Ecco perché il divino Michelangelo fu chiamato così. Una suggestione col trittico di Giuliano Amidei


Nella Casa Natale di Michelangelo a Caprese, in Valtiberina, la stanza dove il genio fu dato alla luce ospita un trittico di Giuliano Amidei. Un'opera che ci offre una suggestione: il possibile racconto di come i genitori di Michelangelo scelsero per il figlio quel nome insolito.

Siamo nel sancta sanctorum, mi dicono appena s’entra nell’ultima sala del Palazzo del Podestà di Caprese, severo e squadrato edificio in pietra sul quale s’allungano le ombre dei monti della Valtiberina. Qui, in questa stanza spoglia e austera, tra il freddo e l’umido, una ragazza di ventiquattro anni e di salute malferma, Francesca, il 6 marzo del 1475 dava alla luce il suo secondogenito: il titano Michelangelo nasceva in questo castello nascosto tra boschi sferzati dal vento e coperti di neve, di fianco all’ufficio del padre Ludovico, che per garantire un poco di serenità economica a una famiglia in ambasce aveva accettato l’incarico di podestà di Chiusi e Caprese. Lontano dall’amata Firenze, lontano dalle comodità, ad amministrare un borgo di poche case in cambio d’una paga di cinquecento lire per un semestre, meno d’un quinto rispetto a quanto pagavano le podesterie delle città ricche e ambite.

Erano lontani i tempi in cui i nobili Buonarroti ricoprivano le più alte cariche pubbliche dello Stato fiorentino: il declino della famiglia aveva costretto il trentenne Ludovico a trasferirsi tra quelle sperdute montagne per adempiere a un incarico secondario, che gli offriva però la possibilità d’aggiungere un’entrata al bilancio familiare e di non perdere i contatti con l’amministrazione dello Stato. Ludovico e Francesca avevano messo a quel bambino un nome raro a Firenze e che per giunta, fino a quel momento, nessuno in famiglia aveva mai portato: fatto strano, dacché nelle stirpi del patriziato fiorentino le tradizioni volevano che per i nascituri s’andasse a pescare il nome d’un qualche avo. Nella povera camera dove nacque il divino Michelangelo oggi c’è un trittico di Giuliano Amidei a ricordarci perché i parenti avessero deciso di dare al piccolo quel nome così insolito, a rammentare l’angoscioso episodio donde derivò un nome destinato a risuonare nel mondo e nella storia. O almeno, questa è la suggestione che ci offre.

È un’opera ben conservata, che risente in maniera evidente della lezione di Piero della Francesca, altro genio nativo di questi luoghi: al centro, un’imponente Vergine col Bambino siede su di un trono marmoreo, fiancheggiata da due angeli. Il Bambino porta il ramoscello di corallo che le mamme di buona famiglia mettevano al collo dei neonati, perché si riteneva che li preservasse dalle malattie. Ma è anche un rimando al sangue versato da Cristo in croce, al pari della macchia rossa sul muso dell’immancabile cardellino: vediamo il piccolo pennuto legato al dito di Gesù con un filo sottile, interessato a una ciliegia che l’angelo di sinistra gli sta offrendo. Negli scomparti compaiono le figure dei santi Martino e Romualdo a sinistra, Benedetto e Michele a destra. La figura del Padreterno benedicente, col libro recante l’alfa e l’omega, si staglia nella cuspide che sormonta il pannello centrale, mentre sopra ai laterali, nei due tondi, s’osservano le figure dell’Angelo annunciante e della Vergine annunciata. In antico, il trittico adornava la chiesa del monastero dei Santi Martino e Bartolomeo a Tifi, un villaggio poco lontano da Caprese: l’antica abbazia camaldolese, di cui si trova menzione per la prima volta già nel 1057, era stata fondata dallo stesso san Romualdo. Esigenze di conservazione hanno suggerito, nei primi anni Duemila, lo spostamento del trittico dalla chiesetta abbaziale al Palazzo del Podestà di Caprese.

Giuliano Amidei, Madonna col Bambino e i santi Martino, Romualdo, Benedetto e Michele (1460 circa; tempera su tavola, 196 x 213 cm; Caprese Michelangelo, Museo Casa Natale di Michelangelo, Palazzo del Podestà)
Giuliano Amidei, Madonna col Bambino e i santi Martino, Romualdo, Benedetto e Michele (1460 circa; tempera su tavola, 196 x 213 cm; Caprese Michelangelo, Museo Casa Natale di Michelangelo, Palazzo del Podestà)

Il trittico di Tifi è una delle rare tavole che si conoscano di Giuliano Amidei, monaco camaldolese d’origini fiorentine che si dilettava nella pittura e nella miniatura. In effetti, l’osservazione d’alcune minuzie descrittive, segnatamente le finissime trasparenze del velo della Madonna e della veste del Bambino, oppure le decorazioni floreali dell’armatura di san Michele, o ancora i motivi ornamentali del trono, la resa delle squame del drago, gli anelli della Vergine (mai vista con le dita così cariche!), rivelano le abilità d’un artista che fu più miniatore che pittore. La cultura figurativa è quella della Firenze di metà Quattrocento, dove con tutta probabilità dovette formarsi Giuliano Amidei: i volumi ampî e solidi sono quelli di Piero della Francesca, gli angeli che affiancano la Madonna paiono quasi una citazione del Battesimo di Cristo oggi alla National Gallery di Londra, i volti pieni e rubicondi richiamano la pittura di Filippo Lippi, i colori luminosi e vivaci riportano alle visioni del Beato Angelico. Parliamo, naturalmente, d’un’opera modesta, per quanto affascinante: un “modellato legnoso”, come ha scritto la storica dell’arte Giovanna Damiani, “caratterizza i santi monaci sia nei volti, dagli occhi grandi e imbambolati, che nelle vesti, solcate da pieghe profonde e regolari come canne d’organo”, e poi ancora l’esperienza pierfrancescana viene declinata secondo una spontaneità un po’ ingenua, evidente nel tentativo poco disinvolto di conferire una regolarità alle forme e in quello ancor meno riuscito di diffondere una luce uniforme e cristallina sui volti dei personaggi. È dunque nella resa spesso realistica di certi dettagli, evidentemente compiaciuta, che occorre trovare le qualità di questo trittico, opera d’un pittore che Damiani definisce “gradevole interprete provinciale” di Piero della Francesca.

Al tempo in cui nacque Michelangelo, il trittico di Giuliano Amidei, che possiamo immaginare eseguito negli anni Sessanta del Quattrocento, forse già si mostrava ai fedeli ch’entravano nella chiesa del monastero di Tifi. L’artista lo aveva dipinto dietro incarico dell’abate Michele da Volterra, il cui nome è ricordato nell’iscrizione che occupa la cornice inferiore dell’opera: si spiega così la presenza di san Michele, accanto al santo dedicatario dell’abbazia, al suo fondatore, e al santo che ha scritto la regola rispettata anche dai camaldolesi. E forse i genitori di Michelangelo conoscevano quell’immagine. Ovviamente non lo sappiamo, ed è probabile che non lo sapremo mai. Ci sono però elementi che, seppur non sufficienti a legare con vincoli indissolubili l’opera a Michelangelo, riescono comunque a far viaggiare la fantasia dei visitatori della casa natale del grande artista, senza però perdere gli agganci con la realtà.

È stato Alessandro Cecchi, studioso di Michelangelo e direttore di Casa Buonarroti, a ricostruire la possibile storia all’origine del nome del futuro scultore, nel catalogo della mostra sul Buonarroti che s’è tenuta al Palazzo Ducale di Genova nel 2020. Nacque tutto da un accadimento che aveva del miracoloso. “Parve che [Michelangelo] in particolar modo fosse preservato dal Cielo”, ebbe a scrivere il suo discendente Filippo Buonarroti nel 1746: “poiché la madre, essendo gravida di lui, nel viaggio cascò da cavallo, e fu strascicata per un pezzo e non si sconciò”. Francesca era in viaggio verso Caprese quando cadde da cavallo e fu trascinata per qualche metro: eppure, uscì illesa dall’incidente. E con lei anche il figlio di cui era incinta.

L’episodio è stato dipinto anche dal grande pittore fiorentino Francesco Furini in uno dei due monocromi della Camera della Notte e del Dì di Casa Buonarroti, dacché la caduta da cavallo di Francesca è da secoli parte della mitologia familiare. Una storia, dunque, nota a tutti gli studiosi di Michelangelo. Cecchi però ha provato a suggerire una possibile e precisa collocazione temporale: “L’incidente”, ha scritto lo studioso, “dovette avvenire verosimilmente il 29 settembre 1474, quando Ludovico si stava trasferendo con la moglie da Firenze alla sede podestarile assegnatagli, con obbligo di residenza, dalla fine di settembre, a Caprese”. 29 settembre, giorno di san Michele Arcangelo: forse allora proprio per grazia ricevuta dal santo il bambino ebbe nome in suo onore. Ora, è vero che la storia dell’arte non è la scienza dell’impossibile, e ogni ipotesi arrischiata dev’esser rigettata senza esitazioni. La storia dell’arte è però la disciplina del plausibile, e non è detto che messer Ludovico di Leonardo Buonarroti Simoni e madonna Francesca di Neri del Miniato del Sera, nei loro sei mesi di permanenza a Caprese, non abbiano veduto in una qualche occasione il trittico di Giuliano Amidei, ammettendo sia stato davvero dipinto prima del 1475. E allora talvolta, rimanendo nell’ambito del plausibile, è anche bello fantasticare su ciò che può esser stato. E, se tutto torna, immaginare i genitori di Michelangelo intenti a riverire l’immagine del santo che aveva fatto nascere il loro figliolo sotto una stella felice. Quella stessa immagine che oggi s’ammira nel palazzo che per alcuni mesi fu la loro casa, la casa natale di Michelangelo.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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