Mostre a Bologna: il Guido Reni di Cesare Gnudi (1954)


Continuiamo la serie sulle grandi mostre bolognesi del passato con la mostra su Guido Reni di Cesare Gnudi, del 1954 (Palazzo dell'Archiginnasio)

Dopo aver curato la Mostra della Pittura Bolognese del Trecento, di cui avevamo parlato nel primo appuntamento di questa nostra serie dedicata alle grandi mostre bolognesi del passato, Roberto Longhi si spostò a Milano dove, nel 1951, curò la Mostra del Caravaggio e dei caravaggeschi, nelle sale di Palazzo Reale. La mostra non fu soltanto una delle più interessanti di sempre sul piano della ricerca scientifica, dell’organizzazione e dell’allestimento, tanto che ancora oggi è un caposaldo a cui guardare per molti curatori, ma ebbe anche un incredibile successo di pubblico: più di 400.000 visitatori in neanche tre mesi dopo l’apertura.

Catalogo della mostra Guido Reni del 1954
Catalogo della mostra Guido Reni del 1954, curato da Gian Carlo Cavalli, con saggio introduttivo di Cesare Gnudi

L’esperienza milanese di Longhi aveva, di fatto, dato un importante segnale: era cioè possibile organizzare mostre di alto livello coinvolgendo anche un pubblico di dimensioni ragguardevoli. E questo anche perché, come si diceva per la mostra del Trecento bolognese, gli italiani degli anni Cinquanta manifestarono un elevato interesse per l’arte, a cui concorrevano la volontà di lasciarsi la guerra alle spalle e di trovare nell’arte un’identità culturale comune per tutta la nazione. L’intuizione di coniugare rigore scientifico e appetibilità per il pubblico portò un altro grande studioso attivo nella Bologna degli anni Cinquanta, Cesare Gnudi, a ideare le Biennali di Arte Antica: una serie di mostre che, a intervalli di due anni, dovevano esplorare gli artisti della tradizione. La mostra con cui si aprì il ciclo fu Guido Reni, del 1954, a cura dello stesso Cesare Gnudi. Si tenne nelle sale del Palazzo dell’Archiginnasio.

Perché si decise di partire da Guido Reni, un pittore la cui fortuna all’epoca era pressoché caduta in disgrazia? Proprio per riabilitare la sua fama: Guido Reni fu tra i massimi esponenti del classicismo bolognese del Seicento, era considerato dai suoi contemporanei come un “nuovo Raffaello”, ebbe una vastissima influenza sui pittori delle generazioni successive, e per almeno un secolo i gusti artistici, soprattutto quelli dei potenti, furono dettati proprio dall’arte reniana. Poi, si sa, con il passare del tempo i gusti cambiano: oggi, per esempio, se pensiamo al Seicento ci viene naturale pensare a Caravaggio come massima espressione del suo tempo, ma per i suoi contemporanei (o almeno quelli che seguivano il gusto “ufficiale” dell’epoca) il modello di riferimento era Guido Reni. L’Ottocento e il Romanticismo ribaltarono tendenze e giudizi: la mancanza di forza drammatica delle sue opere (impensabile per un pittore portato all’idealizzazione come Guido Reni) veniva vista, in un secolo che amava l’epica, il pathos e i sentimenti forti, come un difetto. Per i romantici, insomma, i dipinti di Guido Reni mancavano di sostanza, erano considerati dipinti religiosi stereotipati, le sue figure eteree erano ritenute affettate e leziose, e soprattutto non sincere in quanto l’arte di Guido Reni era vista niente più che come espressione delle coercizioni controriformistiche. Basti pensare che nel 1844, quando la National Gallery di Londra acquistò la Susanna e i vecchioni di Guido, uno dei critici più influenti del tempo, John Ruskin, definì il dipinto come un’opera devoid alike of art and decency, “priva sia di arte che di decenza”.

Guido Reni, San Sebastiano
Guido Reni, San Sebastiano (1639-40; Bologna, Pinacoteca Nazionale)

Il giudizio della critica nei confronti di Guido Reni rimase invariato per almeno un centinaio d’anni. A Bologna si iniziò a riscoprire il pittore negli anni attorno alla seconda guerra mondiale. Ma nel dopoguerra gravava ancora su di lui il preconcetto ottocentesco: uno degli obiettivi principali della mostra di Cesare Gnudi fu ricollocare Guido Reni al posto che gli spettava, quello di un caposcuola influente e originale, capace di dettare gusti, mode e tendenze per un tempo molto lungo. La mostra riuscì a colpire nel segno in quanto risvegliò un interesse per Guido Reni che ha permesso di considerare nuovamente l’artista tra i grandi della storia dell’arte: un giudizio che è rimasto oggigiorno immutato e che probabilmente è destinato a essere quello definitivo.

La mostra fu inoltre fondamentale per identificare con certezza l’idea di bellezza secondo Guido Reni: un presupposto imprescindibile per comprendere tutto il classicismo seicentesco e settecentesco che aveva in Guido Reni il principale punto di riferimento. Per Gnudi, l’arte di Guido Reni è giocata su un contrasto. O meglio, su una “antinomia”, per usare le parole dello studioso: “quella fra l’ideale classico, come mito di bellezza, e l’ideale, l’ispirazione cristiana”, come scriveva nel catalogo della mostra. Questo “intimo, quasi segreto e inconfessato dissidio” è per Gnudi “uno dei motivi circolanti” nella poetica di Guido Reni. Ed è da questo contrasto che prende forma il suo ideale di bellezza, che sembra identificarsi “oltre che con l’armonia delle forme classiche e rinascimentali, con le stesse immagini del mito classico”, mediato però “con la realtà in cui viveva, in cui operava, in cui credeva anche: con la realtà storica, politica e religiosa della Controriforma”. Continua Gnudi: “tra il suo ideale di bellezza e il suo sentimento religioso già assestato in una quieta e accomodante pietà, egli non sentì forse mai un vero contrasto. Ma fra i suoi grandi soggetti classici e le sue randi pale sacre, se non v’è contrasto di mondi che si affrontano, nemmeno si può affermare vi sia assoluta identità di ispirazione, a cui sia del tutto indifferente il soggetto, il motivo mitologico o devoto”.

Guido Reni, Strage degli Innocenti
Guido Reni, Strage degli Innocenti (1611; Bologna, Pinacoteca Nazionale)

Guido Reni riuscì a far convivere queste due anime, quella classica e quella cristiana, in modo armonioso, e senza che l’una prevaricasse sull’altra. Prendiamo per esempio una delle opere in mostra, il San Sebastiano della Pinacoteca Nazionale di Bologna, dipinto che peraltro venne restaurato per l’occasione (le esposizioni infatti dànno spesso modo di lavorare su dipinti che hanno bisogno di interventi): il santo, che subisce il martirio forte nella sua fede, come testimonia lo sguardo rivolto verso l’alto e la smorfia che evidenzia un dolore che cerca però conforto, appunto, nella fede, assume una posa da statua classica, rendendo palese l’interesse del pittore per la statuaria antica, che Guido ebbe modo di studiare durante il suo soggiorno a Roma. E sempre questa convivenza tra le due anime portò Guido Reni a conferire ai suoi soggetti classici, soprattutto nell’ultima fase della sua carriera, un’aura quasi metafisica e trascendente: è il caso, per esempio, della Cleopatra di Palazzo Pitti, dipinta attorno al 1640 e anch’essa presente in mostra. La regina d’Egitto, che solitamente ispirava ai pittori scene dense di erotismo, è priva di sensualità in Guido Reni: solo il seno mostrato all’osservatore rimanda alla sua femminilità. Gnudi parlava di “sensualità frenata”, una sensualità frenata, ma comunque non del tutto sopita, che sfibra i sentimenti dei personaggi, “ne corrode la classica dominata pienezza e li ripiega verso quella sedata malinconia, lontana dalle grandi passioni, che su tutto distende il suo velo sottile e uniforme, il suo calmo e blando riflesso”.

La mostra esponeva il meglio della produzione di Guido Reni: circa settanta opere, dal Sansone vittorioso e dalla Strage degli Innocenti della Pinacoteca Nazionale di Bologna passando per la Maddalena penitente di Palazzo Barberini, per l’Amor sacro e amor profano di Pisa e per il Bacco fanciullo di Palazzo Pitti, per arrivare alla produzione dell’ultima fase della carriera dell’artista. Le intuizioni di Gnudi si rivelarono felici: non solo la mostra rilanciò Guido Reni e lo pose in un’ottica di internazionalità che fino ad allora gli era sconosciuta (Bologna iniziò a diventare proprio in quegli anni una delle capitali mondiali della storia dell’arte), ma ebbe anche un notevole successo di pubblico. Andrea Emiliani ricorda che la mostra riuscì a essere visitata da 80.000 visitatori, e a vendere anche 10.000 cataloghi. Non poteva esserci un esordio migliore per le Biennali d’arte antica.

Guido Reni, Amor sacro e amor profano
Guido Reni, Amor sacro e amor profano (1623 circa; Pisa, Museo Nazionale di Palazzo Reale)


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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

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