Michaelina Wautier, storia di una donna artista che dalle Fiandre del Seicento ha sfidato ogni pregiudizio


La storia di Michaelina Wautier, donna artista che operò nelle Fiandre del Seicento, è una storia di sfida ai pregiudizi: quelli del suo tempo, e quelli dei secoli successivi. Un'artista riscoperta di recente.

“Glück glaubte ein Gemälde so grossen Formats der Hand einer Frau nicht zutrauen zu dürfen”. Ovvero, Glück non credeva che un dipinto di così grande formato fosse stato realizzato dalla mano di una donna. A scrivere queste parole era, nel 1967, l’allora curatore della Galleria dei dipinti del Kunsthistorisches Museum di Vienna, Günther Heinz (Salisburgo, 1927 - Vienna, 1992). Quell’anno, lo studioso austriaco aveva dato alle stampe un saggio su Jan van den Hoecke e sui pittori olandesi presenti nel museo viennese, e s’era soffermato su di un dipinto monumentale, uno dei più spettacolari della raccolta, un grande olio su tela di due metri e settanta d’altezza per tre e cinquantaquattro di larghezza, che raffigura un Trionfo di Bacco. Grande protagonista dell’opera è il dio del vino, visibilmente ubriaco, tanto da non reggersi in piedi: si sdraia così in maniera scomposta sopra una specie di carriola coperta da una pelle di leopardo, e pietosamente trainata da un satiro che, lungi dall’essere quel personaggio allegro e grottesco che siamo abituati a vedere in opere dello stesso soggetto, ha piuttosto l’aspetto d’un vecchio dignitoso, che sembra rivolgere al giovane Bacco ebbro uno sguardo di compassionevole rimprovero. Attorno, una festosa torma di varî personaggi: c’è Sileno, il compagno di Bacco, che sta spremendo un grappolo d’uva direttamente sulla bocca del dio. Dietro c’è l’asino di Sileno, sul lato opposto una menade a seno scoperto che porta un tirso con intrecciati alcuni pampini di vite, ed è l’unico personaggio a guardare verso l’osservatore, sotto ancora osserviamo tre bambini che giocano con una capra (e uno di loro regge un bicchiere, una sorta di flûte), a sinistra un altro satiro che suona una tromba.

Oltre a essere un dipinto grande, è anche un dipinto colto e aggiornato: vi riscontriamo suggestioni tratte da Rubens, riprese di idee di Duquesnoy, di Philippe de Champaigne e di Jordaens, citazioni classiche. E c’è poi un’incredibile resa delle anatomie maschili: segno che l’artista che aveva realizzato l’opera doveva avere una notevole dimestichezza con il corpo dell’uomo, e doveva aver seguito continue esercitazioni su modelli veri. Gli studiosi che avevano esaminato il Trionfo di Bacco prima di Heinz avevano dunque scartato l’ipotesi che potesse trattarsi dell’opera di una donna: troppo grande, troppo complessa, troppo bella e troppo perfetta perché decennali pregiudizî potessero assegnarla a una mano femminile. Di conseguenza, l’attribuzione nell’inventario del 1659 dell’arciduca Leopoldo Guglielmo d’Austria (Wiener Neustadt, 1615 - Vienna, 1662) aveva sempre destato dubbî: il Trionfo di Bacco, infatti, figurava registrato come opera di un non meglio specificato “N. Woutiers”. Neanche Gustav Glück (Vienna, 1871 - Santa Monica, 1952), storico direttore del Kunsthistorisches Museum, e grande specialista d’arte olandese, era riuscito a darsi spiegazioni convincenti in merito all’autore del dipinto. Questo perché, malgrado il nome di Michaelina fosse già noto negli anni Sessanta del Novecento, Glück, come Heinz riportava, non credeva che quell’opera potesse essere stata realizzata da una mano muliebre. S’era pertanto reso necessario l’intuito di Heinz per comprendere che quella grande tela era invece opera di una donna: Michaelina Wautier (Mons, 1617 - Bruxelles, 1689). E pensare che la risposta era sempre stata a portata di mano: nello stesso museo si conserva infatti un San Gioacchino assieme al suo pendant, un San Giuseppe, anch’essi entrambi un tempo nella raccolta dell’arciduca. Dietro al San Gioacchino compare la firma dell’artista: Michelline Wovteers.F., che sta per “Michaelina Wautier fecit”, ovvero “lo ha dipinto Michaelina Wautier” (“Wautier” è la forma francese del fiammingo “Woutiers”). Confrontando da vicino i due santi con il Trionfo di Bacco, Heinz si era accorto che “il caratteristico ductus è così chiaramente corrispondente, che queste opere possono essere riconosciute, anche senza aiuti esterni, come prodotti della stessa mano”. E anche stilisticamente le similitudini sono indiscutibili: basti paragonare le teste dei santi e il loro naturalismo con il satiro che spinge la carriola di Bacco, per notare come ci sia perfetta coerenza.

Tuttavia, malgrado l’attribuzione di Heinz avesse trovato riscontro (e da allora nessuno ha più messo in discussione il fatto che Michaelina avesse dipinto il Trionfo di Bacco), non è stato facile per l’artista fiamminga balzare all’attenzione del grande pubblico. Fino agli anni Duemila, il suo monumentale dipinto è rimasto confinato in una sezione del Kunsthistorisches Museum non aperta al pubblico. Poi, il crescente interesse degli studiosi, culminato nel 2005 col primo tentativo di redigere un catalogo generale di Michaelina, ha portato il Trionfo di Bacco fuori dall’oblio: per la prima volta, un vasto pubblico ha potuto vedere l’opera, e questo in occasione della mostra intitolata Sinnlich, weiblich, flämisch (“Sensuale, femminile, fiammingo”) dedicata alle donne dipinte da Rubens e contemporanei e apertasi al museo viennese il 6 agosto del 2009. Il dipinto di Michaelina ottenne un enorme successo, tra il 2013 e il 2014 fu sottoposto a un restauro condotto da Michael Odlozil e, per iniziativa della studiosa Gerlinde Gruber, curatrice della sezione della pittura barocca fiamminga al Kunsthistorisches, e grazie alla mediazione di Sylvia Ferino-Pagden, direttrice della Gemäldegalerie del museo austriaco, il Trionfo di Bacco ha finalmente potuto fare il suo ingresso, a restauro concluso, nella sezione principale dell’istituto, e in particolare nella sala di Rubens.

Michaelina Wautier, Trionfo di Bacco (1659; olio su tela, 270 x 354 cm; Vienna, Kunsthistorisches Museum)
Michaelina Wautier, Trionfo di Bacco (1659; olio su tela, 270 x 354 cm; Vienna, Kunsthistorisches Museum)


Modelli per il Trionfo di Bacco. Da sinistra a destra: Arte romana, copia da originale greco, Amazzone ferita (450 a.C. circa; marmo; New York, Metropolitan Museum); Pieter Paul Rubens, Bacco su di un barile di vino (1638-1640 circa; olio su tela, 191 x 161,3 cm; San Pietroburgo, Hermitage); Da Jacob Jordaens, Baccanale (1650 circa; olio su tela, 157 x 100 cm; Le Puy, Musée Crozatier)
Modelli per il Trionfo di Bacco. Da sinistra a destra: Arte romana, copia da originale greco, Amazzone ferita (450 a.C. circa; marmo; New York, Metropolitan Museum); Pieter Paul Rubens, Bacco su di un barile di vino (1638-1640 circa; olio su tela, 191 x 161,3 cm; San Pietroburgo, Hermitage); Da Jacob Jordaens, Baccanale (1650 circa; olio su tela, 157 x 100 cm; Le Puy, Musée Crozatier)


François Duquesnoy, Sileno addormentato (1630 circa?; bronzo e lapislazzuli, 53 x 105 cm; Anversa, Rubenshuis)
François Duquesnoy, Sileno addormentato (1630 circa?; bronzo e lapislazzuli, 53 x 105 cm; Anversa, Rubenshuis)


Philippe de Champaigne, Adamo ed Eva piangono la morte di Abele (1656; olio su tela, 312 x 394 cm; Vienna, Kunsthistorisches Museum)
Philippe de Champaigne, Adamo ed Eva piangono la morte di Abele (1656; olio su tela, 312 x 394 cm; Vienna, Kunsthistorisches Museum)


Michaelina Wautier, San Gioacchino e San Giuseppe (entrambi prima del 1659; olio su tela, 76 x 66 cm; Vienna, Kunsthistorisches Museum)
Michaelina Wautier, San Gioacchino e San Giuseppe (entrambi prima del 1659; olio su tela, 76 x 66 cm; Vienna, Kunsthistorisches Museum)

Su Michaelina, tuttavia, continuiamo ad avere poche notizie, senza calcolare il fatto che le sue opere note sono in numero davvero esiguo. Malgrado la pittrice abbia vissuto per settantadue anni, tutta la sua carriera artistica, al momento, si può collocare in un lasso di tempo ben preciso: tra il 1643 e il 1659. Prima e dopo queste date, non ci sono lavori noti, e neppure ne esistono altri che, per stile, possano essere datati al di fuori di questo periodo. La storica dell’arte Katlijne van der Stighelen, grande esperta di Michaelina Wautier, ipotizza che la pittrice abbia iniziato la sua carriera come ritrattista: un dato che “non sorprende”, spiega la studiosa nel catalogo della prima mostra monografica dedicata all’artista (al Museum aan de Stroom e alla Rubenshuis di Anversa, dal 1° giugno al 2 settembre 2018), perché “le donne con ambizioni artistiche” all’epoca “preferivano concentrarsi sulla ritrattistica”: “non c’era mai scarsità di soggetti (a partire dai membri della propria famiglia), e la conoscenza delle anatomie non era un prerequisito per catturare un’accurata somiglianza”. Ne consegue che le prime opere note di Michaelina siano ritratti. Addirittura, la sua prima opera databile con certezza non ci è neppure giunta, dal momento che è arrivata riprodotta in un’incisione realizzata da Paulus Pontius (Anversa, 1603 - 1658). È un ritratto che raffigura il condottiero Andrea Cantelmo (Pettorano, 1598 - Alcubierre, 1645), comandante delle armate spagnole durante la Guerra dei Trent’anni e la Guerra di successione di Mantova e del Monferrato.

Non sappiamo bene come Michaelina possa essere entrata in contatto con Andrea Cantelmo: possiamo però ipotizzare che la famiglia Wautier avesse solidi contatti con le comunità napoletane che abitavano nelle Fiandre (contatti che, peraltro, poterono giovare all’artista anche per aggiornare il suo stile sugli esiti della pittura partenopea del tempo: certi santi di Michaelina dimostrano connessioni, per esempio, con l’arte di José de Ribera). Il padre di Michaelina, Charles Wautier, aveva fatto parte dell’entourage di Pedro Enríquez de Acevedo y Toledo, conte di Fuentes e governatore dei Paesi Bassi Spagnoli tra il 1596 e il 1599, e in quest’ambito la famiglia potrebbe essere entrata in connessione con diversi esponenti delle cerchie napoletane attive nelle Fiandre (com’è noto, all’epoca sia Napoli che le Fiandre dipendevano dalla Spagna). Quel che è certo, è che Michaelina proveniva da una famiglia benestante: il padre, da giovane, era stato paggio di corte e in seguito diventò probabilmente ufficiale dell’esercito spagnolo di stanza nelle Fiandre, mentre la madre, Jeanne George, proveniva da una facoltosa famiglia di mercanti. Anche se nessuno in famiglia nutriva interessi artistici, è comunque certo che un simile ambiente poté fornire un importante supporto a Michaelina durante l’avvio della sua attività artistica, verso la quale, probabilmente, fu spinta da interesse personale: forse, sulla sua decisione di diventare pittrice influì la conoscenza delle opere di Anna Francisca de Bruyns (Morialmé, 1604 - Arras, 1675), che nel 1628 era presente e attiva a Mons, la città natale di Michaelina. Ad ogni modo, lei era la prima artista della famiglia, assieme a suo fratello minore Charles (Mons, 1609 - Bruxelles, 1703) che intraprese la carriera artistica in parallelo a lei (anche se non sappiamo chi dei due cominciò prima).

Il succitato ritratto di Andrea Cantelmo, con ogni probabilità, contribuì a spianare, a lei ch’era comunque un’artista già matura (non si spiegherebbe altrimenti da dove venisse un’opera di così grande qualità come il ritratto del condottiero abruzzese), la strada verso gli ambienti più importanti delle Fiandre del tempo. È del 1646 un altro ritratto, datato, che raffigura un comandante dell’esercito spagnolo, di cui è tuttavia ignota l’identità: si tratta del più antico dipinto di Michaelina che sia sopravvissuto. Ripreso di tre quarti, l’uomo mostra uno sguardo sicuro che non incontra gli occhi dell’osservatore e ch’è reso vivo dalla luce che proviene da destra illuminando l’incarnato roseo, e facendo risaltare la figura del comandante sul fondo scuro. Gli abiti sono quelli tipici del tempo (la moda del collare da stringere con le due nappe era propria degli anni Quaranta del Seicento) e sono quelli d’un militare: in particolare, la giacca di pelle che il personaggio porta era quella che i soldati erano soliti indossare sotto la corazza. È un ritratto vivo, precisissimo, aderente al vero, che palesa modi tipici d’un virtuoso del pennello (ci si soffermi sui dettagli: la luce che fa brillare gli occhi, i riccioli dei capelli mossi, i baffi, i pizzi che decorano la fascia rosa, ma anche lo sguardo che rivela un’attenzione per la resa della personalità del soggetto) e che dimostra il talento puro ed evidente di Michaelina Wautier.

Paulus Pontius da Michaelina Wautier, Ritratto di Andrea Cantelmo (1643; incisione su carta, 403 x 298 mm; Collezione privata)
Paulus Pontius da Michaelina Wautier, Ritratto di Andrea Cantelmo (1643; incisione su carta, 403 x 298 mm; Collezione privata)


Michaelina Wautier, Ritratto di un comandante dell'esercito spagnolo (1646; olio su tela, 63 x 56,5 cm; Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts)
Michaelina Wautier, Ritratto di un comandante dell’esercito spagnolo (1646; olio su tela, 63 x 56,5 cm; Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts)

Un dato interessante che emerge dalle opere di Michaelina è la sua capacità di affrontare con scioltezza e sicurezza i modelli maschi: lo si è visto soprattutto nel Trionfo di Bacco, opera nella quale l’artista dipinge con estrema perizia i corpi nudi di uomini d’ogni età. L’eccezionale abilità della pittrice nel raffigurare gli uomini denota una grande confidenza coi soggetti maschili, derivante dal fatto che Michaelina aveva la possibilità di disegnare osservando modelli veri, vivi, in carne e ossa: a quanto ne sappiamo, il suo è un caso rarissimo, probabilmente unico, in tutta l’Europa del nord nel Seicento. Alle donne non era consentito cimentarsi sui modelli veri: questo argomento era ancora dibattuto nella Bruxelles dell’Ottocento, quando occorreva stabilire se le donne potessero entrare in Accademia per esercitarsi sui modelli nudi. Michaelina aveva già risolto il problema nel secolo diciassettesimo. Sicuramente dovette ringraziare suo fratello Charles: era infatti assieme a lui che Michaelina poteva dipingere guardando uomini nudi. Certo, abbiamo scarse notizie sulla collaborazione tra i due fratelli: non sappiamo come fosse strutturata la loro bottega, quali con esattezza i loro rapporti, come si spartissero il lavoro qualora avessero lavorato assieme. Possiamo però ipotizzare che condividessero uno studio, o che quanto meno lavorassero nello stesso stabile: il fatto che Charles lavorasse a stretto contatto con lei sicuramente le consentì di fare sostanzialmente ciò che voleva, in barba alla rigida morale del tempo, secondo la quale era impensabile che una donna potesse esser lasciata sola di fronte a un modello.

Tuttavia, la collaborazione con Charles fornì a Michaelina anche altri importanti spunti. Charles, fin dagli inizî della sua carriera, mostrava infatti uno spiccato caravaggismo (tanto che ancora ci si domanda se sia stato o no in Italia, e nel caso se Michaelina lo abbia accompagnato): un caravaggismo che potrebbe anche aver influenzato la stessa sorella. Ma a fare da “mediatore” potrebbe esser stato anche un pittore profondamente caravaggesco, attivo nella Bruxelles del tempo: si tratta di Theodoor van Loon (Erkelenz, 1581/1582 - Maastricht, 1649), presente in Italia tra il 1602 e il 1608, proprio negli anni in cui Caravaggio (Milano, 1571 - Porto Ercole, 1610) prima s’affermava, e poi dava inizio alla propria parabola discendente, terminata nel 1610 con la scomparsa prematura. Un’opera come la splendida Educazione della Vergine, del 1656, è una specie di summa di queste esperienze. Nel dipinto, una giovanissima Maria che sorprende per la sua straordinaria verisimiglianza, resa ancor più preziosa dalla sua vivacità (lo sguardo vispo, gli angoli della bocca che accennano un sorriso, la postura), viene tenuta per mano dalla madre, sant’Anna, che l’aiuta nel compito d’imparare a leggere da un libro. San Gioacchino, padre di Maria, è colto in atteggiamento estatico, com’è tipico dell’iconografia delle opere che insistono sul soggetto dell’educazione della Vergine: poiché la piccola era nata grazie all’intervento divino (e poiché, peraltro, era nata senza peccato e avrebbe dovuto dare alla luce Gesù), la figura di Gioacchino solitamente ha lo scopo di rendere evidente questo filo che unisce la sua famiglia a Dio.

L’Educazione della Vergine è un’opera colta, calata nel contesto culturale del tempo: come suggerisce van der Stighelen, il fatto che Anna segua così intensamente Maria mentre la ragazza impara a leggere potrebbe essere una sorta d’omaggio alle idee dell’umanista Juan Luis Vives (Valencia, 1492 - Bruges, 1540), spagnolo ma trasferitosi giovanissimo nelle Fiandre per sfuggire all’Inquisizione nel suo paese. Vives era infatti un convinto sostenitore dell’educazione femminile, e benché ritenesse comunque la donna subalterna rispetto all’uomo, nel suo De institutione feminae christianae (considerato da molti il principale trattato del Cinquecento in tema d’istruzione femminile) Vives suggeriva alle donne d’imparare a leggere (anche se il fine della lettura, per Vives, era la preservazione delle virtù cristiane, dall’umiltà alla castità, dalla sincerità alla moderazione). Oltre che per i suoi contenuti, il dipinto, oggi conservato in una collezione privata, è interessante per diversi altri motivi, a partire dall’evidente caravaggismo, come anticipato sopra: i personaggi sono caratterizzati da un notevole realismo e le figure sono costruite per mezzo della luce, che crea intensi effetti chiaroscurali. La giovanissima studiosa Hannelore Magnus ha voluto individuare in due dipinti di van Loon alcuni precedenti che avrebbero potuto ispirare Michaelina: il volto di sant’Anna assomiglia a quello della levatrice che compare nella Nascita della Vergine di van Loon conservata nella basilica di Nostra Signora a Scherpenheuvel, e la posa di Gioacchino è praticamente identica a quella del San Simeone che troviamo nella Presentazione al tempio, altro dipinto di van Loon conservato nello stesso edificio di culto. I debiti nei confronti di van Loon sono del resto riscontrabili anche in altri dipinti: è il caso dell’ultima opera nota di Michaelina, l’Annunciazione datata 1659. Qui, il grande plasticismo delle figure dei protagonisti, oltre ad alcune soluzioni compositive (l’arcangelo Gabriele che arriva procedendo su di una nuvola, la Vergine inginocchiata con lo sguardo basso e che sembra quasi schermirsi, i raggi di luce che, quasi come saette, squarciano le nubi) derivano da un dipinto di omologo soggetto realizzato da van Loon e conservato a Bruxelles. Tornando invece all’Educazione della Vergine, il dipinto di Michaelina si distingue anche per la firma che l’artista vi ha apposto. Sulla colonna, infatti, si legge questa frase: Michaelina Wautier, invenit, et fecit 1656 (“Michaelina Wautier ha ideato e realizzato [il dipinto] nel 1656”), formula che l’artista aveva peraltro già adoperato in passato. È quasi una presa di posizione, un’orgogliosa rivendicazione, una dichiarazione del proprio talento: Michaelina ha voluto rimarcare che non s’è soltanto limitata a dipingere l’opera, ma che l’ha anche ideata, che la composizione è frutto di un suo pensiero, e ch’è stata in grado di elaborare il tema con originalità, un’originalità tutta femminile che la pittrice intende manifestare con fierezzza e dignità.

E Michaelina riuscì a dar corpo alla sua originalità in una grande varietà di soggetti: la sua versatilità le consentì d’affrontate con eguale successo pitture di soggetto religioso, quadri mitologici, ritratti, nature morte, scene di genere. Per esempio, appartiene a quest’ultimo filone un gustoso dipinto conservato al Seattle Art Museum che raffigura due bambini intenti a giocare con le bolle di sapone. Un soggetto particolarmente apprezzato nell’Europa settentrionale del Seicento, anche in virtù delle sue implicazioni allegoriche (la bolla di sapone, per la sua natura effimera, è un simbolo di vanitas): Michaelina seppe trattarlo conferendo alla scena un tono d’intima quotidianità e realizzando, scrive van der Stighelen, due “figure magnificamente dipinte”, con i volti che sono “eseguiti con una fluida tecnica a impasto, e con il bambino dai capelli scuri modellato in maniera così espressiva, tanto da smebrare uscito da un dipinto giovanile di Caravaggio”. Dalla sua produzione, infine, non mancò il genere dell’autoritratto: ne abbiamo uno, meraviglioso e consapevole, conservato in collezione privata, nel quale Michaelina si ritrae intenta a dipingere, di fronte a una tela poggiata su di un cavalletto. Il suo orgoglio ricorda quello d’una Sofonisba Anguissola, d’una Elisabetta Sirani o di un’Artemisia Gentileschi (del resto è sicuro che Michaelina conoscesse l’arte italiana, e forse ebbe anche modo di conoscere un autoritratto di Artemisia, sotto forma d’incisione), al contrario dei suoi conterranei Rubens, van Dyck e Jordaens evita d’includere nell’autoritratto segni dello status raggiunto con la pittura, ma si limita a ritrarsi con gli strumenti del mestiere, e di nuovo con fierezza inserisce un orologio nella composizione (lo vediamo poggiato sul piano del cavalletto), come a dire, forse, che la sua arte sopravviverà nel tempo.

Michaelina Wautier, L'educazione della Vergine (1656; olio su tela, 144,7 x 119,4 cm; Collezione privata)
Michaelina Wautier, L’educazione della Vergine (1656; olio su tela, 144,7 x 119,4 cm; Collezione privata)


A sinistra: Theodoor van Loon, Presentazione al tempio (1623-1628 circa; olio su tela, 257 x 180 cm; Scherpenheuvel, Basilica di Nostra Signora). A destra: Theodoor van Loon, Nascita della Vergine (1623-1628 circa; olio su tela, 257 x 180 cm; Scherpenheuvel, Basilica di Nostra Signora)
A sinistra: Theodoor van Loon, Presentazione al tempio (1623-1628 circa; olio su tela, 257 x 180 cm; Scherpenheuvel, Basilica di Nostra Signora). A destra: Theodoor van Loon, Nascita della Vergine (1623-1628 circa; olio su tela, 257 x 180 cm; Scherpenheuvel, Basilica di Nostra Signora)


Michaelina Wautier, Annunciazione (1659; olio su tela, 200 x 134 cm; Louveciennes, Musée-promenade de Marly-le-Roi)
Michaelina Wautier, Annunciazione (1659; olio su tela, 200 x 134 cm; Louveciennes, Musée-promenade de Marly-le-Roi)


Michaelina Wautier, Due bambini che giocano con le bolle di sapone (1653 circa; olio su tela, 90,5 x 121,3 cm; Seattle, Seattle Art Museum)
Michaelina Wautier, Due bambini che giocano con le bolle di sapone (1653 circa; olio su tela, 90,5 x 121,3 cm; Seattle, Seattle Art Museum)


Michaelina Wautier, Autoritratto (1650 circa; olio su tela, 120 x 102 cm; Collezione privata)
Michaelina Wautier, Autoritratto (1650 circa; olio su tela, 120 x 102 cm; Collezione privata)


Da sinistra a destra: Sofonisba Anguissola, Autoritratto (1554; olio su tavola, 19,5 x 14,5 cm; Vienna, Kunsthistorisches Museum); Artemisia Gentileschi, Autoritratto come Allegoria della Pittura (1638-1639 circa; olio su tela, 98,6 x 75,2 cm; Windsor, The Royal Collection); Elisabetta Sirani, Autoritratto come Allegoria della Pittura (1658; olio su tela, 114 x 85 cm; Mosca, Museo Pushkin)
Da sinistra a destra: Sofonisba Anguissola, Autoritratto (1554; olio su tavola, 19,5 x 14,5 cm; Vienna, Kunsthistorisches Museum); Artemisia Gentileschi, Autoritratto come Allegoria della Pittura (1638-1639 circa; olio su tela, 98,6 x 75,2 cm; Windsor, The Royal Collection); Elisabetta Sirani, Autoritratto come Allegoria della Pittura (1658; olio su tela, 114 x 85 cm; Mosca, Museo Pushkin)

E adesso ci sono effettivamente tutte le condizioni per far davvero sopravvivere l’arte di Michaelina Wautier, finalmente uscita dalle tenebre della storia e pronta per essere riscoperta. Le sue opere sono rimaste infatti, per secoli, celate agli occhi dei più: gran parte di esse figurava nelle raccolte familiari dopo la sua scomparsa, e la circolazione privata di tali dipinti ha impedito che Michaelina potesse godere di un riconoscimento ampio. Il suo nome ha dunque preso a scorrere carsicamente tra inventarî, cataloghi e raccolte, spesso con varianti diverse, finché non ha cominciato a suscitare un certo interesse, sfociato, nel 1884, nel primo saggio sull’artista, scritto da un quasi omonimo di Michaelina, Alphonse-Jules Wauters (Bruxelles, 1845 - 1916), storico dell’arte e docente dell’Accademia Reale del Belgio, che si era imbattuto nelle opere della talentuosa pittrice semplicemente sfogliando un catalogo del Kunsthistorisches Museum, pubblicato in quello stesso 1884. Anche questa era un’opera di primaria importanza per la riscoperta di Michaelina: per la prima volta, veniva stabilito che il San Giuseppe e il San Gioacchino di cui s’è parlato non erano, come si credeva allora, dipinti di Frans Wouters, allievo di Rubens, ma erano opere di Michaelina. L’articolo di Wauters stimolò una certa curiosità, benché i contributi su Michaelina avessero continuato a susseguirsi con una certa sporadicità, e si rese necessario l’intervento di Heinz, di cui s’è discusso in apertura, per restituire di nuovo l’artista alla sua grandezza.

Questo percorso di riscoperta è culminato con la grande monografica di Anversa del 2018, curata proprio da Katlijne van der Stighelen, che tanta parte della sua carriera ha dedicato a ricostruire le vicende di Michaelina. Certo: rimangono ancora molte domande senza risposta, perché di Michaelina, della sua vita e della sua carriera sappiamo ancora poco, e probabilmente molte opere devono ancora emergere. Ma si può dire che le ultime conquiste nel campo degli studî sulla sua figura l’abbiano riconsegnata al pantheon dei grandi della pittura fiamminga, e oggi il suo nome può essere tranquillamente inserito al fianco di quello di colleghi maschi come Rubens, van Dyck, Jordaens, Snyders, Sweerts. Ai quali non aveva niente da invidiare.

Bibliografia di riferimento

  • Katlijne van der Stighelen (a cura di), Michaelina Wautier, catalogo della mostra (Anversa, Museum aan de Stroom e Rubenshuis, dal 1° giugno al 2 settembre 2018), E Editions, 2018
  • Katlijne Van der Stighelen, Hannelore Magnus, Bert Watteeuw (a cura di), Pokerfaced. Flemish and Dutch Baroque Faces unveiled, Brepols Pub, 2011
  • Sabine Haag, Gerlinde Gruber, Paulus Rainer (a cura di), Sinnlich, weiblich, fla?misch. Frauenbilder rund um Rubens, Kunsthistorisches Museum Wien, 2009
  • Carlos G. Noreña, Juan Luis Vives, Springer, 1970
  • Günther Heinz, Studien über Jan van den Hoecke und die Malerei der Niederländer in Wien in Jahrbuch der Kunsthistorische Sammlungen in Wien, 63 (1967), pp. 149–151


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