L'inquietudine di Lorenzo Lotto tra Leopardi e Anna Banti: la Trasfigurazione di Recanati


Giacomo Leopardi non ebbe mai interesse per le opere di Lorenzo Lotto, nonostante a Recanati ci fossero suoi capolavori. Ma è comunque possibile individuare tratti comuni tra il pittore e il poeta?

Rimarrà deluso chi cercherà di trovare, negli scritti di Giacomo Leopardi, un barlume d’interesse per Lorenzo Lotto. Eppure si dirà che le coincidenze sono molte. A cominciare dalla presenza dell’artista veneto nel “natio borgo selvaggio”, che forse poi così selvaggio non era, o almeno non lo era nel Cinquecento, quando Recanati si fregiava d’essere uno dei centri più ricchi dell’allora Stato Pontificio, e quando i domenicani recanatesi potevano permettersi di pagare a Lorenzo Lotto, per il polittico di San Domenico, una somma decisamente più alta rispetto agli standard del mercato del tempo. E poi, si potrebbe considerare il fatto che il padre del poeta, Monaldo, nella sua raccolta possedesse una copia, attribuita a Durante Nobili, della Trasfigurazione di Lotto, la grande pala di tre metri d’altezza che l’artista dipinse attorno al 1511 per la chiesa di Santa Maria di Castelnuovo, posta appena fuori dalle mura di Recanati, in un quartiere d’artigiani. Lo stesso colle dell’Infinito parrebbe dialogare col poggio del racconto evangelico: entrambi si chiamano “monte Tabor”. Eppure, Leopardi non ha scritto una mezza parola su Lorenzo Lotto: tanti, nel passato più o meno recente, hanno cercato di trovare dei legami che potessero unirli, ma non s’è mai andati al di là del mero fascino della suggestione. Tutt’al più, s’è proposto d’affratellare il poeta e il pittore in una sorta di comunanza ideale, nel loro simile destino d’esclusi che vissero ai margini della società e che ottennero solo post mortem un pieno riconoscimento della portata della loro esperienza, dell’eccezionalità del loro genio.

Manca, però, qualsiasi traccia concreta. “L’incontro non è dunque avvenuto”, per adoperare una frase d’uno dei massimi studiosi di Lorenzo Lotto, Pietro Zampetti, che pure era rimasto basito del fatto che quelle pitture, che avrebbero dovuto pur interessare Leopardi, “anche se allora poco note ai più”, non avessero in realtà sortito alcun effetto apprezzabile sull’animo del poeta. “Così”, ha scritto Zampetti, “Leopardi non ebbe modo di avvicinarsi a lui e di avvertire le pene di un personaggio che, sia pure per motivi diversi, gli era tanto affine”. I due erano semmai separati dalla loro visione del mondo, inconciliabile: dotato d’una fede salda, potente e quasi visionaria Lorenzo Lotto, pensatore moderno e laico Giacomo Leopardi. Il Leopardi che, nei Pensieri, non può ritenere la morte un male dacché la morte, semmai, libera l’uomo da tutti i suoi mali, non ha niente da spartire col Lotto che dipinge un Cupido che incorona un teschio, coricato sopra un cuscino come se stesse dormendo, simbolo della morte come momento di passaggio in attesa della vita eterna, o della morte, ha scritto Mauro Zanchi, “come corona della vita, come coronamento di un percorso esistenziale, come momento che porta l’individuale anima umana alla visione del Tutto”.

Forse, davanti alla Trasfigurazione di Lorenzo Lotto, dinnanzi a quelle figure inquiete e contorte che la popolano, al cospetto di quella luce ondivaga ch’è uno dei tratti salienti dell’irrequietezza del grande pittore veneto, Leopardi è rimasto indifferente: che non conoscesse l’opera pare impossibile, mentre più probabile che ne avesse contezza ma che non ne fosse catturato. E non perché insensibile all’arte, dacché il mito del Leopardi privo di cultura figurativa è stato ampiamente e sonoramente smontato dalla critica più avveduta: forse, più semplicemente, perché non interessato a quella di Lotto.

Lorenzo Lotto, Trasfigurazione di Cristo (1511 circa; olio su tavola, 300 x 203 cm; Recanati, Villa Colloredo Mels)
Lorenzo Lotto, Trasfigurazione di Cristo (1511 circa; olio su tavola, 300 x 203 cm; Recanati, Villa Colloredo Mels)

La pala, del resto, stava non lontana da casa sua. Il prevosto della chiesa di Santa Maria di Castelnuovo, un certo Alessandro Mencioni, fin dal 1507 s’era mosso per dotare il tempio d’una pala adatta, e aveva pure chiesto al Comune di Recanati un contributo pro cona et aliis ornamentis, per l’esattezza di cento ducati, come dimostrano i documenti pubblicati un paio d’anni fa da Francesca Coltrinari. E l’anno dopo Lorenzo Lotto riceveva già un anticipo per il dipinto, ma ci vollero almeno tre anni per completarlo, poiché il pittore era all’epoca affaccendato in altri progetti, e più nello specifico lo tennero occupato il sopra menzionato polittico per i domenicani e il soggiorno a Roma, che per molti mesi lo distolsero dal lavoro per Santa Maria di Castelnuovo. Una volta terminata, l’ancona di Lorenzo Lotto fu sistemata sull’altare maggiore, dove rimase per due secoli esatti: nel 1711 fu spostata su di un altare laterale, e quindi, nel 1890, entrò a far parte della raccolta della Pinacoteca Comunale. E ancor oggi il pubblico la vede al museo civico di Villa Colloredo Mels.

Della Trasfigurazione parlò già Giorgio Vasari nelle sue Vite: “Et una tavola a olio è nella chiesa di Santa Maria di Castelnuovo con una Trasfigurazione di Cristo e con tre storie di figure piccole nella predella: quando Cristo mena gl’Apostoli al Monte Tabor, quando ora nell’orto, e quando ascende in cielo”. Le “storie di figure piccole” oggi non ci son più, andate disperse nel corso della storia: ne è stata rintracciata soltanto una, conservata all’Ermitage di San Pietroburgo. Oggi, dunque, vediamo solo la grande tavola a olio con l’episodio della trasfigurazione: secondo il racconto di Marco, Matteo e Luca, Gesù, dopo esser salito al monte Tabor con Pietro, Giacomo e Giovanni, avrebbe cambiato totalmente aspetto, apparendo ai tre apostoli assieme ai profeti Mosè ed Elia e vestito d’una candida tunica bianca, in una luce abbacinante, al punto che i discepoli non ne sostengono la forza. Lotto ambienta la scena in un paesaggio spoglio fin quasi all’astrazione: si vede solo il profilo curvo del monte Tabor, tutt’al più segnato da poche rocce. Cristo è sulla cima, affiancato dai due profeti, Mosè girato verso il riguardante, con le tavole della legge poggiate davanti a lui, ed Elia che invece dà le spalle all’osservatore, bilanciando in contrapposto la posa di Mosè. Cristo parla con loro, nel pieno d’un vivo dialogo. Sotto, ecco Giovanni, Pietro e Giacomo che, come da tipica iconografia, sono travolti dall’apparizione e sono stesi a terra, con le braccia e le mani cercano di riparare gli occhi dalla luce così abbagliante, le loro pose sono così contorte e bizzarre, lungo tutto l’asse orizzontale della composizione, che neppure sembra ci siano solo tre persone nel registro inferiore della pala.

Molto s’è scritto a proposito della possibile reazione a Raffaello e a Michelangelo che prende forma con questa Trasfigurazione, e le indagini riflettografiche che hanno preceduto l’ultimo restauro, eseguito nel 2013 da Francesca Pappagallo, parrebbero aver portato a un’evidenza: nello specifico, la figura di Cristo, in origine, sarebbe stata frontale come da tradizione, e poi Lotto l’avrebbe rielaborata in senso più naturalistico, come appare nel dipinto finito. Tra l’assegnazione dell’incarico e la consegna dell’opera, del resto, c’era stato il soggiorno a Roma: per Lotto, il contatto con Raffaello e Michelangelo significò l’abbandono d’ogni retaggio quattrocentesco, ma non per imitare ciò che i due grandi del Rinascimento maturo andavano producendo nella capitale, bensì per cercare la propria via verso la modernità. Quale sia questa via, lo ha ben evidenziato Anna Banti, straordinaria esegeta del pittore veneto: per lei, la Trasfigurazione di Recanati, “tutta crepitante”, “conduce ad effetti quasi allucinati”. E questi effetti quasi allucinati sono la risposta che Lorenzo Lotto dà non soltanto a un’esigenza formale, ma anche a una necessità interiore: “studiando questi volti dilavati dall’estasi, queste barbe rocciose, queste membra crocchianti e che il piegar dei panni inchioda e ribadisce nelle più complicate pastoie; avvertendo, ai margini di moti così difficili, la vibrazione di mani e piedi delicatissimi, soprasensibili, tutti gesto e espressione, non si può a meno di pensare a un possibile significato e valor morale di tanta formale inquietudine”. Erano i “fermenti spirituali” che operavano a Venezia nel nuovo secolo, e che raggiunsero anche Roma, la forza alla quale “la natura del Lotto non poté restare indifferente”, che aveva inevitabilmente sollecitato il suo “spirito incline alla libertà, ma legato alla tradizione dall’affetto”, scrive ancora Anna Banti. Era la scomoda e disagevole sensazione di trovarsi a vivere in un momento storico pesante, difficile, incerto. E a tutto ciò possiamo aggiungere la sua vita errabonda, la sua carriera per la più parte sfortunata.

Sul finire della sua vita, nel suo testamento, Lotto si definì “solo, senza fidel governo et molto inquieto nella mente”. Il tormento interiore di Lotto era certo molto diverso da quello di Leopardi, le ragioni poco sovrapponibili. Da una parte un pittore dalla fede travagliata, scarsamente incline ad ambientarsi, che viveva la sua epoca con somma angoscia e profondo disagio. Dall’altra il malessere esistenziale del poeta, le stagioni del suo pessimismo. Situazioni che produssero risultati che forse, se letti tra i crepitii del fuoco dell’arte e della poesia, non appaiono così dissimili. Ma che mai s’incontrarono.

Se ti è piaciuto questo articolo, leggi i precedenti della stessa serie: le Mille e una notte di Vittorio Zecchin; il Concerto di Gabriele Bella; la Ninfa rossa di Plinio Nomellini; l’Apparizione di Cristo alla madre del Guercino; la Maddalena di Tiziano.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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