotografia era ancora molto macchinosa e dispendiosa, il disegno era un supporto imprescindibile per lo studioso: e proprio per questa ragione, Cavalcaselle non tralasciava di fissare anche certi dettagli che gli tornavano utili per tracciare il profilo di un artista. Insomma: se i disegni di Cavalcaselle fossero dei testi, potremmo quasi catalogarli come riassunti di un testo completo. Riassunti che lo studioso, molto spesso, completava con annotazioni (date, luoghi, tecniche adoperate, stato di conservazione, confronti con altre opere e via dicendo). Un grande critico come Carlo Ludovico Ragghianti (1910 - 1987) rimase molto colpito dalle capacità di Cavalcaselle, e così scriveva nel 1952: “egli aveva una penetrazione eccezionale delle forme, dei caratteri di originalità che distinguevano ogni artista, notava non solo questi ed ogni particolarità tecnica individuale, ma i guasti, i restauri, le aggiunte, ed aveva anche una memoria visiva formidabile, come fanno fede i numerosi riferimenti che si trovano nei suoi appunti”.

Il metodo di Cavalcaselle si giovava di questa continua attività di studio e ricerca supportata dagli appunti grafici e scritti. E gli fece ottenere grandi risultati: famosa è, per esempio, l’attribuzione a Sandro Botticelli della celeberrima Madonna del Magnificat conservata agli Uffizi. Un’attribuzione che Cavalcaselle formulò per primo nel 1864, mettendo a confronto i tratti salienti del dipinto con quelli di altre opere dell’artista, nonché dei maestri che lo influenzarono. Così scriveva lo studioso nella sua Storia della pittura in Italia: “uno dei primi dipinti che il Botticelli eseguì, dovrebbe essere il tondo su tavola che conservasi nella Galleria degli Uffizi a Firenze. In esso si riscontrano i caratteri succennati”. Tali “caratteri succennati” sarebbero, per esempio, quelli che ricordano la pittura di Filippo Lippi come, nella figura della Madonna, “la capigliatura folta e copiosa cadente in trecce ricciute ai lati della testa, sul collo e sulle spalle, il velo o drappo bellamente accomodato sul capo, la foggia del vestire con le ricche frange dorate, i capelli rilevati con l’oro nelle luci”, o ancora, negli angeli, il modo con cui “sono raggruppati tra loro e attorno alla Vergine del Bambino”. Ma ci sarebbero anche caratteristiche indipendenti rispetto a quelle del maestro che denoterebbero “un sentire proprio” dell’allievo, “riunito a un maggiore studio della natura”, e “ciò si riscontra più particolarmente nel modo come son rese le forme, le appiccature, le estremità e le dita”, ma anche nel colore, che “presenta tinte men vaghe e luminose di quel che usasse fra Filippo”. L’analisi di Cavalcaselle fu convincente, e l’assegnazione della Madonna del Magnificat a Botticelli non fu mai contestata. Anzi, è stata avvalorata dal ritrovamento, per merito del lavoro della studiosa Roberta Olson, che lo ha rinvenuto nel 1995, del documento di allogagione, segnalato a fine Ottocento da Gaetano Milanesi (pur senza l’indicazione esatta della fonte).

Sandro Botticelli, Madonna del Magnificat
Sandro Botticelli, Madonna del Magnificat (1483 circa; tempera su tavola, diametro 118 cm; Firenze, Uffizi)

Numerose sono le attribuzioni che Cavalcaselle ebbe il merito di formulare per primo e che appaiono ancor oggi valide e incontestabili: tra queste, citiamo la famosissima Allegoria degli Uffizi che lo studioso attribuì a Giovanni Bellini, il Polittico di Monteoliveto, assegnato a Lorenzo Monaco, o ancora la Crocifissione e il Cristo risorto di Pietro Lorenzetti conservati a Siena. Il metodo che Cavalcaselle fece suo ebbe un larghissimo numero di estimatori e continuatori (i maggiori furono, probabilmente, Max Friedländer e Roberto Longhi) e rappresenta ancor oggi un punto di partenza imprescindibile per gli studiosi. Certo, si tratta di un metodo non del tutto esente da problemi (che si pongono soprattutto per dipinti nei quali il maestro collabora con gli allievi), ma in molti lo considerarono più affidabile rispetto a quello elaborato da Morelli, oltre che più valido, in quanto non si limita a tener conto di pochi dettagli ripetuti quasi inconsapevolmente dagli artisti, ma prende in considerazione l’insieme delle specifiche di un’opera nella sua totalità: anche per queste ragioni ha avuto molto più successo.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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