L'emozione del Guercino e del suo dramma sacro, nella sua Cento


“Emozione” è una parola chiave per leggere le opere del Guercino e per comprendere la mostra che Cento gli dedica, sette anni dopo il sisma del 2012.

Narra l’erudito Gaetano Atti, nel suo Sunto storico della città di Cento, che il 6 luglio del 1796 giunsero nel borgo due commissarî napoleonici, tali Ciney e Berthollet (da identificare, con tutta probabilità, coi pittori Jacques-Pierre Tinet e Jean-Simon Berthélemy), col mandato di far razzia delle opere che adornavano le chiese cittadine. Giunti nel tempio del Santissimo Rosario, i due v’avrebbero fatto calare una tela del Guercino (Giovanni Francesco Barbieri; Cento, 1591 - Bologna, 1666), la Vergine assunta, ma avrebbero poi risolto di lasciarla al suo posto in quanto “giudicatala un guazzabuglio”, commenta laconico Atti. Secondo la vulgata, ancor oggi tramandata con fierezza dagli abitanti, i due commissarî non avrebbero compreso, per loro ignoranza, che le proporzioni della Madonna dipinta dal Guercino risultavano fuori scala dacché l’opera era stata pensata per una visione dal basso: così il dipinto, visto da vicino e ad altezza d’uomo, presentando una Vergine tozza, col volto all’indietro, il naso all’insù e il mento ben in evidenza, non avrebbe incontrato l’approvazione dei due francesi e sarebbe rimasta nella sua collocazione. Il Guercino l’aveva dipinta per la chiesa del Rosario nel 1620, come attesta l’iscrizione sull’antico telaio (anche se v’è stata a lungo discussione sull’effettiva data di realizzazione della tela, che per alcuni potrebbe risalire a qualche anno più tardi), ma solo nel 1640 avrebbe trovato sistemazione nel nuovo edificio: una chiesa più grande, più bella, concepita in sostituzione della vecchia chiesetta tardocinquecentesca, non più adatta all’esigenze d’una comunità in espansione.

Il Guercino teneva molto a questa chiesa, e lo stesso legame è quello che la unisce agli abitanti di Cento. Che dal 2012 però non vi possono più entrare: duramente colpita dal sisma che, nel maggio di quell’anno, ha squassato le province di Modena, Ferrara, Mantova e Rovigo, la chiesa del Rosario da quell’anno non è più agibile, né ancora si riesce a immaginare una data a partire dalla quale i centesi potranno tornare a vederla aperta e in attività. Nel frattempo occorreva tuttavia agire per far sì che almeno le opere conservate al suo interno non fossero celate alla vista di cittadini e forestieri: Cento si rispecchia nel Guercino, il pittore è il nume tutelare di questa città, è un luminoso faro della comunità, gli abitanti lo considerano una specie di patrono laico e non ufficiale. Mossi da questa consapevolezza e dall’amore nei confronti del loro grande artista, i centesi, dopo il terremoto dell’Emilia, sistemate le persone e avviata e condotta a buon punto la ricostruzione, hanno lavorato per dar finalmente accoglienza a ciò che fin dalle prime scosse non era più dato vedere: le opere del Guercino che si trovavano negli edifici sferzati dai movimenti della terra. Sette anni più tardi, trovata una sede adatta, ovvero la settecentesca chiesa di San Lorenzo, trasformata per l’occasione in Pinacoteca, i dipinti di Giovanni Francesco Barbieri sono nuovamente visibili, e ciò ch’era un tempo nei musei e nelle chiese della città adesso forma il percorso della mostra Emozione barocca. Il Guercino a Cento, allestita nella nuova “Pinacoteca San Lorenzo” e nella Rocca di Cento, e curata da Daniele Benati.

Guercino, Vergine assunta (1620; olio su tela, 224 × 166 cm; Cento, chiesa del Santissimo Rosario)
Guercino, Vergine assunta (1620; olio su tela, 224 × 166 cm; Cento, chiesa del Santissimo Rosario)


Sala della mostra Emozione barocca. Il Guercino a Cento
Sala della mostra Emozione barocca. Il Guercino a Cento

Certo, non tutti i dipinti del Guercino conservati nella sua città natale erano rimasti per tutto questo tempo nei depositi di Bologna e Sassuolo: la Pinacoteca San Lorenzo è stata aperta nel 2016, e fin da allora aveva potuto ospitare alcune delle opere provenienti dalla Pinacoteca Civica e dalle chiese del territorio. E tra queste figurava proprio l’Assunta della chiesa del Rosario. Fuori, erano però rimaste le altre tele che il Guercino aveva dipinto per la chiesa: la Crocifissione con la Madonna, santa Maria Maddalena e san Giovanni Evangelista, il Padre Eterno, il San Giovanni Battista e il San Francesco d’Assisi, tutte eseguite per il nuovo edificio, di cui lui stesso seguì i lavori di costruzione (ne aveva financo disegnato la facciata). Prima che la costruzione terminasse, l’artista aveva ottenuto per la sua famiglia il giuspatronato della seconda cappella di sinistra dell’edificio: in cambio, avrebbe finanziato i lavori e avrebbe provveduto di sua mano a dipingere le opere che l’avrebbero abbellita. Il Guercino mantenne l’impegno e consegnò le opere ancor prima che la chiesa venisse inaugurata: era il 13 giugno del 1645, la messa che apriva al culto il nuovo tempio fu celebrata proprio nella “cappella Barbieri”, e possiamo supporre che grande fosse fin da subito lo stupore dei centesi nel vedere una chiesa tanto magnifica che, raccontano diversi storici, fu dagli abitanti detta “la Galleria” per lo splendore delle opere in essa custodite. Una secolare tradizione orale, fissata per iscritto per la prima volta nel 1760 dallo scrittore e collezionista d’arte Francesco Algarotti (che diceva essergli stata riferita dal custode della chiesa), vuole che, accanto ai santi eponimi dell’artista, Giovanni e Francesco, la scelta del Padre Eterno a completare la decorazione dell’intradosso dell’arco della cappella Barbieri fosse dovuta al fatto che la lunga barba di Dio alludesse al cognome del pittore. Qualche anno dopo, questa bizzarra autocelebrazione avrebbe scandalizzato la scrittrice Hester Lynch Piozzi, che nelle sue Observations, resoconto datato 1786 del suo Grand Tour tra Francia, Italia e Germania, ebbe a esprimere parole di biasimo nei confronti dell’artista, malgrado il suo genio l’avesse ammaliata: “my partial preference of Guercino to anything and to every thing, shall not however bribe me to suppress my grief and indignation at his strange method of commemorating his own name over the altar where he was baptised, which shocks every protestant traveller by its profaneness, while the Romanists admire his invention, and applaud his piety” (“la mia parziale preferenza del Guercino nei confronti di tutto e tutti, non m’induce a reprimere il mio dispiacere e la mia indignazione per quello strano metodo di commemorare il suo nome sull’altare dove fu battezzato, cosa che sconvolge tutti i viaggiatori protestanti per la sua blasfemia, mentre i cattolici al contrario ne ammirano l’invenzione e ne lodano la devozione”).

Non c’è ovviamente ragione di pensare che l’artista abbia davvero inteso coronare l’altare con un’immagine del Padre Eterno per un richiamo invero piuttosto triviale al suo cognome. Intanto, perché non ne avrebbe avuto motivo: la decorazione a stucco della cappella include gli stemmi di Cento e della famiglia Barbieri, posti alla base delle statue dei santi Paolo eremita e Antonio abate, eponimi del fratello dell’artista, Paolo Antonio, scolpite dal bolognese Giovanni Tedeschi. E poi, perché non si tratta d’una presenza isolata nell’arte del Guercino: nello stesso torno d’anni, le monache agostiniane di Bologna incaricarono Giovanni Francesco Barbieri di dipingere una pala per l’altar maggiore della loro chiesa (poi demolita), avente per tema la Circoncisione di Cristo, che sarebbe stata sormontata da un’immagine del Padre Eterno che, scrive Jacopo Alessandro Calvi nelle sue Notizie della vita e delle opere del cavaliere Gioan Francesco Barbieri, detto il Guercino da Cento, celebre pittore, “ivi dovea inserirsi nell’ornamento superiore”. La prima versione dell’opera (si tratta, probabilmente, della tela oggi conservata alla Galleria Sabauda di Torino) fu scartata poiché eccedeva in grandezza, mentre la seconda, che Calvi vuole dipinta “nel corso della notte medesima a lume di torcia”, era della misura giusta e “riempì di stupore le genti, che vedeano quanto fosse vivo e brillante e sapeano come in sì poco tempo era stato dipinto”. Oggi, il Padre Eterno delle agostiniane, separato dalla Circoncisione (che, requisita dai napoleonici, si trova attualmente al Musée des Beaux-Arts di Lione), è alla Pinacoteca Nazionale di Bologna: e tutti e tre i quadri di Cento, Torino e Bologna sono lo stesso, felice, altissimo prodotto della mano che replicò il modello, un vecchio dai folti capelli lunghi e scompigliati divisi da una scriminatura, e dalla luga barba che ricade sul petto, abbigliato con lo stesso ampio piviale, con atteggiamenti però differenti. Quello di Torino spalanca le braccia protendendo le mani in avanti, ieratico, solenne, è un Dio che comunica allo stesso tempo forza e protezione, è un’apparizione soprannaturale ch’è distante ma accoglie, una presenza lontana e al contempo vicina. Il Padre Eterno bolognese, quello consegnato alle agostiniane, è invece una divinità bonaria, che si sporge dalle nuvole quasi a controllare ciò che accade in quel mondo su cui poggia la sua mano, che sbircia con sguardo assorto il suo creato, preceduto dalla colomba dello Spirito Santo. Il Padre Eterno di Cento, al contrario, dei tre è il più umano, il più simile a noi, il più commovente: lo vediamo quasi che corre, tendendo le braccia verso il figlio appeso alla croce, con gli occhi abbassati a ricambiare l’espressione sofferente di lui, quasi più preoccupato di consolarlo, d’abbracciarlo, di fargli sentire la sua vicinanza, che di riceverlo nella sua gloria.

È noto, del resto, che il Guercino sapesse essere pittore profondamente sentimentale, la sua è un’arte ch’è in grado di farsi teatro per coinvolgere il riguardante sul piano emotivo, per renderlo partecipe delle scene che, con abile maestria di regista, Giovanni Francesco Barbieri dipinge per toccare nel profondo le corde dell’animo di chi osserva i suoi dipinti: come rimanere impassibili di fronte a quel capolavoro giovanile ch’è l’Incontro tra Cristo e la madre, a quegli occhi gonfi e lucidi che son lì per bagnarsi di lacrime, a quel dolce viso adolescenziale solcato da un moto d’afflizione e sgomento, alla compassione del Cristo apollineo che fa per stringere la madre a sé, e a quella meravigliosa, delicata mano che, trepida, sfiora, lambisce, accarezza per un’ultima volta la pelle del figlio? Lo stesso vale per la cappella Barbieri, e anche qui sono le mani il mezzo privilegiato col quale il Guercino esprime il pathos, la tensione, gli stati d’animo del momento. Pater in manus tuas commendo spiritum meum: non c’è forse evidenza più concreta per le ultime parole che san Luca fa pronunciare a Gesù nel suo Vangelo, e che campeggiano nella ricca cornice dorata della cappella oggi priva delle sue opere, spostate temporaneamente in San Luca. Le mani di Dio s’aprono a ricevere lo spirito di Cristo in un compassionevole slancio paterno. Quelle di san Giovanni, giunte in preghiera, comunicano il suo sconforto misto a malinconia e impotenza. Quelle di Maria si fanno evidente espressione del dolore della madre che vede il figlio straziato, e dello scoramento che non s’esprime ancora appieno con gli occhi, ma al contempo rendono palese il fatto ch’ella abbia accettato il destino di Gesù. E c’è anche la silenziosa pena della Maddalena, che usa le mani per asciugarsi le lacrime.

Guercino, Crocifissione con la Madonna, la Maddalena e san Giovanni Evangelista (1643-1645; olio su tela, 383 x 216,5 cm; Cento, chiesa del Santissimo Rosario)
Guercino, Crocifissione con la Madonna, la Maddalena e san Giovanni Evangelista (1643-1645; olio su tela, 383 x 216,5 cm; Cento, chiesa del Santissimo Rosario)


Guercino, San Francesco (1643-1645; olio su tela, 147 x 99 cm; Cento, chiesa del Santissimo Rosario)
Guercino, San Francesco (1643-1645; olio su tela, 147 x 99 cm; Cento, chiesa del Santissimo Rosario)


Guercino, Padre Eterno (1643-1645; olio su tela, 98 x 180 cm; Cento, chiesa del Santissimo Rosario)
Guercino, Padre Eterno (1643-1645; olio su tela, 98 x 180 cm; Cento, chiesa del Santissimo Rosario)


Guercino, San Giovanni Battista (1643-1645; olio su tela, 147 x 99 cm; Cento, chiesa del Santissimo Rosario)
Guercino, San Giovanni Battista (1643-1645; olio su tela, 147 x 99 cm; Cento, chiesa del Santissimo Rosario)


Guercino, Crocifissione, dettaglio della Maddalena
Guercino, Crocifissione, dettaglio della Maddalena


Guercino, Cristo risorto appare alla Madre (1628-1630; olio su tela, 260 × 179,5 cm; Cento, Pinacoteca Civica)
Guercino, Cristo risorto appare alla Madre (1628-1630; olio su tela, 260 × 179,5 cm; Cento, Pinacoteca Civica)


Guercino, Padre Eterno (1646; olio su tela, 106 x 176 cm; Torino, Galleria Sabauda)
Guercino, Padre Eterno (1646; olio su tela, 106 x 176 cm; Torino, Galleria Sabauda)

Tutto è immerso in quelle calde cromie neovenete che, sebbene attenuate rispetto a certe vigorose prove giovanili, ancora avviluppano la scena accentuandone la valenza emotiva. I cieli zaffirini, quasi sempre colti nel momento in cui la sera lascia posto alla notte, sono solcati da minacciose nubi scure, tinte qua e là dagli ultimi bagliori rossastri del tramonto. La luce, com’è tipico di molte opere del Guercino, dà luogo a forti contrasti tra zone illuminate e zone in ombra e, nella tela del Padre Eterno, balza su chioma e barba in lumeggiature accese che suggeriscono l’idea del movimento, resa forse ancor più evidente dal raggio che rischiara la manica sinistra della tunica, mentre il piviale purpureo si smorza in cupe tonalità violacee per effetto dell’ombra che avvolge gli omeri della divinità. Gli stessi effetti sono quelli che irradiano la chioma bionda della Maddalena, che ricade morbida sulle maniche lilla della sua veste e che contrasta col suo incarnato color perla, mentre l’oltremare del manto della Vergine quasi si confonde coi toni del cielo.

Nel descrivere questo dipinto, sir Denis Mahon, il grande studioso inglese che riscoprì il pittore emiliano divenendone suo massimo esperto, rilevava “una considerevole differenza di qualità fra la pala e i tre dipinti di soffitto” (così nel catalogo della grande mostra bolognese del 1968 da lui curata, prima monografica sul Guercino, che sancì l’inizio del rinnovato interesse per il pittore), attribuendo tale scarto alle ridipinture eseguite nel 1760 da Benedetto Gennari (Cento, 1633 - Bologna, 1715), nipote e allievo dell’artista. È vero che la Crocifissione e le tre figure dell’arco siano separate da notevoli differenze, benché la critica seguente abbia rilevato (anche in occasione della mostra del 2019-2020) che le divergenze non sono da imputare a scostamenti nella qualità, ma semmai al grado di libertà che anima le composizioni: in altri termini, l’artista, nella pala, dovendo concepire una composizione devota, che fosse capace di trasmettere ai fedeli l’angoscia e l’emozione e che s’attenesse al racconto evangelico, non poté raggiungere quella freschezza che, invece, anima i santi e il Padre Eterno e che già il summenzionato Calvi ravvisava nella tela per le agostiniane bolognesi (“io che ho potuto vederla da vicino, ci ho rilevato una somma franchezza e felicità di pennello sprezzante e risoluto”). La studiosa Elena Bastelli suggerisce che Mahon “abbia sottostimato il valore della pala” e non abbia tenuto conto del fatto che il restauro dell’opera, realizzato nel 1968, aveva rimosso le ridipinture di Gennari riportando la pala a condizioni di leggibilità ottimali: lo storico dell’arte inglese metteva a confronto la Crocifissione di Cento con quella dipinta vent’anni prima per Reggio Emilia, trovando che quest’ultima fosse “ancora tutta entro il corso storico della maggiore arte secentesca”, al contrario di quella più tarda che, a sua detta, “sembra quasi dal Reni rifluire verso il Cesi, verso una compostezza controriformistia, quale troviamo nella Crocifissione del Cesi alla Certosa di Bologna, di cui il Guercino sembra riprendere anche certi toni freddi, argentei, preziosissimi nei Santi laterali”. La dipendenza dai modelli reniani, sulla quale ha posto l’accento pressoché tutta la critica, si fa meno stringente nel momento in cui il Guercino umanizza maggiormente il suo Cristo, col corpo che, pur nella sua classica armonia di proporzioni (Mahon, nel 1967, lo rapportava a un foglio conservato all’Ashmolean Museum di Oxford), cade più pesante, col volto contratto in una smorfia di dolore ch’è più opprimente rispetto a quello che attanagliava i Cristi di Guido Reni, colle stille di sangue che gli solcano il viso e cadono sul petto (un dettaglio che il maestro tendeva a minimizzare). E se puntuale è il riferimento alla pittura algida e brillante di Bartolomeo Cesi (Bologna, 1556 - 1629), nondimeno occorrerà sottolineare che la carica emotiva del Guercino è sconosciuta al bolognese, che la trattiene in un sentimento più composto, più misurato, più manierato.

Guido Reni, Gesù Cristo Crocifisso, la Vergine Addolorata, santa Maria Maddalena e san Giovanni (1619; olio su tela, 397 x 266 cm; Bologna, Pinacoteca Nazionale)
Guido Reni, Gesù Cristo Crocifisso, la Vergine Addolorata, santa Maria Maddalena e san Giovanni (1619; olio su tela, 397 x 266 cm; Bologna, Pinacoteca Nazionale)


Bartolomeo Cesi, Crocifissione (1595-1599; olio su tela; Bologna, Chiesa di San Girolamo della Certosa)
Bartolomeo Cesi, Crocifissione (1595-1599; olio su tela; Bologna, Chiesa di San Girolamo della Certosa)


La cappella Barbieri nella chiesa del Rosario di Cento
La cappella Barbieri nella chiesa del Rosario di Cento


La ricostruzione della cappella Barbieri alla mostra Emozione barocca. Il Guercino a Cento
La ricostruzione della cappella Barbieri alla mostra Emozione barocca. Il Guercino a Cento

L’“emozione” è il fondamento della mostra che restituisce a Cento il suo Guercino, ma è anche la chiave per leggere gran parte della sua opera, segnatamente quella prodotta alla metà degli anni Quaranta, quando, avvertiva Sybille Ebert-Schifferer in un suo saggio del 1991 attorno alla struttura narrativa delle opere guerciniane, l’arte del centese più s’approssima ai precetti della retorica antica, cui il pittore s’avvicinò frequentando le cerchie colte della Bologna del tempo: un letterato del tempo, Giovanni Battista Manzini, scriveva che l’oratoria e la pittura “sono così strettamente congiunte, e cognate [...] fra di loro, che non son mancati maestri, che le stessissime regole dell’una hanno prescritto et assignate per moderatrici dell’altra”. E tra questi maestri figurava il Guercino: è del resto noto come il paragone tra eloquenza e pittura fosse al centro del dibattito artistico del tempo. Si pensi solo al lavoro teorico del cardinal Paleotti, destinato a indirizzare l’arte per decennî, e col quale s’applicavano all’arte gli assunti dell’Institutio di Quintiliano (“dilettare, insegnare e movere”), o al trattato sulla pittura di Giovanni Paolo Lomazzo, che compilava un catalogo degli stati d’animo al fine di trovar le pose più appropriate per renderli con colori e pennello. Simili preoccupazioni mossero anche i teorici della musica e della letteratura, nel tentativo di trovare le modalità più adatte a esprimere le umane passioni per tramite dell’arte. “In all arts”, ha scritto Ebert-Schifferer, “the affective link with the public was established when pathos-filled form of expression moved the viewer or listener either to empathy or to an Aristotelian catharsis [...]. [...]. It was according to these criteria that Manzini judged Guercino’s paintings” ("in tutte le arti il legame affettivo col pubblico veniva stabilito quando forme espressive piene di pathos muovevano l’osservatore o l’ascoltatore verso l’empatia o verso la catarsi artistotelica [...]. Era secondo questi criterî che Manzini giudicava i dipinti del Guercino").

Nella cappella Barbieri della chiesa del Rosario, il coinvolgimento doveva essere totale: un dramma sacro, o un teatro degli affetti per adoperare una felice espressione di Andrea Emiliani, dove tutti sono partecipi, dai protagonisti della Crocifissione ai santi dell’intradosso che, guardando verso il basso, piangono la morte in croce di Gesù, dal Padre Eterno che giunge ad accogliere l’anima del figlio, al fedele ch’entra nello spazio scenico ideato dal Guercino diventando egli stesso parte d’un sorprendente e commovente spettacolo, lontano dalla pienezza travolgente delle complesse macchine barocche, ma guidato da quella “moderazione derivante dai limiti coscientemente posti alla piena e libera espansione della vita, guidata piuttosto dalla ragionevolezza che dalla ragione” di cui Gnudi parlava nell’introduzione alla mostra del 1968 e che più tardi Andrea Emiliani avrebbe sintetizzato col concetto di “quieta osmosi tra morale ed estetica” mossa da un “garbato ordine interiore”.

Di quell’emozione che il Guercino voleva far vivere nella sua cappella, risuona l’eco nella mostra con cui Cento intende ricambiare l’amore, corrisposto, che il pittore ha sempre nutrito nei confronti della città. Mai l’artista volle allontanarsi troppo dal suo borgo natio, i paesaggi che sovente s’ammirano nei suoi dipinti altri non sono che quelli che il Guercino percorreva inoltrandosi nei boschi, lungo i fiumi, tra le aree rurali fuori dall’abitato, i suoi dipinti e i suoi affreschi facevano l’orgoglio delle chiese e delle case cittadine, la vita della Cento del secolo diciassettesimo riecheggia in molte delle sue creazioni. E la comunità, in cambio, lo ha eletto a tratto fondante del modo in cui percepisce se stessa, a suo indiscusso simbolo, capace di far giungere tra queste campagne viaggiatori da ogni dove, mossi dal desiderio d’osservare da vicino e di persona il mondo che si legge tra le trasparenze dei suoi capolavori. Non si sa quando riaprirà la chiesa del Rosario: potrebbero esser necessarî anni per rendere all’artista il suo tempio. La rassegna ospitata nelle sale di San Lorenzo cerca, in parte, di rievocare l’emozione della cappella Barbieri, con un allestimento teso a ricostruire in maniera fedele la disposizione dei dipinti nell’apparato che il Guercino aveva immaginato. Una parvenza, si penserà, una larva di quel ch’era la vera cappella, una consolazione, un palliativo. Ma si cerchi di visitar la mostra in compagnia d’un abitante del luogo. Ci si renderà presto conto che quel teatro vive nell’emozione con cui i centesi s’illuminano nel raccontare l’opere del loro artista.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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