Daniele da Volterra: i dipinti d'Elci in mostra alla Galleria Corsini


Recensione della mostra 'Daniele da Volterra. I dipinti d'Elci' alla Galleria Nazionale di Palazzo Corsini, Roma, fino al 7 maggio 2017.

Sarà stata colpa dell’insolito tepore di una serata romana di fine febbraio, oppure del traffico disordinato di persone e veicoli sul Lungotevere al termine della giornata, o ancora (e più probabile) della stretta attualità dei presupposti che hanno portato alla nascita di una mostra come Daniele da Volterra. I dipinti d’Elci: sta di fatto che, usciti dalla splendida sede che la accoglie (la Galleria Nazionale di Palazzo Corsini a Roma), le nostre prime (e vivaci) impressioni a caldo sulla piccola rassegna hanno riguardato più la forma del contenuto, per quanto eccezionale quest’ultimo debba esser ritenuto. Il punto è che l’eccezionalità dell’evento risiede anche nella sua paradigmatica veste di operazione sorta in seno a un dialogo, questa volta particolarmente proficuo, tra un istituto pubblico e un soggetto privato. Non ci sarà dunque da meravigliarsi del fatto che la prima dichiarazione in comunicato stampa (tratta dal catalogo della mostra) della direttrice delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica, Flaminia Gennari Sartori, si soffermi proprio sulla forma: “È questa la prima occasione nel corso della mia direzione in cui le Gallerie Barberini Corsini ospitano dipinti provenienti da una collezione privata: ritengo che il dialogo tra il museo e l’universo del collezionismo possa innescare un circolo virtuoso di conoscenza, scoperta e condivisione pubblica del nostro patrimonio artistico ed è un percorso che le Gallerie proseguiranno nel futuro”.

Potrebbe suonare strano che un museo statale dedichi una mostra a due opere che sono di proprietà di un privato. Perciò, al fine di fugare qualsivoglia remora derivante da eventuali pregiudizi circa il troppo spesso vituperato rapporto pubblico-privato, occorrerà fare alcune considerazioni. Intanto, i due dipinti di Daniele Ricciarelli da Volterra (Volterra, 1509 - Roma, 1566) che saranno ospitati fino al 7 maggio presso la sede espositiva romana, sono sottoposti a dichiarazione d’interesse culturale (sono “notificati”, come si usa dire, o “sottoposti a vincolo di tutela”), e per tale ragione, in base all’articolo 65 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, non possono essere ceduti all’estero. In secondo luogo, sono due opere di altissima qualità di un artista il cui catalogo è alquanto scarno: quelle esposte alla Galleria Corsini, in particolare, sono un documento prezioso per comprendere quanto il volterrano avesse risentito della lezione michelangiolesca (e in particolare di quella appresa osservando il Giudizio Universale). Ogni occasione per vederle dovrebbe esser dunque salutata positivamente. Infine, le due opere sono affidate alle cure della Galleria Benappi di Torino e pare siano sul mercato: lo scorso anno furono esposte al TEFAF di Maastricht e, come notava il sempre puntuale Didier Rykner sulla Tribune de l’Art, “certi musei americani dovevano essere particolarmente frustrati per non averle potute acquistare”. Che la mostra sia un preludio a un ipotetico ingresso delle due opere nelle collezioni pubbliche italiane? Nel caso in cui si possa profilare l’operazione, noi ne saremmo vivi sostenitori. Qualora invece si tratti di eventualità ancora non presa in considerazione, cogliamo l’occasione di questa recensione per gettare un piccolo sasso nello stagno.

La sala che ospita la mostra su Daniele da Volterra
La sala che ospita la mostra su Daniele da Volterra


Finestra allestita con biografia di Daniele da Volterra
Finestra allestita con biografia di Daniele da Volterra

Veniamo dunque allo straordinario contenuto della mostra, curata da Barbara Agosti e da Vittoria Romani: due dipinti, un olio su tela e un olio su tavola, che il pubblico ha raramente l’opportunità d’ammirare. Una mostra di due sole opere, ma di grande valore, e non solo perché, tolto il succitato viaggio olandese, l’ultima esposizione dei dipinti d’Elci rimonta al 2003, in occasione della monografica su Daniele da Volterra che si tenne quell’anno a Casa Buonarroti e che fu peraltro curata dalla stessa Romani, ma anche perché alla Galleria Corsini vengono presentate al pubblico le riflettografie che hanno consentito un’analisi più compiuta delle due opere sotto il profilo tecnico e stilistico. E ancora, perché l’esposizione viene di fatto estesa anche al di là della sala in cui è allestita grazie alla presenza, nel percorso museale, di due ulteriori opere, di proprietà della Galleria Corsini, realizzate da artisti che lavorarono nello stesso ambito culturale del protagonista della mostra. Si tratta, in particolare, d’una Annunciazione di Marcello Venusti e di una Sacra Famiglia un tempo ritenuta opera di Siciolante da Sermoneta ma recentemente attribuita a Jacopino del Conte.

I dipinti d’Elci sono così detti in quanto provenienti dalla collezione dei conti Pannocchieschi d’Elci di Siena, ai quali le opere pervennero per via ereditaria da discendenti dello stesso pittore: fino agli inizi del Novecento, infatti, la loro presenza era registrata a Volterra, in casa Ricciarelli, ubicazione nella quale le opere erano date fin dagli anni Settanta del Settecento. Per quanto probabilmente poco noti al pubblico, i dipinti d’Elci rappresentano invece uno dei punti fermi della critica per ricostruire le vicende artistiche di Daniele da Volterra: entrambi eseguiti a Roma, sebbene a qualche anno di distanza l’uno dall’altro, dimostrano in modo evidente i rapporti stilistici che l’artista fu in grado di intrattenere con i colleghi. Il primo, in ordine cronologico, è l’Elia nel deserto, un olio su tela il cui solitario protagonista, il profeta Elia appunto, è sdraiato sulla nuda terra, in atto di raccogliere, provato dalle sue fatiche, una focaccia: il racconto biblico (dal Libro dei Re, capitolo 19) vuole che Elia ricevesse il cibo (accanto alla focaccia notiamo una brocca colma d’acqua) da un angelo che s’era preso cura di lui e che tradizionalmente appare nei dipinti di soggetto analogo (la sua assenza dal dipinto esposto a Roma è un fatto insolito). La presenza della focaccia e dell’acqua, alimenti espressamente citati nel Libro dei Re e assimilabili al pane e al vino che Gesù somministrò agli apostoli nel corso dell’Ultima Cena, richiama il tema dell’eucaristia che, all’alba del Concilio di Trento, fu al centro di accesissimi dibattiti che opposero i cattolici ai protestanti. I luterani, in particolare, avevano negato il concetto di transustanziazione, vale a dire la conversione, durante la messa, del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Gesù, affermando invece quello di consustanziazione, ovvero la semplice compresenza di corpo e sangue di Gesù da una parte e natura fisica dei due alimenti dall’altra. A Volterra il culto dell’ostia consacrata era particolarmente radicato, anche in virtù di un miracolo eucaristico che sarebbe occorso in città nel 1472, quando un soldato che aveva profanato una pisside vide che il contenuto aveva preso a emettere raggi abbaglianti e rimase sconvolto per l’accaduto. Si ipotizza che l’Elia nel deserto fosse destinato proprio alla città natale di Daniele Ricciarelli.

Daniele da Volterra, Elia nel deserto
Daniele da Volterra, Elia nel deserto (1543 circa; olio su tela, 81 x 115 cm; Collezione privata). Foto: Andrea Lensini, Siena


Daniele da Volterra, Elia nel deserto, riflettografia
Daniele da Volterra, Elia nel deserto, riflettografia

La maestosa e monumentale figura del profeta occupa l’intero asse orizzontale del dipinto: le dita delle mani e dei piedi arrivano financo a sfiorare entrambi i bordi. Nell’imponenza della figura dal forte accento classico e nei cangiantismi dei colori squillanti sono evidenti le suggestioni che Daniele da Volterra ricavò dall’esempio degli affreschi michelangioleschi nella Cappella Sistina (in particolare da quelli della volta), ma non si tratta di pedissequa imitazione: il volterrano, che era stato scolaro di Perin del Vaga (il quale, a sua volta, frequentò la cerchia di Raffaello) cercò di mitigare il vigore michelangiolesco ammorbidendolo con una buona dose di grazia raffaellesca palese segnatamente nel mite paesaggio che viene legato alla possente figura del protagonista con un calcolatissimo studio delle luci (si noti in particolare l’ombra che l’albero in secondo piano getta sulla spalla sinistra di Elia) e delle posizioni degli arti del profeta, a suggerire tridimensionalità. La riflettografia ha contribuito a rendere evidente la cura profusa da Daniele da Volterra nelle fasi iniziali della realizzazione: per quanto tale tipo d’indagine conosca qualche difficoltà per i dipinti su tela, in alcuni punti (per esempio nella zona di contrasto tra il paesaggio e la gamba sinistra di Elia) è possibile apprezzare la finezza del disegno dell’artista toscano, e le didascalie ben aiutano il visitatore a leggere l’immagine ottenuta con la scansione a raggi infrarossi (e anche a spiegare perché scovare il disegno tramite riflettografia, nelle opere su tela, è più difficile: perché il modo in cui la tela viene preparata offre condizioni di contrasto peggiori per far risaltare gli studi preliminari).

Se l’Elia nel deserto è stato datato a un periodo prossimo al 1543, anno in cui Daniele da Volterra terminò gli affreschi della chiesa di San Marcello al Corso, l’altro dipinto d’Elci, la Madonna col Bambino, san Giovannino e santa Barbara, dovrebbe essere di poco successiva alla realizzazione della Deposizione della Trinità dei Monti, risalente al 1545 circa: l’ipotesi che riscontra più favore la vorrebbe eseguita attorno al 1548. Alle spalle dei protagonisti si staglia un’alta torre: è quella che l’agiografia di santa Barbara vuole luogo della sua reclusione, prima del martirio avvenuto per mano del padre, che non aveva tollerato la sua conversione al cristianesimo e che la decapitò con la spada diventata poi attributo iconografico della santa (non manca neppure nel dipinto di Daniele da Volterra). Il terzo elemento che aiuta a identificare senza esitazione la santa (in passato invece si registrarono alcuni dubbi: si proposero anche i nomi di santa Martina e santa Caterina d’Alessandria) è il seno nudo, rimando alle torture che la giovane dovette subire per mano dei suoi carcerieri (tra queste, appunto, l’amputazione del seno, guarito poi da un angelo).

Daniele da Volterra, Madonna col Bambino, san Giovannino e santa Barbara
Daniele da Volterra, Madonna col Bambino, san Giovannino e santa Barbara (1548 circa; olio su tavola, 131,6 x 100 cm; Collezione privata). Foto: Andrea Lensini, Siena


Daniele da Volterra, Madonna col Bambino, san Giovannino e santa Barbara, riflettografia
Daniele da Volterra, Madonna col Bambino, san Giovannino e santa Barbara, riflettografia

Nella scheda del dipinto sul catalogo della monografica del 2003, si richiamava l’attenzione sull’originalità dei santi (e, in generale, delle figure) di Daniele da Volterra: in particolare, il tentativo di conferire un forte senso di distacco delle figure dal fondo avrebbe distinto i personaggi del volterrano da quelli di suoi conterranei, come Vasari o il Bronzino, attivi negli stessi anni. Più nel dettaglio, si citava Hermann Voss, che riteneva tali figure dotate di una “concretezza talvolta perfino inquietante”, al punto che “sembra quasi che cerchino di uscire dal quadro, con le loro estremità di dimensioni abnormi” (le dita, per Voss, erano caratteristiche decisamente rivelatrici: si notino quelle protese in avanti della mano sinistra di santa Barbara, ma anche il piede destro del Bambino che si porta parimenti verso l’osservatore). Le figure paiono quasi gettarsi in avanti, farsi incontro allo spettatore, coinvolgerlo profondamente. Evidente come le imprese michelangiolesche della Cappella Sistina e della Cappella Paolina abbiano esercitato un’attrazione fondamentale su Daniele da Volterra: la composizione stessa, con le figure letteralmente “incastrate” (tale è il termine usato dalle curatrici) nel dipinto in modo da portarle a occupare tutta la superficie pittorica, è risultato di un’attenta analisi delle opere di Michelangelo. Una composizione peraltro studiatissima in ogni particolare: ed essendo la Madonna col Bambino, san Giovannino e santa Barbara un’opera su tavola, la lettura del disegno attraverso la riflettografia è operazione decisamente più agevole. È dunque risultato chiaro come l’artista avesse prodotto un disegno preparatorio oltremodo dettagliato: addirittura, s’era premurato di riportare dal cartone, anch’esso evidentemente non avaro di particolari, i confini tra zone di luce e zone d’ombra per offrire a se stesso un aiuto in fase di realizzazione del chiaroscuro. Un chiaroscuro, occorre evidenziarlo, molto raffinato: si vedano, a titolo esemplificativo, i peducci della torre che vengono inondati dalla luce che proviene da destra e poi digradano progressivamente verso il buio, o ancora i trapassi sul volto di santa Barbara che, sporgendosi verso di noi che la osserviamo (in modo non scevro di una certa sensualità, accresciuta dall’esposizione del seno nudo), rimane per metà nella penombra.

Usciti dalla sala che ospita le opere di Daniele da Volterra (allestita, peraltro, con scenografie sobrie ed eleganti: è stata naturalmente privilegiata la piena leggibilità dei dipinti e delle riflettografie) è necessario procedere con qualche cautela, perché il dialogo con le opere della collezione (particolarmente proficuo quello con la Sacra Famiglia attribuita a Jacopino del Conte, la cui Madonna fa eco a quella di Daniele da Volterra) non è adeguatamente evidenziato e si corre il rischio di perderlo, o comunque di non prestargli la dovuta attenzione: in questo senso, gli organizzatori avrebbero potuto fare decisamente meglio. Al di là di questa mancanza, si tratta in ogni caso di un’operazione da promuovere senza indugio, anche perché calata entro un contesto che spinge il visitatore ad approfondire: Palazzo Corsini è a due passi da Città del Vaticano, dove troviamo non solo le opere di Michelangelo che ispirarono Daniele da Volterra, ma anche gli stessi affreschi che il volterrano eseguì per i Palazzi Vaticani, e attraversando il Tevere si potrà andare ad ammirare i suoi lavori in Trinità dei Monti, San Marcello al Corso, San Giovanni in Laterano. E poi, come già sottolineato, si tratta di un’esposizione che offre un’ottima occasione per vedere due lavori eccelsi di Daniele da Volterra altrimenti inaccessibili. Non è detto che con soli due dipinti non si riesca a mettere in atto un’operazione intelligente: in un’epoca in cui esporre una o due opere significa, il più delle volte, allestire ostensioni più vicine alle celebrazioni religiose che alle mostre d’arte, eventi come Daniele da Volterra. I dipinti d’Elci, inappuntabili sotto il profilo filologico e valenti sotto quello divulgativo, dovrebbero essere ritenuti esempi virtuosi.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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