I capolavori maremmani di Ambrogio Lorenzetti, tra arte, politica e innovazioni iconografiche


Una lettura delle opere maremmane di Ambrogio Lorenzetti a seguito della mostra di Massa Marittima e con particolare riferimento ai loro significati politici e alle loro novità iconografiche.

La recente mostra Ambrogio Lorenzetti in Maremma. I capolavori dei territori di Grosseto e Siena, al Complesso Museale di San Pietro all’Orto di Massa Marittima fino al 16 settembre 2018, ha permesso di focalizzare l’attenzione sull’attività maremmana di uno dei più grandi protagonisti del Trecento europeo, Ambrogio Lorenzetti (Siena, 1290 circa - 1348). Se presso il grande pubblico sono noti soprattutto i suoi grandi capolavori senesi, a partire dagli affreschi dell’Allegoria del Buono e del Cattivo governo, lo stesso non si può dire per le meravigliose e fondamentali opere che di lui si conservano nell’attuale provincia di Grosseto: la rassegna massetana, una sorta di riproposizione “in miniatura” della grande monografica senese dell’inverno 2017-2018 (la prima di sempre dedicata ad Ambrogio Lorenzetti), tanto ch’è stata curata dagli stessi studiosi (Alessandro Bagnoli e Roberto Bartalini: a Massa Marittima era assente solo Max Seidel, il terzo curatore della mostra del Santa Maria della Scala), ha permesso al pubblico di concentrarsi proprio sulle imprese maremmane, anche perché l’esposizione s’è estesa a coinvolgere le altre testimonianze della pittura lorenzettiana in città, inamovibili.

Tuttavia, ricostruire con precisione l’attività d’Ambrogio Lorenzetti in Maremma non è un compito agevole, dacché poche sono le testimonianze certe sulle quali possiamo contare. Occorre intanto partire da alcune considerazioni storiche: all’epoca in cui Ambrogio Lorenzetti visse e lavorò, gran parte della Maremma era sottoposta al dominio diretto di Siena, che già verso la metà del XII secolo aveva sottomesso la città di Grosseto e i suoi immediati circondarî, e da allora non aveva mai posto termine al proprio espansionismo, le cui mire puntavano sulla ricchissima Massa Marittima, fiorente comune indipendente al centro d’un importante distretto minerario. Così, tra la fine del Duecento e gl’inizî del secolo successivo, dopo aver consolidato il proprio territorio e aver trovato uno sbocco sul mare annettendo Talamone e dintorni acquistandone i territorî dai monaci di Santa Fiora, la Repubblica di Siena poté anzitutto incorporare nei propri dominî alcuni centri strategici, come Roccalbegna e Roccastrada, e nel 1333 riuscì a estendere in via ufficiale il proprio dominio su Massa Marittima, che si sottomise nel 1335 sancendo la fine della sua secolare indipendenza. Per la città iniziò così un inesorabile declino, iniziato col trasferimento di gran parte della sua classe imprenditoriale a Siena, accelerato con la peste del 1348, e reso definitivo con la riduzione dell’attività mineraria.

È proprio a partire dal fatidico 1335 ch’è possibile cominciare a inquadrare meglio il ruolo e i lavori di Ambrogio Lorenzetti in Maremma. È necessario comunque premettere che la sua presenza a Massa Marittima è attestata dalle fonti antiche: sia Lorenzo Ghiberti (nei Commentarii) che Giorgio Vasari (nelle Vite) ricordano che Ambrogio realizzò a Massa Marittima una tavola e la decorazione ad affresco d’una cappella. Ghiberti afferma che “è a Massa una grande tavola e una cappella”, e gli fa eco Vasari sostenendo che “a Massa lavorando in compagnia d’altri una cappella in fresco, ed una tavola a tempera, fece conoscere a coloro quanto egli di giudizio e d’ingegno nell’arte della pittura valesse”. Se è piuttosto complicato identificare quali siano stati gli affreschi dipinti da Ambrogio Lorenzetti a Massa Marittima (si tornerà più sotto sull’argomento), più semplice è individuare la tavola, ch’è possibile indicare senza dubbî nella grande Madonna col Bambino in trono con Virtù teologali, angeli musicanti, santi e profeti, ma più semplicemente nota come la Maestà di Massa Marittima, grande protagonista tanto alla rassegna di Siena quanto alla mostra che le è stata allestita attorno nella sua attuale “casa”, il Museo d’Arte Sacra nel Complesso Museale di San Pietro all’Orto a Massa Marittima (la rassegna s’è infatti dispiegata nella sala che abitualmente conserva la grande tavola lorenzettiana, in quella attigua e in un ambiente al piano inferiore).

Nel loro saggio nel catalogo della mostra del Santa Maria della Scala, Max Seidel e Serena Calamai hanno ipotizzato un fondamentale ruolo politico della Maestà, cronologicamente collocata proprio nel periodo in cui Massa Marittima fu conquistata da Siena. Realizzata sicuramente prima del 1337 (l’ipotesi è addotta sulla base d’evidenze stilistiche), la tavola viene collocata negli anni immediatamente successivi la sottomissione di Massa Marittima a Siena, che con la Maestà di San Pietro all’Orto sanciva anche in termini “artistici” il proprio dominio sulla città maremmana e il legame politico e culturale che le univa. Il tema iconografico della Maestà, adattato al contesto di Massa Marittima (in primo piano si nota infatti la figura di san Cerbone, santo patrono della città: è il primo a destra), fu scelto dagli eremiti agostiniani che, dalla fine del Duecento, gestivano la chiesa di San Pietro all’Orto. Gli agostiniani, “sensibili ai contatti con i poteri temporali”, scrivono Seidel e Calamai, “si erano appropriati del simbolo della città di Siena, la Maestà, traslando il tema politico dei precedenti di Duccio e Simone Martini in una forma iconografica più intima che tuttavia si accompagnava alla presa di possesso della città daparte del Governo dei Nove”. Si trattava d’un modo per affermare, in modo estremamente rappresentativo, “l’inserimento combinato dell’ordine eremitano di Sant’Agostino e del governo senese [cui gli eremitani erano molto legati, nda] nella nuova città di Massa”. In tal senso occorre leggere la vicinanza, nell’opera, dei santi Cerbone e Agostino, dipinti l’uno al fianco dell’altro, e l’iconografia della Maestà che “appare sempre più come una compenetrazione simbolica del potere senese con la complessa tessitura teologica e iconografica degli agostiniani”.

Una sala della mostra su Ambrogio Lorenzetti a Massa Marittima
Una sala della mostra su Ambrogio Lorenzetti a Massa Marittima. Ph. Credit Finestre sull’Arte


La Repubblica di Siena tra il XV e il XVI secolo. Da Ettore Pellegrini, La caduta della Repubblica di Siena (NIE, 2007)
La Repubblica di Siena tra il XV e il XVI secolo. Da Ettore Pellegrini, La caduta della Repubblica di Siena (NIE, 2007)


Ambrogio Lorenzetti, Madonna col Bambino in trono con Virtù teologali, angeli musicanti, santi e profeti, nota anche come Maestà di Massa Marittima (1335 circa; oro, argento, lapislazzuli e tempera su tavole di legno di pioppo, altezza 161 cm il pannello centrale, 147,1 i laterali, larghezza 206,5 cm; Massa Marittima, Museo d’Arte Sacra)
Ambrogio Lorenzetti, Madonna col Bambino in trono con Virtù teologali, angeli musicanti, santi e profeti, nota anche come Maestà di Massa Marittima (1335 circa; oro, argento, lapislazzuli e tempera su tavole di legno di pioppo, altezza 161 cm il pannello centrale, 147,1 i laterali, larghezza 206,5 cm; Massa Marittima, Museo d’Arte Sacra)

Al di là del suo forte significato politico, l’opera si nutre infatti d’importanti fondamenti religiosi. La tavola vede al centro la Madonna che tiene tra le mani il Bambino ed è assisa su di un originalissimo trono immateriale che ha per basamento i tre gradini colorati delle virtù teologali, per seduta il grande cuscino a rotolo sostenuto dagli angeli, e per schienale le ali di questi ultimi. Sui tre gradini del trono siedono le allegorie delle tre virtù: la Fede (Fides, bianca, a sottolineare il candore della fede secondo un’iconografia che rimonta addirittura alle Odi di Orazio), che regge uno specchio nel quale si riflette il volto della Trinità (un’invenzione di Lorenzetti, che introdusse lo Speculum Fidei sulla base delle letture agostiniane: lo specchio, simbolo che risale alle lettere di san Paolo, è allegoria della rivelazione divina, che viene mostrata al fedele), la Speranza (Spes, verde), che tiene tra le mani una torre (per sant’Agostino la speranza è “turris fortitudinis”, “torre di fortezza”, in quanto la speranza è animata da tale sentimento che la spinge a desiderare il bene supremo, e il colore verde s’associa alla vitalità necessaria per non perdere di vista il fine cui tende la speranza), e la Carità (Caritas), rossa come il fuoco della passione che anima i gesti caritatevoli, i cui simboli, in accordo con la teologia agostiniana, sono un cuore e una freccia (“Sagittae potentis acutae verba dei sunt. Ecce iaciuntur et transfigunt corda; sed cum transfixa fuerint corda sagittis verbi dei, amor excitatur”, ovvero “le parole di Dio sono frecce potenti e acute: ecco che vengono scagliate e trafiggono i cuori, ma quando i cuori vengono trafitti dalle frecce della parola di Dio, l’amore viene stimolato”). La rappresentazione cromatica delle tre virtù nella Maestà di Massa Marittima segue anche suggestioni letterarie dantesche. Infatti, Dante Alighieri, nel canto XXIX del Purgatorio, così descriveva l’apparizione delle virtù teologali: “Tre donne in giro, dalla destra rota / venian danzando: l’una tanto rossa, / ch’appena fora dentro al foco nota; / l’altr’era come se le carni e l’ossa / fossero state di smeraldo fatte; / la terza pareva neve testè mossa”. Non solo: si possono cogliere anche riferimenti a Jacopone da Todi (“Amor, che sempre arde / fa’ le lor lengue darde / che passa onne corato”), che nelle sue Laudi fornì una più accessibile forma in volgare alle riflessioni in latino di sant’Agostino sulla carità. E Ambrogio Lorenzetti ne trasse ispirazione per raffigurare l’allegoria della carità come nessuno prima di lui aveva fatto. Una carità pura, trasparente, bellissima (“caritas est animae pulchritudo”, scriveva sant’Agostino: “la carità è la bellezza dell’anima”), modellata a partire dagli spunti della patristica per sfociare nella definizione dell’immagine di una “Venere sacra”, la cui bellezza, affermano Seidel e Calamai, “è rappresentata dalla spalla scoperta, dalle rotondità dei seni esaltate dallo scorrere della luce sulla clamide della veste all’antica, che deriva dai rilievi dei sarcofagi romani”, ma la cui fisicità è allo stesso tempo resa eterea dalla “pittura di luce” di Ambrogio: “l’emanazione luminosa nella trasparenza corporea è resa con fini pennellate rosse che, per maggiore concentrazione di calore, sono più intense nella concavità del volgersi del collo e definiscono i profili degli occhi, del naso e della bocca leggermente socchiusa”.

Il tema della carità riveste un’importanza centrale nella tavola lorenzettiana: non solo il personaggio della Caritas è quello più vicino alla Madonna, ma la stessa Vergine perde quella ieraticità che, in certa misura, ancora la contraddistingueva nella Maestà di Simone Martini nel Palazzo Pubblico, per diventare una Mater Misericordiae che dà un tenero bacio al Bambino (rimando iconologico a un passo di san Bernardo in cui il bacio tra la Madonna e il figlio è allegoria dell’unione tra Cristo e la sua Chiesa) e che si rifà a un precedente di Duccio di Buoninsegna, la Madonna della Carità oggi conservata al Kunstmuseum di Berna. I presupposti d’una simile iconografia, scrivono ancora Seidel e Calamai, poggiano su testi medievali che individuano nella Madonna una “madre dolce e amorosa”: per esempio, un autore del XIII secolo, Riccardo di San Lorenzo, affermava che “Charitas eius charitatis omnium sanctorum forma est et exemplar” (“La carità sua [cioè di Maria] è modello ed esempio di carità per tutti i santi”), e Ambrogio Lorenzetti forse aveva in mente passi simili quando pensò di raffigurare, su di un unico asse, la carità, la Madonna e Dio (che, come da tradizione, probabilmente si trovava nella perduta cuspide centrale del complesso). Questa “trasformazione” della Madonna, tuttavia, non conclude l’elenco delle innovazioni iconografiche che Ambrogio Lorenzetti, pittore originalissimo e dotato di un talento straordinario, introdusse nella sua opera. Si osservino gli angeli ai lati della Madonna: in Simone Martini (e prima ancora in Giotto, in particolare nella Maestà di Ognissanti) erano inginocchiati ai lati della Vergine e innalzavano verso di lei recipienti colmi di fiori. In Ambrogio, al contrario, gli angeli che offrono fiori sono in piedi, e addirittura superano idealmente l’altezza della Madonna, tanto che devono abbassare lo sguardo per riverirla: un elemento che l’artista senese probabilmente incluse per rafforzare il messaggio allegorico degli angeli (anche perché i loro gesti appaiono molto più concitati), mediatori tra il fedele e la Madonna.

Diverse altre sono le novità che Ambrogio inserì nella sua opera. Scendendo verso il basso, si notino gli angeli musicanti ai piedi del trono, ognuno recante un diverso strumento musicale (due vielle gli angeli in primo piano, un salterio l’angelo in secondo piano a sinistra, una cetra quello a destra). Ambrogio Lorenzetti decorò le aureole degli angeli in primo piano con punzonature a forma d’ali aperte, e quelli in secondo piano con ali chiuse, volendo rendere esplicito il legame dei primi con la gerarchia angelica dei cherubini, e dei secondi con i serafini (gli angeli più vicini a Dio). È una sorta di celebrazione della musica secondo sant’Agostino, che in un passo delle sue Enarrationes in Psalmos parlò proprio del salterio e della cetra come strumenti simbolo della parola di Dio: il primo è concavo verso l’alto, e simboleggia quindi il cielo, il secondo verso il basso ed è pertanto allegoria della terra (e la parola di Dio proviene dal cielo ma si rivolge alla terra), così gli strumenti ritenuti in certo modo più vicini a Dio vengono suonati dagli angeli anch’essi più prossimi alla divinità. Altre suggestioni si ricavano dall’osservazione delle figure dei santi (tutti, peraltro, connotati individualmente): sant’Agostino (abbigliato con la veste nera degli eremitani sotto i paramenti da vescovo) posto vicino a san Cerbone, patrono di Massa Marittima, potrebbe assurgere, suggeriscono Seidel e Calamai, a simbolo di quella vita perfectissima che per l’eremitano tedesco Enrico di Friemar (Friemar, 1250 circa - Erfurt, 1340) si sostanziava tanto nella dedizione alla contemplazione di Dio quanto nella vita attiva e impegnata. Dunque, sant’Agostino vicino a san Cerbone diviene simbolo politico degli eremitani che “escono” dal convento per mettere il proprio impegno a disposizione della città di Massa Marittima. Un messaggio potenziato dalla presenza, sul lato opposto, di santa Caterina d’Alessandria, santa di cui veniva lodata la grande sapienza, e quindi simbolo di studio e conoscenza, qualità indispensabili per la vita attiva.

Maestà di Massa Marittima, le tre virtù teologali
Maestà di Massa Marittima, le tre virtù teologali


Maestà di Massa Marittima, la Fede
Maestà di Massa Marittima, la Fede


Maestà di Massa Marittima, la Speranza
Maestà di Massa Marittima, la Speranza


Maestà di Massa Marittima, la Carità
Maestà di Massa Marittima, la Carità


Maestà di Massa Marittima, la Madonna, il Bambino e gli angeli
Maestà di Massa Marittima, la Madonna, il Bambino e gli angeli


Duccio di Buoninsegna, Madonna della Carità (1290-130 circa; tempera su tavola, 31,5 x 22,5 cm; Berna, Kunstmuseum)
Duccio di Buoninsegna, Madonna della Carità (1290-130 circa; tempera su tavola, 31,5 x 22,5 cm; Berna, Kunstmuseum)


Simone Martini, Maestà (1315; affresco, 763 x 970 cm; Siena, Palazzo Pubblico)
Simone Martini, Maestà (1315; affresco, 763 x 970 cm; Siena, Palazzo Pubblico)


Giotto, Maestà di Ognissanti (1310 circa; tempera su tavola, 325 x 204 cm; Firenze, Uffizi)
Giotto, Maestà di Ognissanti (1310 circa; tempera su tavola, 325 x 204 cm; Firenze, Uffizi)


Maestà di Massa Marittima, santa Caterina d'Alessandria, sant'Agostino e san Cerbone
Maestà di Massa Marittima, santa Caterina d’Alessandria, sant’Agostino e san Cerbone


Maestà di Massa Marittima, gli angeli musicanti
Maestà di Massa Marittima, gli angeli musicanti


Maestà di Massa Marittima, gli angeli musicanti
Maestà di Massa Marittima, gli angeli musicanti

Il ritrovamento della Maestà di Massa Marittima, della quale già nel Cinquecento non s’aveva più notizia, è peraltro avvenuto in modo alquanto rocambolesco: il merito s’attribuisce a un insegnante, Stefano Galli, romagnolo ma massetano d’adozione, studioso di storia locale nonché primo direttore della Biblioteca di Massa Marittima, che rinvenne la Maestà nel 1867, in una soffitta del convento di Sant’Agostino, attiguo alla chiesa di San Pietro all’Orto la cui struttura, proprio in quegli anni, veniva profondamente snaturata (la chiesa nel 1866 era infatti divenuta proprietà dello Stato, che la trasformò in una scuola alterando completamente l’edificio, già comunque pesantemente e maldestramente ristrutturato nel corso del Settecento). La tavola, al momento del ritrovamento, versava in un pessimo stato di conservazione: era divisa in cinque pezzi, lungo le assi degli scomparti, e la tradizione vuole che Galli l’abbia ritrovata che veniva impiegata in un locale adibito a carbonaia come supporto per impilare il carbone da utilizzare per il riscaldamento dei locali dell’ex edificio di culto. Il capolavoro di Ambrogio Lorenzetti subì dunque un primo restauro, e un altro intervento avrebbe conosciuto nel 1978, prima del suo trasferimento nel Palazzo di Podestà di Massa Marittima e della sua definitiva musealizzazione, nel 2005, con l’ingresso nel Museo d’Arte Sacra.

Altrettanto “avventurosa” è stata la scoperta di un’altra opera maremmana ascritta alla mano di Ambrogio Lorenzetti, sempre a Massa Marittima e sempre in San Pietro all’Orto. Si tratta d’un frammentario affresco raffigurante il San Cristoforo con Gesù Bambino sulle spalle, ritrovato nel 2003 durante alcuni lavori di adeguamento dell’ex chiesa di San Pietro all’Orto, che s’accingeva ad accogliere la collezione del Museo degli antichi organi meccanici. Dell’affresco diede notizia già nel 1873 il summenzionato Stefano Galli, che lo assegnò a Lorenzetti, benché non su base filologica, ma sulla scorta delle notizie di Ghiberti e Vasari secondo i quali, come s’è detto sopra, Ambrogio Lorenzetti affrescò una cappella a Massa Marittima. L’opera, che fu successivamente ricoperta da uno strato d’intonaco, sopravvive purtroppo in pochi dettagli: si scorgono una porzione del volto di san Cristoforo, il Gesù Bambino sulla sua spalla, il panneggio di questi, una parte della decorazione della cornice. Per vedere l’affresco oggi è necessario recarsi al Museo degli antichi organi meccanici: un vetro aggiunto nel 2003 all’altezza del pavimento (quest’ultimo inserito, nel corso degl’interventi settecenteschi, a metà dell’altezza di quella ch’era un tempo la navata della chiesa) consente di comprendere fino a dove un tempo arrivasse l’affresco. “Del san Cristoforo”, ha scritto Alessandro Bagnoli nel saggio dedicato alle nuove evidenze su Ambrogio Lorenzetti nel catalogo della mostra di Siena, “stupisce l’enigmatico aspetto da Buddha, conferito dal lungo taglio ondulato dell’occhio sinistro fortemente socchiuso, che è una caratteristica distintiva del maestro senese”: particolare rivelatore per assegnare l’opera ad Ambrogio, e presente, pressoché identico, nella Maestà oggi conservata allo Szépm?vészeti Múzeum di Budapest. Tuttavia è difficile pensare a questo san Cristoforo come a un eventuale unico superstite di quella “cappella” citata da Ghiberti e Vasari: data la sua posizione (su di una parete nei pressi di quello che doveva essere un tempo l’altare della chiesa) e la tipologia dell’affresco, è probabile che si trattasse d’una figura isolata. La “cappella” va dunque cercata altrove.

Gl’indizî stilistici conducono alla Cattedrale di San Cerbone, dov’è possibile avanzare il nome di Ambrogio Lorenzetti per una Annunciazione che si trova sulla parete della navata sinistra: per Bagnoli, “potrebbe essere considerata la figurazione murale di una cappella”. Anche in questo caso si tratta d’un ritrovamento recente: la parete, liberata dalle scialbature con un restauro condotto tra il 1996 e il 1997, ha rivelato solo allora il magnifico affresco che nascondeva. Un affresco che oggi ci appare sbiadito e consunto, in uno stato di conservazione alquanto precario: ciò nondimeno, riusciamo ad apprezzare anche qui le straordinarie invenzioni d’Ambrogio Lorenzetti, a cominciare dalla finestra socchiusa che vediamo a fianco della Vergine e che l’artista inserì per aumentare la profondità spaziale della sua opera (a sua volta esaltata dall’indicazione della fonte di luce, che arriva da sinistra). Non si trovano dettagli simili nell’opera di nessun altro pittore del Trecento. La cura del dettaglio tipica del pittore senese s’evince anche dal dettaglio del libro: lo vediamo aperto alla pagina che la Madonna stava leggendo al momento dell’arrivo dell’angelo (e che spicca solitaria tra le due porzioni aperte del volume), mentre lei, con il pollice, tiene il segno per ricordare fin dov’era arrivata la sua lettura. Ci sono poi elementi che avvicinano l’affresco della Cattedrale di San Cerbone ad altre opere lorenzettiane: Bagnoli individua nella cura con cui è raffigurata la pagina aperta la stessa minuzia che Ambrogio profuse nella resa dello stesso dettaglio nell’Annunciazione realizzata nel 1344 per l’Ufficio di Gabella di Siena, inoltre la decorazione dell’aureola della Madonna è la stessa che si trova nel monarca che compare nell’episodio del Martirio dei sei francescani affrescato nella basilica di San Francesco a Siena, e ancora l’impianto della composizione, suggerisce ancora Bagnoli, palesa affinità con quello della Professione pubblica di san Ludovico di Tolosa (sempre in San Francesco a Siena) o con quello della Purificazione della Vergine oggi agli Uffizi. È dunque quest’Annunciazione l’unica evidenza sopravvissuta della “cappella” di Ghiberti e Vasari? Dati gli elementi di cui sopra e l’importanza del luogo che l’accoglie, le probabilità sono invero piuttosto alte.

Ambrogio Lorenzetti, San Cristoforo con Gesù Bambino sulle spalle (1340 circa; affresco; Massa Marittima, Museo degli antichi organi meccanici)
Ambrogio Lorenzetti, San Cristoforo con Gesù Bambino sulle spalle (1340 circa; affresco; Massa Marittima, Museo degli antichi organi meccanici). Ph. Credit Finestre sull’Arte


Ambrogio Lorenzetti, Madonna col Bambino in trono (1330-1340 circa; tempera, oro e argento su tavola, 85 x 58 cm; Budapest, Szépm?vészeti Múzeum)
Ambrogio Lorenzetti, Madonna col Bambino in trono (1330-1340 circa; tempera, oro e argento su tavola, 85 x 58 cm; Budapest, Szépm?vészeti Múzeum)


Massa Marittima, Piazza del Duomo. Ph. Credit Finestre sull'Arte
Massa Marittima, Piazza del Duomo. Ph. Credit Finestre sull’Arte


La Cattedrale di San Cerbone a Massa Marittima. Ph. Credit Finestre sull'Arte
La Cattedrale di San Cerbone a Massa Marittima. Ph. Credit Finestre sull’Arte


Interno del Duomo di San Cerbone. Ph. Credit Finestre sull'Arte
Interno del Duomo di San Cerbone. Ph. Credit Finestre sull’Arte


Ambrogio Lorenzetti, Annunciazione (1340 circa; affresco; Massa Marittima, Cattedrale di San Cerbone)
Ambrogio Lorenzetti, Annunciazione (1340 circa; affresco; Massa Marittima, Cattedrale di San Cerbone). Ph. Credit Finestre sull’Arte


Ambrogio Lorenzetti, Annunciazione (1344; tempera e oro su tavola, 121,5 x 116 cm; Siena, Pinacoteca Nazionale)
Ambrogio Lorenzetti, Annunciazione (1344; tempera e oro su tavola, 121,5 x 116 cm; Siena, Pinacoteca Nazionale)

All’attività maremmana di Ambrogio Lorenzetti (e all’espansionismo senese del secolo quattordicesimo) s’assegna anche il Polittico di Roccalbegna, un dipinto conservato ab origine nella chiesa dei Santi Pietro e Paolo del borgo in provincia di Grosseto, e che purtroppo ci è giunto in frammenti: nello scomparto centrale, vediamo quello che rimane d’una sontuosa Madonna col Bambino, e ai lati i santi Pietro e Paolo, i santi titolari della parrocchiale di Roccalbegna. Gli studî recenti hanno ricostruito il momento storico in cui ad Ambrogio Lorenzetti fu affidata l’esecuzione del polittico: Roccalbegna, centro minerario parte del comprensorio del Monte Amiata, situata sulle Colline dell’Albegna e del Fiora (l’area collinare che incornicia la Maremma grossetana), entrò a far parte della Repubblica di Siena negli anni Novanta del Duecento, e a partire da quel periodo i senesi s’adoperarono per far sviluppare l’insediamento, ristrutturando completamente il borgo e avviando la costruzione di nuovi edificî. Tra questi, figurava proprio la parrocchiale dei Santi Pietro e Paolo (all’epoca però dedicata solo a San Pietro), completata nel 1330. Stando a quanto ci tramandano i documenti del tempo, il Governo dei Nove (ovvero la giunta che guidava la Repubblica) deteneva il patronato della piccola chiesa di Roccalbegna, ed è dunque più che lecito pensare che avesse incaricato il più grande pittore della Repubblica per realizzare il polittico che avrebbe dovuto abbellire la chiesa, come “coronamento”, spiega Federico Carlini, “di una complessa azione di lungo periodo, che aveva mirato fin dall’inizio all’integrale rifondazione dell’identità urbana locale”. La commissione del polittico del resto si configurava come parte della strategia politica senese: “le opere importate da Siena”, si legge in un saggio del 1979 di Enrico Castelnuovo e Carlo Ginzburg, “furono [...] uno strumento di penetrazione della cultura senese”, che la Repubblica utilizzò in maniera sistematica nei più importanti centri conquistati.

Come anticipato, oggi l’opera appare lacunosa (e probabilmente era completata da altri scomparti), ma questo non c’impedisce d’apprezzarne la sua dimensione di “vero capolavoro della tarda maturità di Ambrogio Lorenzetti” (Carlini). Al centro, la Madonna col Bambino, in uno scomparto resecato in epoca imprecisata, siedono su un ricco trono, scorciato dal basso per assecondare il punto di vista dei fedeli nella chiesa, e inquadrato ai lati da due bifore gotiche a sesto acuto e chiuso dietro da uno schienale rivestito d’uno splendido tessuto decorato con motivi geometrici. Le figure sono solide e imperiose (si osservino gli sguardi ieratici, serissimi, quasi arcigni di san Pietro e san Paolo) ed evidenziate da elementi molto raffinati: è il caso del paramento liturgico di san Pietro, e soprattutto del suo elegantissimo pastorale (una sorta di capolavoro d’intaglio reso in pittura, con il riccio montato su di una specie di tempietto gotico e che termina con la raffigurazione del Padreterno inserito in una mandorla), ma anche della spilla che ferma il maphorion della Vergine, o delle finissime punzonature che decorano i nimbi della Madonna e dei santi.

Ambrogio Lorenzetti, Madonna col Bambino e i santi Pietro e Paolo nota anche come Polittico di Roccalbegna (1340 circa; tempera e oro su tavola, 86 x 72 cm il pannello centrale, 133 x 71 cm i pannelli laterali; Roccalbegna, chiesa dei Santi Pietro e Paolo)
Ambrogio Lorenzetti, Madonna col Bambino e i santi Pietro e Paolo nota anche come Polittico di Roccalbegna (1340 circa; tempera e oro su tavola, 86 x 72 cm il pannello centrale, 133 x 71 cm i pannelli laterali; Roccalbegna, chiesa dei Santi Pietro e Paolo)


Polittico di Roccalbegna, la Madonna col Bambino
Polittico di Roccalbegna, la Madonna col Bambino. Ph. Credit Finestre sull’Arte

Le opere maremmane di Ambrogio Lorenzetti confermano la sua vocazione di grande pittore civico, ancor prima che d’importante artista d’icone religiose. Questa dimensione, che caratterizzò gran parte della sua attività, gli veniva riconosciuta anche in tempi antichi. Tra i primi a dipingere Ambrogio Lorenzetti come un pittore-filosofo (oltre che come artista politicamente impegnato) fu Giorgio Vasari, che così scriveva nelle sue Vite: “praticando sempre con literati e studiosi, fu da quegli con titolo d’ingegnoso ricevuto e del continuo ben visto, e fu messo in opera dalla Republica ne’ governi publici molte volte e con buon grado e con buona venerazione. Furono i costumi suoi molto lodevoli e, come di gran filosofo, aveva sempre l’animo disposto a contentarsi d’ogni cosa che il mondo gli dava, e ’l bene e ’l male finché visse sopportò con grandissima pazienza”. Pittore colto, tenuto in gran considerazione dai suoi concittadini (tanto da partecipare in maniera attiva alla vita politica della sua città), Ambrogio Lorenzetti probabilmente ideò lui stesso molte delle innovazioni iconografiche che introdusse nelle sue opere, senza subire in maniera passiva le scelte dei teologi che gl’indicavano i programmi dei dipinti, ma partecipando in prima persona alla loro definizione, presumibilmente fornendo spunti e suggestioni. E riuscendo così ad aggiornare la tradizione figurativa con la sua vasta cultura, che s’estendeva dalla letteratura alla filosofia. Anche queste peculiarità di Ambrogio Lorenzetti sono state messe ben in evidenza tanto dalla mostra di Siena quanto da quella di Massa Marittima.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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