Arslantepe, il sito archeologico in Anatolia dove nascevano le prime società statali


Arslantepe, in Anatolia (Turchia orientale), è un importante sito archeologico che si trova nella zona del Vicino Oriente dove nacquero le prime società statali. Fu qui che cominciò ad affermarsi la logica del lavoro retribuito.

Se pensiamo al mondo moderno, fatto di algoritmi, monete virtuali, iperconnessioni e altissime tecnologie racchiuse in micro-dispositivi, sembra difficile credere che questa realtà così sofisticata e apparentemente innaturale derivi da un altro tipo di mondo, più antico e primitivo, in cui la vita umana era scandita dai ritmi della natura e da istinti primordiali.

Le primissime forme di civiltà umana furono caratterizzate dalla comparsa di piccoli gruppi nomadi che spostandosi di terra in terra costruirono capanne, poi abitazioni basilari, poi insediamenti e infine centri abitati. Nel frattempo l’uomo preistorico imparò le virtù della chne, sviluppandole e affinandole nelle sue diverse possibilità di applicazione: dalla caccia alla difesa del territorio, dalla produzione di oggetti rudimentali all’organizzazione del lavoro, e così via fino alla formazione delle prime città-stato: nacque allora il concetto di società, che avrebbe portato con sé cambiamenti sociali profondi e definitivi. Siamo nel periodo che la storiografia definisce età Neolitica (10.000-3.500 a.C. circa) e precisamente nel cuore dell’Anatolia, regione molto estesa nell’estrema Turchia orientale dove a 20 km dalla riva destra dell’Eufrate sorge la piana di Malatya.

Situata a nord di Sanliurfa, Malatya è un’antica città la cui storia millenaria si dispiega attraverso l’evoluzione del suo toponimo: inizialmente fu sotto l’impero ittita nel II secolo, col nome di Malitiya (da melit che in lingua ittita significa “miele”), poi divenne oggetto di contesa tra Urartei e Assiri che la conobbero rispettivamente come Meliteya e Melid/Meliddu, finché nel 712 a.C. fu conquistata dal re assiro Sargon II. In seguito un feroce incendio decretò la fine della civiltà di Melid, e il sito restò abbandonato finché non vi si stabilì il villaggio rurale di Melitene in epoca greco-romana. Infine, in epoca bizantina il terreno divenne un cimitero. Mentre questo millenario processo di costruzione-distruzione si conserva tangibilmente nei resti del grandioso sito di Arslantepe, la memoria storica dell’antico centro neolitico sopravvive nella moderna Malatya, città celebre in tutto il mondo per la fiorente produzione di albicocche dai frutteti locali.

La storia archeologica di Arslantepe fu introdotta dal francese Louis Delaporte che tra il 1932 e il 1939 condusse una serie di scavi nella porzione settentrionale del sito, riportando alla luce la celebre Porta del Leoni di periodo neo-ittita, che oltre a essere il simbolo di Arslantepe ne ha ispirato il nome: Collina (Tepe) dei Leoni (Arslan). La seconda guerra mondiale causò un arresto alle ricerche di Delaporte e, a parte una breve campagna di pochi mesi guidata da Claude Schaeffer nel 1948, il sito rimase inagito finché nei primi anni Sessanta subentrò la Missione Archeologica Italiana diretta da Salvatore M. Puglisi e Piero Meriggi, docenti dell’Università di Roma La Sapienza e dell’Università di Pavia. Oltre ad approfondire l’analisi dei livelli neo-ittiti già emersi, Puglisi e Meriggi rilevarono i resti più profondi del periodo romano e bizantino. Fu invece Alba Palmieri, archeologa della Sapienza di Roma, a scoprire un edificio templare in mattoni crudi della fine del IV millennio a.C., non un ambiente isolato ma un’unità appartenente a un complesso di edifici pubblici ben più ampio. Con la scomparsa di Palmieri nel 1990 la direzione degli scavi è stata assunta da un’altra autorità della Sapienza, l’archeologa Marcella Frangipane, che ha portato avanti la missione per oltre quarant’anni compiendo analisi scrupolose e giungendo a risultati di straordinaria importanza.

Tecnicamente il sito archeologico di Arslantepe è definito un Tell, ossia una collina artificiale formata da più strati di materiali sovrapposti, corrispondenti a diverse fasi di costruzioni e insediamenti verificatisi nell’arco di una cronologia più o meno vasta. In questo caso la sequenza archeologica individuata va dalla fine del V millennio fino all’età bizantina, con un apice di massimo sviluppo nel Tardo Calcolitico (3.350 - 3.000 a.C.). Dal punto di vista cronologico Arslantepe rappresenta uno dei primi complessi palaziali noti, in quanto precede di ben 6.000 anni il Palazzo Reale di Zimri-Lim a Mari in Siria (2.200 - 1.758 a.C.) considerato in passato l’archetipo assoluto del palazzo fortificato.

Dentro il sito archeologico di Arslantepe. Foto di Michela Bassanello
Dentro il sito archeologico di Arslantepe. Foto di Michela Bassanello
Dentro il sito archeologico di Arslantepe. Foto di Michela Bassanello
Dentro il sito archeologico di Arslantepe. Foto di Michela Bassanello
La Porta dei Leoni ittiti all'ingresso del sito di Arslantepe
La Porta dei Leoni ittiti all’ingresso del sito di Arslantepe
Marcella Frangipane, professoressa della Sapienza di Roma e archeologa della Missione Italiana ad Arslantepe. Foto di Michela Bassanello
Marcella Frangipane, professoressa della Sapienza di Roma e archeologa della Missione Italiana ad Arslantepe. Foto di Michela Bassanello

Come il Palazzo di Mari, anche Arslantepe si dotò di strutture di fortificazione e difesa ma solo alla fine del III millennio (2.500 - 2.100 a.C.), quando il palazzo era ormai stato distrutto e abbandonato e vi si insediò una cittadella fortificata attorniata da villaggi di agricoltori, che si dotò di un grosso muro di cinta realizzato in mattoni crudi. Nacque così una nuova figura di potere: il capo-guerriero, sovrano e combattente, il cui prestigio si misurava sulle sue capacità di dominare i conflitti.

L’importanza assoluta dell’uso della forza, e della sua glorificazione, trova conferma in primis nel ritrovamento ai margini del sito di una tomba di pietra in cui venne sepolto il corpo di un capo-guerriero, attraverso un sontuoso rituale di sepoltura che richiese il sacrificio di quattro adolescenti sulle lastre tombali. Inoltre, si è scoperto un corredo di dodici lance e nove spade forgiate in rame arsenicale, tre delle quali impreziosite da raffinate impugnature in argento. La produzione metallurgica ad Arslantepe comincia già nel Tardo Calcolitico (3.500 - 3.000 a.C.) e non riguarda solo le armi, ma include un’ampia gamma di oggetti come cardini di porte, utensili, strumenti da lavoro e così via. A differenza delle lance, che andavano diffondendosi già nel corso del III secolo, la spada comparve per la prima volta in assoluto proprio ad Arslantepe e non trova riscontro in nessun altro luogo per almeno un secolo. “La lunghezza delle spade varia da 45 a 60 centimetri, e questo non lascia dubbi sul loro uso. Sono più antiche di almeno mille anni rispetto a quelle trovate nel sito di Alaca Hoyuk, sempre in Turchia”, spiega l’archeologa Marcella Frangipane, direttrice degli scavi ad Arslantepe dal 1990.

Oltre alle spade, Arslantepe ha restituito reperti, manufatti e utensili che raccontano la nascita di una nuova concezione del lavoro: più organizzato, più capillare, più efficiente e avanzato sul piano burocratico e amministrativo. Contestualmente, nasceva una prima forma embrionale di città-stato regolata da una gerarchia sociale: per la prima volta nella storia dell’uomo il potere non fu più prerogativa della sfera religiosa ma acquisì anche una radice sociale ed economica, poiché il lavoro divenne uno strumento di arricchimento e acquisizione di privilegi e benefici.

All’organizzazione del lavoro corrispondeva in Arslantepe una divisione del palazzo in diversi ambienti e stanze, ciascuna dotata di una propria funzione e di conseguenza accessibile solo a determinate categorie di persone. Questi spazi si aggiungeranno e si modificheranno più volte nella storia del sito, di pari passo con l’occupazione e gli insediamenti di diverse civiltà nel corso del tempo. Allo stato attuale delle indagini, il tumulo è alto più di 30 metri e si estende su una superficie molto vasta di circa 45.000 metri quadri. Questo, senza contare le aree limitrofe in corso di indagine e i resti ancora sepolti che i ricercatori stimano possano ampliare e arricchire ulteriormente la sequenza archeologica del Tepe.

Per raggiungere il sito si deve oltrepassare l’antica porta dei leoni e la grande statua del re neo-ittita Tar?unazi, che sono in realtà riproduzioni di uno scultore locale dei monumenti originali conservati al Museo di Ankara. Seguendo un percorso costeggiato da pannelli iconotestuali molto efficaci, che illustrano la storia di Arslantepe in tre lingue (turco, italiano e inglese), si giunge in cima al tell. Al palazzo si accede da sud, e ci si ritrova subito all’imbocco di un lungo corridoio ai lati del quale si aprono alcuni ambienti laterali, identificati come magazzini per la raccolta e distribuzione del cibo. Il corridoio segue in salita il pendio della collina antica e percorrendolo si percepisce la sensazione di trovarsi all’interno di un vero palazzo, la cui complessa architettura prevedeva un livello inferiore, dove erano situate le aree per le funzioni economico-amministrative, e un livello più alto occupato dagli edifici di culto e di rappresentanza.

Sebbene in passato nei templi esistessero già metodi per distribuire e conteggiare il cibo, si trattava di eventi laici e occasionali, in cui le comunità auto-amministravano le proprie riserve di cibo al solo scopo di rifornirsi e assicurare la sopravvivenza del gruppo. Ad Arslantepe invece, comincia ad affermarsi una logica del lavoro retribuito: coloro che lavorano per il palazzo ricevono in cambio una determinata quantità di cibo, che viene conteggiata attraverso il sistema delle impressioni di sigillo, dette cretulae: piccoli dischi creati con materiali malleabili (argilla, gesso o persino sterco) su cui veniva impresso un simbolo che rivelava al funzionario l’identità di chi avesse effettuato la transazione. I sigilli invece erano stampi o piccoli oggetti cilindrici e potevano essere fabbricati in argilla, pietra, terracotta, metallo, legno o altri materiali. Le cretulae raccolte formano una serie di oltre duecento tra immagini, simboli, motivi grafici o decorativi e creazioni assolutamente originali, ognuna delle quali corrispondeva alla firma personale di una persona e tramite questa i funzionari riconoscevano chi avesse prelevato il cibo dai magazzini del palazzo e in quali quantità. Di fatto, i sigilli erano frutto di prelievi e costituivano la nostra odierna fattura.

Le cretulae sigillavano i contenitori contenenti il cibo e, una volta che questo veniva ritirato, i sigilli venivano ritirati dai funzionari che li accumulavano in una stanza apposita per poi conteggiarli e infine distruggerli. All’interno dei magazzini gli archeologi hanno scoperto grosse quantità di cretulae, oltre cinquemila frammenti, conservate integre oppure spezzate in piccoli frammenti, gettate e accumulate in punti precisi di alcune stanze probabilmente dopo essere state conteggiate.

Il sistema delle cretulae è stato teorizzato da Marcella Frangipane insieme all’archeologa Enrica Fiandra, che oltre ai sigilli ha identificato anche una rudimentale serratura, dimostrando così la conoscenza ad Arslantepe di sistemi avanzati per sigillare le porte. L’oggetto, classificato per molti come misterioso, è stato posto da Enrica Fiandra in relazione alle cosiddette “serrature saracene” diffuse in area italiana in Piemonte e Abruzzo dai romani, che le avrebbero importate dall’Oriente. La serratura era fatta di legno, oppure in una seconda versione prevedeva un picchetto a lato della porta attorno al quale girava una corda, sigillata poi con argilla in maniera da chiudere e fissare la porta di accesso ai magazzini. La sigillatura in argilla fu una tecnica ampiamente utilizzata ad Arslantepe: naturalmente il materiale è fragile e non può prevenire la manomissione di un bene, ma l’integrità del sigillo, sia esso cretula o serratura, era di fatto l’unica prova che poteva testimoniare che non fossero avvenute violazioni, furti o irregolarità. Inoltre, grazie alla permeabilità dell’argilla gli studiosi hanno potuto analizzare i frammenti di cretulae e classificare tutta la varietà di contenitori e materiali con cui il cibo era raccolto e sigillato: sacchi, cesti e vasi chiusi da corde oppure con coperchi in paglia, in stoffa, in membrane in pelle e via dicendo.

Il concetto di chiusura a chiave ritorna anche sottoforma di icona nel vasto repertorio artistico del palazzo che gli archeologi hanno riportato alla luce nell’area amministrativa e sulle pareti del corridoio. Nella stanza centrale del complesso di magazzini, ai due lati di un passaggio che in origine dava sul cortile, compaiono due piccole figure stilizzate: una forse femminile a sinistra e l’altra sicuramente maschile a destra, entrambe poste dietro una mensa e sovrastate da elementi floreali. Si è ipotizzato che quelle che sembrano mani con dita “a rastrello” possano essere chiavi sfoggiate dalle due figure come attributi di potere, a simboleggiare il prestigio del proprio ruolo di guardiani dei magazzini; d’altra parte, l’aspetto inquietante dei volti triangolari con grandi occhi e (probabili) raggi di fuoco emanati dalla testa sembrano alludere anche a una maschera sciamanica oppure a una natura divina o soprannaturale, rafforzata dalle piccole mense che potrebbero allora rivelarsi altari votivi. I disegni sono eseguiti con una pittura a secco nera e rossa, colori ricavati dal carbone e l’ocra, e si presentano in uno straordinario strato di conservazione se pensiamo che subirono diversi rifacimenti nel corso del tempo e nell’ultima fase di vita del palazzo vennero completamente cancellati da molte mani di intonaco bianco.

Disegno di figura femminile sul muro di un magazzino di Arslantepe. Foto di Michela Bassanello
"Disegno di figura femminile sul muro di un magazzino di Arslantepe. Foto di Michela Bassanello
Disegno di figura maschile sul muro di un magazzino di Arslantepe. Foto di Michela Bassanello
Disegno di figura maschile sul muro di un magazzino di Arslantepe. Foto di Michela Bassanello
Pitture parietali su una parete del palazzo di Arslantepe. Foto di Michela Bassanello
Pitture parietali su una parete del palazzo di Arslantepe. Foto di Michela Bassanello
Impressioni a stampo su una parete del palazzo di Arslantepe. Foto di Michela Bassanello
Impressioni a stampo su una parete del palazzo di Arslantepe. Foto di Michela Bassanello
Il progetto di copertura sull'area di scavo di Arslantepe. Foto di Michela Bassanello
Il progetto di copertura sull’area di scavo di Arslantepe. Foto di Michela Bassanello

Di analoga fattura sono le pitture parietali che campeggiano sui muri del corridoio, che raffigurano due grandi tori alle cui corna è legato un aratro guidato da un uomo; il gruppo sembra allontanarsi dal palazzo, di cui si scorgono a lato le imponenti architetture, per avviarsi verso il campo di lavoro. I tori presentano occhi a rombi e un corpo a clessidra: la forma geometrica del rombo sembra essere centrale nella sensibilità artistica della comunità di Arslantepe, tanto che, oltre a dominare sul piano figurativo definendo la fisionomia umana e animale, si sviluppa anche in modalità astratta generando, ancora nel corridoio, una costellazione di rombi concentrici impressi con uno stampo direttamente sull’intonaco fresco. Studiando questo secondo nucleo artistico, la professoressa Frangipane ha ricollegato la scena dell’aratro trainato dai tori (più precisamente, una slitta da trebbia) a un tòpos iconografico largamente diffuso in molte scene sull’agricoltura tradizionale della Turchia antica, tema ripreso anche su una cretula trovata all’interno del palazzo così come su un sigillo proveniente dalla città sumerica di Uruk.

La presenza di riferimenti all’agricoltura nell’arte di Arslantepe non fa che rafforzare l’idea di come il potere del palazzo fosse fortemente legato alla produzione, al controllo e alla fruizione del cibo all’interno della comunità, a opera di persone via via più qualificate e dunque privilegiate.

A questo tipo di autorità laica, si affiancava invece l’autorità religiosa che pure era dotata di un certo prestigio sociale: all’interno del palazzo infatti era ancora presente una forte componente spirituale, incarnata da sacerdoti e funzionari religiosi che godevano di potere e di accesso a luoghi riservati. Fra questi, la grande sala delle udienze, un ampio cortile in cui si sbuca percorrendo il corridoio fino in fondo: qui si suppone che una figura di alta carica, sedente su un trono installato frontalmente all’ingresso sul lato opposto della stanza, accogliesse il popolo radunato al suo cospetto per porre richieste o lasciare offerte in dono. Oltre la sala delle udienze si apre una stanza quasi privata, riservata alle élite e alla celebrazione di culti da cui le persone di classe inferiore erano inderogabilmente escluse: per accedervi bisogna superare il trono e valicare uno spesso muro che delimita la sala delle udienze, come a dire che colui che era degno del trono segnava un confine invalicabile tra la realtà dell’uomo comune e quella dell’uomo di potere, tra il cittadino e il sacerdote, tra l’umano e il divino.

Nella piccola saletta che si cela al di là del muro, gli archeologi hanno trovato una lunga tavola alla cui estremità, al momento degli scavi, sono state rinvenute tracce di un focolare allestito su una piattaforma che grazie a una serie di analisi sedimentologiche, micromorfologiche e chimiche è risultata essere immacolata, ossia priva di residui di materiale organico, e probabilmente coperta da vari strati di intonaco. L’ipotesi (accattivante pur non ancora confermata) è che la mensa non fosse dedicata a feste e banchetti, bensì a rituali d’iniziazione con presenza di un fuoco sacro, pratica esoterica ampiamente diffusa in diverse culture a partire dal mistico Sacro Fuoco nel tempio romano di Vesta. Un ambiente, come detto, quasi privato perché nel muro divisorio si apre una feritoia attraverso cui si creava un suggestivo canale ottico che permetteva di intravedere il barlume danzante del fuoco, attraverso il muro, anche a chi si trovasse all’esterno e oltre la sala delle udienze: così da mantenere il popolo informato sullo svolgimento delle cerimonie spirituali, negandogli allo stesso tempo la partecipazione diretta.

Questi ricercati accorgimenti strutturali, così come la diversificazione degli ambienti e degli spazi in base alle funzioni e alle attività svolte nel palazzo, si inseriscono nel contesto di un progetto architettonico complesso e strategico basato su spesse fondamenta (alcuni muri arrivano fino a 1,80 metri di larghezza e nelle murature in terra cruda in genere lo spessore è direttamente proporzionale all’altezza) che ci lasciano immaginare un edificio molto alto che dovette stagliarsi sul paesaggio circostante con maestosi effetti scenici. Nel piano di conservazione dell’area di scavo di Arslantepe, gli archeologi della Missione Italiana hanno cercato di rispettare il più possibile le caratteristiche del sito attraverso la progettazione di infrastrutture intelligenti e studiate secondo alcuni criteri fondamentali: svolgere un’azione di protezione, rispettare il luogo sia dal punto di vista dei materiali utilizzati ma anche sul piano estetico, garantire un buon ricircolo dell’aria evitando infiltrazioni d’acqua e umidità. Mirabile in questo senso è il progetto della copertura (2009-2011) che consiste in un tetto autoportante rivestito in legno e dotato di un’intercapedine per l’isolamento termico. La struttura, formata da pannelli diversificati a seconda degli edifici corrispondenti, è sostenuta da ponti in metallo che corrono al di sopra delle murature, affinché il peso gravi non sui muri ma su ponticelli che scaricano su due punti di appoggio. Il progetto ha ottenuto l’approvazione dell’Unesco, che nel luglio 2021 ha finalmente dichiarato il sito Patrimonio dell’Umanità.


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