Per chi non capisce un cubo: lunga intervista ad Eike Schmidt sull'ex Teatro Comunale di Firenze


“Non ho sentito una sola voce seria in favore di questo sfregio”: lunga intervista ad Eike Schmidt sull’ormai famoso cubo nero di Firenze: non soltanto uno “scempio”, come lo definisce, ma sintomo di qualcosa di più grave. Ecco le paure di Eike Schmidt: dalla perdita dello status di patrimonio Unesco alla marginalizzazione dei cittadini, dalla svendita della città al futuro a rischio del convento di Santo Spirito.

È il caso che ha fatto discutere tutta Firenze e non solo: l’edificio che ha preso il posto dell’ex Teatro Comunale, per il quale si è sollevata un’indignazione pressoché unanime per via del profilo che impatta notevolmente sugli edifici ottocenteschi del Lungarno Vespucci, oltre i quali si vede la massa di quello che i fiorentini hanno già ribattezzato il “cubo nero” per via delle sue forme non esattamente in accordo con l’ambiente circostante. Tra i primi a sollevare il caso si conta l’ex direttore degli Uffizi (e ora direttore del Museo e Real Bosco di Capodimonte di Napoli), Eike Schmidt, candidato sindaco per il centrodestra alle ultime elezioni comunali. Lo abbiamo raggiunto per farci spiegare il suo punto di vista: secondo Schmidt, il “cubo nero” non è soltato uno “scempio”, come lo definisce, ma è sintomo di qualcosa di più grave che ci costringe a riflettere su molte questioni. I timori di Schmidt sono diversi: dalla perdita dello status di patrimonio Unesco alla marginalizzazione dei cittadini, dalla svendita della città al futuro a rischio del convento di Santo Spirito. L’intervista è di Federico Giannini.

Eike Schmidt
Eike Schmidt

FG: Direttore, Lei è stato tra i primi a denunciare la vicenda del cubo nero di Firenze. E già dieci giorni fa diceva che avrebbe valutato la possibilità di presentare un esposto all’Unesco. Lo avete già inviato? Oppure lo state preparando?

ES.: Il primo a segnalare il caso è stato Massimo Sabatini della mia lista civica, il 6 maggio 2025. All’epoca però non è stato ascoltato da nessuno, né ripreso dalla stampa, e solo nel momento in cui il cubo è stato svelato (e non con una cerimonia, ma quando sono stati tolti i teloni di protezione del cantiere e tutti hanno potuto vederlo), allora credo di essere stato il primo, o tra i primi, a stigmatizzare questo scempio. Ho subito pensato a un eventuale esposto all’Unesco, perché sembra chiaro che le consuete soglie e procedure della tutela abbiano fallito in qualche modo. Infatti, a Dresda e Liverpool l’Unesco ha addirittura tolto la status di Patrimonio dell’Umanità, sempre in base a un nuovo edificio o un nuovo ponte. Come sempre, per un esposto non servono opinioni o conclusioni, ma elementi concreti da valutare. Stiamo quindi mettendo insieme degli elementi oggettivi da trasmettere all’Unesco. Il nostro obiettivo ovviamente non è quello di far eliminare Firenze dai siti Unesco, ma piuttosto l’opposto: garantire la permanenza di Firenze, magari con prescrizioni su modifiche all’edificio incriminato, forse un altro “cartellino giallo” formale, che Firenze peraltro ha già subito una decina d’anni fa.

Secondo lei, concretamente, per questa vicenda Firenze rischia davvero di perdere lo status di patrimonio Unesco?

Il rischio c’è. Bisogna prepararsi ad agire di conseguenza e valutare se, per esempio, abbassando l’edificio si potrebbe rientrare nei parametri. Il problema di fondo, ovvero la mancanza di una visione per l’edilizia fiorentina e per la funzione sociale della città non si risolve in questa maniera, e l’edificio rimarrebbe quello che è, ma potrebbe essere un piccolo passo per almeno includerlo più congruamente nel paesaggio storico fiorentino. Queste sono alcune ipotesi che si prospettano.

Il cosiddetto cubo nero che sorge al posto dell’ex Teatro Comunale, visto oltre i palazzi di Lungarno Vespucci. Foto: Marcello Mancini
Il cosiddetto cubo nero che sorge al posto dell’ex Teatro Comunale, visto oltre i palazzi di Lungarno Vespucci. Foto: Marcello Mancini
Il cosiddetto cubo nero che sorge al posto dell’ex Teatro Comunale, visto oltre i palazzi di Lungarno Vespucci. Foto: Ordine degli Architetti di Firenze
Il cosiddetto cubo nero che sorge al posto dell’ex Teatro Comunale, visto oltre i palazzi di Lungarno Vespucci. Foto: Ordine degli Architetti di Firenze

Secondo Lei, com’è possibile che un progetto avviato più di 15 anni fa sollevi tanta indignazione solo ora, a costruzione quasi finita?

La risposta è molto semplice: perché solo adesso tutti vedono plasticamente davanti agli occhi il risultato di una concatenazione di decisioni e di scelte di varie istituzioni e diversi consessi, ma soprattutto del Comune di Firenze. I singoli passi che hanno portato a questo risultato non venivano sempre resi noti, ma erano chiusi nelle commissioni di competenza. Qualche protesta certamente c’è stata quando si decise di abbandonare lo storico Teatro dell’Opera, luogo di scenografie e di produzioni storiche dell’opera lirica, di momenti gloriosi del Maggio Musicale, e che tra l’altro era anche simbolo della vittoria dopo la seconda guerra mondiale: è stato uno dei pochi luoghi a Firenze dove è caduta una bomba nazista, mentre le ponti di Firenze furono distrutti con esplosivi a terra. Pertanto l’inaugurazione nel 1961 dell’edificio, restituito alla cittadinanza, fu un momento di rilievo e di gloria dopo tutte le sofferenze della guerra e le fatiche dell’immediato periodo postbellico. Con la sua distruzione, praticamente radendolo al suolo, tranne una parte della facciata, questo valore è già perso: praticamente non abbiamo più una memoria materiale, ci è rimasta solo quella immateriale di questa storia culturale molto simbolica per Firenze. Non è certo possibile far valutare tutti i progetti a tutti i cittadini, ma questo era uno dei più importanti e più incisivi, e avrebbe meritato di esser presentato e discusso pubblicamente. Ma da questa esperienza orribile dobbiamo anche trarre delle lezioni per il futuro, perché il cubo bianconero è solo la ciliegina avvelenata sulla torta non meno avvelenata, dal momento che si inserisce in tutta una serie di alienazioni del patrimonio comune: edifici storici importantissimi che il Comune di Firenze ha venduto (per essere eufemistici) o meglio svenduto, in questi ultimi decenni. In nessun singolo caso abbiamo visto veramente una riqualificazione della città, come è stato sempre promesso, né un utilizzo sociale delle cosiddette riqualificazioni. Dovremmo prendere il parallelepipedo bianconero come il massimo allarme possibile. Dobbiamo svegliarci! Tra l’altro il prossimo progetto è pronto e tutti lo sanno: è il convento di Santo Spirito destinato a ospitare nuovamente una RSA di lusso, e questa volta all’interno di un capolavoro assoluto del Rinascimento, che per lo scopo viene stravolto. Spazi cinquecenteschi verranno soppalcati, muri saranno costruiti davanti agli affreschi. Il peccato originale della struttura è stato la divisione amministrativa tra esercito, comune e convento, avvenuto nel periodo dell’Unità d’Italia. Ma la divisione fisica e l’abuso funzionale che sta per verificarsi sarà una vera violenza contro un capolavoro del Rinascimento. La destinazione d’uso è materia che compete esclusivamente al Comune, che con un colpo di penna potrebbe fermare questo scempio, ma non lo fa, e c’è da chiedersi seriamente il perché, cosa c’è sotto. Si devono attivare cittadini, politici, fiorentini e forestieri per salvare Santo Spirito, bisogna ricompattarne la realtà amministrativa frammentata e valorizzarne non solo l’architettura (il progetto originale è dell’Ammannati, altre parti sono del Parigi: siamo davanti a uno degli esempi più alti di architettura rinascimentale e controriformata). Questo importantissimo convento agostiniano era un centro intellettuale di importanza mondiale nel Rinascimento, e per questo anche la sua tutela ha una valenza nazionale e internazionale.

Ai cittadini e ai politici io ci aggiungerei anche gli intellettuali. E a tal proposito: come valuta l’atteggiamento della classe intellettuale fiorentina, che in passato è sempre sembrata molto presente, su questioni che L’hanno anche riguardata da vicino (ricordo, per esempio, la polemica sulla nazionalità dei direttori dei musei statali, oppure la vicenda della Ferragni agli Uffizi, quando Lei parlò di “puzzalnasisti”)...

Intanto non vedo una sola classe di intellettuali a Firenze, ma raggruppamenti diversi. Contro i direttori stranieri, a parte qualche xenofobo poco informato, non ho sentito voci intellettuali di protesta. Se si riferisce a quanti hanno rumoreggiato per la presenza della Ferragni agli Uffizi negli anni della pandemia, per un servizio a pagamento a nostro favore che ha coinvolto anche i giovani, a quel tempo ha avuto un senso e ha funzionato alla grande: quelle critiche erano sterili e non hanno portato a niente. Comunque non ci vuole il dottorato per capire immediatamente che il cosiddetto cubo bianconero cozza con l’architettura intorno. Lo dicono tutti, e con piena ragione. Non è nemmeno una questione di contrapposizione tra orientamenti politici, inutile farne un simbolo della battaglia tra destra e sinistra, perché qui ci perdiamo tutti. E non è nemmeno una questione di gusti. In termini rinascimentali, qui non si tratta solo del pulchrum bensì dell’aptum, ovvero una categoria che già di per se è necessariamente interpersonale e sociale, si potrebbe dire identitaria per una comunità, e non riducibile alla percezione soggettiva.

Per rimanere sul tema: tutti coloro che tra gli intellettuali fiorentini avrebbero la capacità di fare precise radiografie di quello che accade e, in qualche modo, anche la capacità di orientare l’opinione pubblica (l’abbiamo visto tantissime volte), a Suo avviso hanno fatto abbastanza? Si sono fatti sentire a sufficienza? La voce è stata abbastanza stentorea o si poteva fare qualcosa di più e si poteva seguire meglio la vicenda per evitare di arrivare dove siamo arrivati?

Non ho sentito tutte questi voci in questi anni, a parte le proteste agli albori della decisione (all’epoca ancora astratta) di sostituire il Teatro del Maggio Musicale. E non potevano esserci, perché come si è detto, i vari passi autorizzativi si sono svolti all’interno delle varie sedi tecniche. Anche per questo il ruolo del sindaco è concepito come interprete della cittadinanza che rappresenta. Bisogna capire se il sindaco non era all’altezza, bisogna capire se gli organi di controllo hanno fatto il loro lavoro in maniera corretta, ma bisogna anche cercare da un punto di vista strutturale quali altri paletti devono essere introdotti per ridurre il rischio di finire nuovamente così come adesso. Sicuramente ci vorrà maggiore trasparenza, ma ci vuole anche una svolta nella politica del Comune che deve mettere al centro i cittadini e non l’incasso. Purtroppo il parallelepipedo non è il primo caso ma si inserisce in una serie di alienazioni di edifici pubblici che in passato avevano avuto un ruolo nella vita della città.

Il Teatro Comunale di Firenze nel 2007. Foto: Francesco Bini
Il Teatro Comunale di Firenze nel 2007. Foto: Francesco Bini

Al polo opposto c’è anche chi ritiene che la modernizzazione di Firenze possa ben valere un cubo che si eleva dietro gli edifici ottocenteschi del lungarno Vespucci e che tende a respingere le critiche, ritenendole polemiche da passatisti. Insomma, alcuni vedono di buon grado l’operazione. Firenze dev’essere allora una città destinata alla perpetua conservazione o può avere un presente e un futuro che coabitano senza prendersi a pugni? In poche parole: può esistere (come a Parigi, per esempio) un’architettura contemporanea che insista sul centro storico di Firenze? Oppure a Firenze dev’esserci un limite inviolabile e invalicabile, e nel caso quale dovrebbe essere?

Non ho sentito una sola voce seria in favore di questo ultimo sfregio. Non va condannata però la sovrapposizione del moderno sull’antico, quando è sensata. La stazione di Santa Maria Novella sta nei manuali di architettura, e Michelucci la realizzò proprio in maniera da inserirla perfettamente nel tessuto storico della città. Questo purtroppo non si può dire della selva di pali della tramvia nell’attuale piazza della stazione. E soprattutto non del cubo bianconero che potrebbe ospitare qualunque ufficio o albergo in qualunque parte del mondo. Non reagisce in nessuna maniera alla storia e alla cultura architettonica del luogo. È un’architettura banalissima. Per giunta va sottolineato che nell’architettura contemporanea prevale sempre di più la regola virtuosa di inserirsi nella realtà esistente non solo in maniera ideale ma anche materiale, utilizzando materie prime locali o quantomeno regionali, o addirittura di sviluppare edifici esistenti in maniera creativa invece di raderli al suolo e costruirne dei nuovi. Un approccio molto più sostenibile dal punto di vista ecologico, ma anche economico. I vincitori del premio Pritzker sono sempre più spesso architetti che seguono questi principi. Pensiamo a Diébédo Francis Kéré, Anne Lacaton e Jean-Philippe Vassal, ma molte idee si trovano già decenni fa nell’opera e nei scritti teorici di Yona Friedman, morto novantasettenne nel 2020.

Per chiudere: secondo Lei come finirà questa storia? E che insegnamento se ne può trarre?

Nel caso specifico bisogna arrivare a una soluzione che riporti dignità almeno a questo luogo storico. Ma per quanto riguarda Firenze, dobbiamo smettere di vendere i pochi edifici pubblici che sono rimasti per farne ulteriori residenze di lusso. Non sono nemmeno stati venduti “al miglior offerente”: direi invece a quello tra gli offerenti indecenti che ha messo una lira in più. Al contrario, bisogna avere una visione della città, che risponda alle esigenze dei fiorentini, adesso. Bisogna riflettere sulla vivibilità della città di Firenze e su che tipo di interventi contemporanei vadano realizzati, per quale utilizzo, per renderla di nuovo una città per i cittadini. Perché adesso non lo è. Ma nell’immediato, il problema più grande a parte il cubo bianconero è il convento di Santo Spirito che va difeso, salvato e valorizzato con tutte le nostre forze.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Al suo attivo anche docenze in materia di giornalismo culturale (presso Università di Genova e Ordine dei Giornalisti), inoltre partecipa regolarmente come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).




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