Giovanni Costantini, il giovane davanti al vero: l'inedito autoritratto dell'artista diciannovenne


Riemerge un autoritratto giovanile di Giovanni Costantini: L’artista nel suo atelier (1891) è una prova matura e intensa, che racconta non solo l’inizio di un percorso artistico (il pittore aveva solo 19 anni), ma anche il momento in cui un autore comincia a costruire un rapporto sincero e visivo con il mondo e con sé stesso. È esposto alla mostra sull’autoritratto a Forlì, Musei San Domenico.

Nel silenzio di uno studio romano di fine Ottocento, un giovane artista si ritrae mentre osserva alcuni lavori su carta. Alle spalle, sulla parete, sono appesi dipinti. Sul tavolo gli strumenti di lavoro: i fogli, i pennelli, i vasetti coi colori. Lui è vestito elegante, con un abito tortora, una camicia bianca e una cravatta nera, indossa un cappello nero, e rivolge lo sguardo all’osservatore tenendosi la fronte con la mano, segno che era concentrato sul suo lavoro, e si è un attimo distratto per guardare davanti a lui. L’artista che si ritrae è Giovanni Costantini (Roma, 1872 – 1947), interessante artista romano che ebbe una carriera di successo agli inizi del Novecento, e il dipinto che lo raffigura è un inedito, appartenente alla galleria Antonacci Lapiccirella, esposto per la prima volta alla mostra Nello specchio di Narciso. Il ritratto dell’artista. Il volto, la maschera, il selfie, a cura di Cristina Acidini, Gianfranco Brunelli, Fernando Mazzocca, Francesco Parisi e Paola Refice (a Forlì, Museo Civico San Domenico, dal 23 febbraio al 29 giugno 2025).

L’artista si raffigura con gesto misurato e sguardo attento. Non c’è posa, non c’è vanità, c’è solo la concentrazione, fine e discreta, di un artista che si osserva per la prima volta con la consapevolezza che quello sguardo non serve tanto a rappresentare un volto, quanto a definire una direzione. Il dipinto inedito L’artista nel suo atelier, realizzato quando Costantini era ancora agli inizi del suo cammino (aveva appena diciannove anni: l’opera è infatti del 1891) appare oggi come un’immagine particolarmente rivelatrice, l’istantanea nascosta di un momento fondativo: quello in cui il fare pittorico smette di essere semplice esercizio di mestiere e diventa gesto interiore, linguaggio, identità.

Giovanni Costantini, L'artista nel suo atelier (1891; olio su tela, 100 x 140 cm; Roma, Antonacci Lapiccirella Fine Art)
Giovanni Costantini, L’artista nel suo atelier (1891; olio su tela, 100 x 140 cm; Roma, Antonacci Lapiccirella Fine Art)

Il dipinto di Costantini, mai esposto al pubblico, è un raro documento della fase giovanile di un artista noto soprattutto per la sua adesione al gruppo dei XXV della Campagna Romana e per il ciclo pittorico Le lacrime di guerra. Ma già in questo primo autoritratto si coglie la cifra distintiva di Costantini: l’attenzione al vero, l’interesse per la psicologia dei soggetti, la volontà di raccontare la realtà senza edulcorazioni o filtri retorici. Lontano da ogni narcisismo, l’artista sceglie di raffigurarsi nel pieno dell’attività quotidiana, seduto al tavolo da lavoro, intento a osservare alcune sue opere. L’atelier non è uno sfondo neutro: è parte integrante della composizione. L’ampia scrivania, il barattolo di pennelli, le pareti ricoperte di schizzi e dipinti, costruiscono uno spazio concreto e vissuto. È il teatro dell’intimità creativa, luogo in cui la solitudine dell’artista si fa rigore e metodo.

Costantini, nato nel 1872, è in quegli anni immerso in un percorso formativo rigoroso. A Roma apprende i rudimenti della scenografia dallo specialista Alessandro Bazzani, ma trova la sua vocazione pittorica sotto la guida di Gioacchino Paglieri. Frequenta anche la prestigiosa Scuola del Nudo dell’Accademia di Francia, luogo di sintesi tra rigore accademico e suggestioni moderne. È in questo crocevia di influenze che matura il suo primo linguaggio, ancora vicino all’impressionismo e al realismo, ma già autonomo. L’artista nel suo atelier ne è la prova. Se la luce diffusa e la libertà compositiva rimandano agli insegnamenti dei francesi, l’atmosfera meditativa, la sobrietà, il controllo del tono emotivo parlano di una visione personale, incline all’essenzialità. “La composizione, dall’interessante taglio orizzontale”, scrive la studiosa Agnese Sferrazza, “consente all’artista di ritrarsi al tavolo da lavoro, intento a osservare alcune opere, permettendogli di mettere in risalto l’arredo dell’atelier, occupato dall’ampia scrivania con il barattolo di pennelli, le pareti occupate da schizzi e dipinti. Nonostante la giovane età dell’autore, il dipinto, nell’introspezione psicologica e nella completezza della costruzione compositiva, rivela le indubbie capacità tecniche di Costantini, che in questi anni risente ancora di evidenti suggestioni di derivazione impressionista e realista, anticipando la successiva maturazione del suo linguaggio che lo porterà a orientarsi verso la pittura di paesaggio”.

In questo senso, il confronto con l’autoritratto moderno è inevitabile. La fine dell’Ottocento è un periodo in cui la rappresentazione di sé cambia radicalmente. I pittori smettono di mostrarsi come demiurghi o eroi e iniziano a indagare la propria condizione esistenziale, spesso attraverso immagini disadorne e riflessive. I pittori smettono di mostrarsi come demiurghi o eroi e iniziano a indagare la propria condizione esistenziale, spesso attraverso immagini disadorne e riflessive. Le ambientazioni mai provate prima e in contesti insoliti, l’abbandono di pose ufficiali, l’abbandono di ogni intento celebrativo “consentono agli artisti”, ha scritto lo studioso Stefano Bosi, “di elaborare una concezione pittorica originale, capace di inserirsi nella complessa e contradittoria intensità della vita. Tutto questo si riflette anche nel loro modo di rappresentarsi e di esprimere i propri sentimenti”. Bosi fa l’esempio di Edgar Degas, che è tra i primi a rompere con le convenzioni e si ritrae come uomo comune, spesso borghese, talvolta inquieto. Una delle sue fotografie più note, una carte-de-visite che richiama l’Autoritratto del 1863, lo mostra in abiti eleganti, ma con un atteggiamento raccolto, distante dalla teatralità dei modelli classici. L’immagine non è più uno specchio dell’orgoglio, ma del dubbio.

Costantini si inserisce in questa linea. La sua scelta di ritrarsi all’interno dell’atelier, in atteggiamento operativo, non come autore lontano, distante, quasi ammantato da un’aura divina, ma più come un artigiano nella sua bottega, parla di una concezione umile e al tempo stesso moderna della pittura. Non c’è alcuna “giustezza delle pose”, avrebbe detto Baudelaire sempre ripreso da Bosi, ma solo l’uomo al lavoro, colto nel momento in cui l’arte coincide con la concentrazione, con la pazienza, con l’attenzione ai dettagli. L’opera, dunque, non è solo autoritratto, ma anche manifesto: già in questa fase iniziale, il pittore dichiara la propria adesione a una pratica pittorica veritiera, antiretorica, capace di raccontare la realtà “così com’è”, nei suoi silenzi, nelle sue fragilità, nella sua struggente normalità.

Questa concezione del reale sarà confermata l’anno successivo, quando Costantini prende parte alla sua prima mostra pubblica, presentando tre vedute dal vero alla Mostra degli Amatori e Cultori di Belle Arti. La pittura en plein air, lontana dagli artifici dello studio, rappresenta per lui un modo per avvicinarsi alla natura senza filtri. È il preludio all’adesione, nel 1904, al gruppo dei XXV della Campagna Romana, fucina di talenti che privilegiano l’immediatezza dell’osservazione diretta, l’intensità del paesaggio colto nell’attimo. In quel contesto, Costantini viene soprannominato “Grillo”, a causa della sua corporatura sottile e nervosa, quasi a confermare il suo temperamento inquieto, instancabile, sempre in movimento.

Negli anni successivi la sua pittura evolve, si fa più consapevole, ma mai manierata. Il naturalismo iniziale lascia spazio a una forma di realismo simbolico, capace di raccontare il mondo non solo per come appare, ma anche per come viene vissuto interiormente. È con questo spirito che tra il 1915 e il 1921 Costantini realizza il suo capolavoro: il ciclo Le lacrime di guerra. Più di quaranta tele, ispirate al dramma della Prima guerra mondiale, in cui l’artista racconta il dolore, la perdita, la distruzione. Non ci sono trionfi, non c’è retorica patriottica. Ogni quadro è una pagina di umanità ferita. Le figure sono uomini e donne comuni, colti nei gesti della paura, della speranza, della rassegnazione. Lo stile fonde la precisione del vero con una tensione simbolica, che porta lo spettatore oltre il visibile, dentro le pieghe emotive dell’esperienza.

Alla luce di questo percorso, l’autoritratto del 1891 appare come il punto di partenza di un’intera visione del mondo. Il giovane che si ritrae nel proprio studio è già l’uomo che, anni dopo, saprà raccontare la guerra con pietà e lucidità. La coerenza del suo sguardo è sorprendente: da subito, Costantini rifiuta il decorativismo, l’autocelebrazione, l’accademismo. Preferisce la realtà concreta, il corpo vivo delle cose, la tensione silenziosa dei luoghi. L’atelier, in questo caso, non è semplice spazio di lavoro, ma proiezione di un’identità: è lì che si compone la vocazione dell’artista, non come missione superiore, ma come pratica quotidiana, umile, necessaria.

Il dipinto, oggi finalmente rivelato, è una chiave di lettura, un documento storico e poetico. Racconta l’origine di uno sguardo, il momento esatto in cui un artista decide di non imitare, ma di essere. Costantini rifiuta le pose mondane di molti suoi colleghi, come Boldini, Sargent o De Nittis, e opta invece per l’essenziale, per la verità del proprio mestiere, per il il silenzio operoso del proprio atelier.


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