Cosa ha fatto il governo per la cultura in sei mesi? Quasi niente. E non sta considerando neppure il suo programma


Sono passati sei mesi da quando il nuovo governo si è insediato. Cosa è stato fatto per la cultura? Quasi niente, e in più il governo non sta neppure considerando il programma elettorale del partito di cui il ministro è espressione.

Nella storia recente del Ministero dei Beni Culturali, è difficile ricordare momenti che superino quello attuale quanto a reale distanza tra misure annunciate e risultati concreti. Fin dal momento in cui s’è insediato, il ministro Alberto Bonisoli ci ha abituati a sfavillanti dichiarazioni d’intenti cui tuttavia non hanno fatto seguito adeguate azioni in grado di tradurre le parole in fatti. Non solo: mai, nella storia recente del Ministero dei Beni Culturali, s’è assistito a cambi di posizione tanto repentini su provvedimenti dapprima annunciati o proposti, e poi immediatamente ritirati. Adesso, a seguito dell’approvazione della manovra al Senato, dopo le susseguenti dichiarazioni del ministro in merito, e trascorsi sei mesi dal suo insediamento, possediamo finalmente qualche elemento di base per cercare di trarre alcune valutazioni preliminari.

Per cominciare, è piuttosto sintomatico il fatto che il ministro, nel fornire un primo bilancio di “quello che abbiamo fatto nei primi sei mesi di lavoro”, parta da due misure che, in realtà, sono ancora lontane dall’essere legge, ma che Bonisoli in qualche modo considera forse già in essere: l’introduzione del biglietto a due euro per i giovani tra i diciotto e i venticinque anni, e l’aumento delle giornate gratuite nei musei. Misure che, peraltro, riguardano temi ben lontani da quelli che il Movimento 5 Stelle, il partito del ministro Bonisoli, aveva affrontato nelle prime pagine del suo programma elettorale (e che quindi forse sono da considerare per loro prioritarî): l’aumento della spesa in cultura, il mecenatismo e il crowdfunding, l’organizzazione del MiBAC. Tutti argomenti dei quali finora non s’è neppure parlato. Tornando però alle domeniche gratis e alle riduzioni per i giovani, si potrebbe partire rammentando le considerazioni che, su queste pagine, avevamo già avanzato circa tali provvedimenti: possiamo ritenerli miseri palliativi, semplice fumo negli occhi gettato in faccia a chi ritiene che l’ingresso scontato per i giovani in età da università, o il confino in una gabbia gratuita una volta al mese per chi potrebbe aver difficoltà a corrispondere il prezzo del biglietto, siano misure che possano in qualche modo favorire l’avvicinamento alla cultura. Ma varrà la pena ripeterlo: le statistiche dell’Istat dimostrano che soltanto un 8% dei giovani in età interessata dal biglietto a due euro ritiene che i titoli d’accesso ai musei siano troppo costosi. La stragrande maggioranza (in misura prossima al 50%) non s’avvicina ai musei semplicemente perché composta da persone che non sono interessate ai musei. Quanto alle gratuità indiscriminate, rimandiamo alla nostra proposta d’abolirle e d’introdurre, al loro posto, misure che vadano incontro all’esigenze della minoranza costituita da quanti non visitano i musei perché li ritengono costosi, o perché non se li possono permettere.

L’unico motivo d’interesse di questi provvedimenti, dati come già realizzati ma in realtà non ancora ufficialmente sanciti da leggi o decreti (e gioverà anche ricordare anche come il Consiglio di Stato abbia in prima istanza rispedito al mittente la relazione che accompagnava il piano Bonisoli, perché poco chiara), consiste nel loro essere alquanto esemplificativi dei tentennamenti cui Bonisoli e i suoi sottosegretarî ci hanno fin qui abituati. Mi riferisco, nello specifico, alla querelle sulle domeniche gratis: dapprima, il ministro aveva manifestato l’intenzione di rivedere l’iniziativa introdotta da Dario Franceschini. Poi, a fine luglio, nel corso d’una visita a Napoli, aveva addirittura dichiarato che sarebbe stata abolita, e l’idea era confermata da una nota ufficiale che parlava di un’abolizione “di fatto”. Infine, a settembre, Bonisoli, contrariamente alle aspettative, confermava le domeniche gratis, con sole due novità: le domeniche gratuite “d’alta stagione” saranno spostate per dar vita a una “settimana gratuita” in marzo, e i direttori avranno la possibilità di stabilire ulteriori giornate gratuite (possibilità che, peraltro, già detengono). Non pago, alcune settimane fa Bonisoli ha rivolto un duro attacco ad alcuni giornali che avevano sottolineato la sua marcia indietro rispetto ai propositi d’abolizione iniziali, e ha rivendicato la continuità della sua linea (anche se, di fatto, le sue idee iniziali, come s’è visto, apparivano piuttosto diverse rispetto alla forma che il piano finale ha assunto).

Il Collegio Romano, sede del MiBAC
Il Collegio Romano, sede del MiBAC

Ma le domeniche gratuite non sono state l’unica misura su cui s’è a lungo oscillato tra timide intenzioni di cancellazione e risolute conferme. Si consideri l’esempio del bonus cultura da 500 euro per i diciottenni: anche in questo caso, Bonisoli aveva dichiarato, pochi giorni dopo la sua nomina, che sarebbe stato meglio spendere diversamente le risorse allocate per 18app. Dopo i pesanti attacchi dell’opposizione, Bonisoli aveva annunciato che, per il 2018 e il 2019, i fondi per il bonus sarebbero rimasti, seppur con correttivi che sarebbero stati introdotti “per rimediare agli errori fatti in passato e preparare un programma strutturale per la promozione del consumo culturale”. Di tali correttivi dava annuncio, appena un paio di settimane fa, il sottosegretario Gianluca Vacca, affermando che, dal 2019, 18app sarebbe stata ricalibrata sulla base del reddito dei beneficiarî. E in effetti, un emendamento alla manovra aveva introdotto il reddito come discriminante per l’assegnazione: peccato che però nel disegno di legge uscito dall’approvazione definitiva del Senato, la clausola sul reddito sia stata eliminata e 18app, anche per il 2019 (a meno che non intervengano improbabili modifiche dell’ultim’ora), sarà identica a come l’aveva immaginata il Pd.

In buona sostanza, è possibile affermare che Alberto Bonisoli, di fatto, abbia finora mantenuto la stessa linea di chi l’ha preceduto, mentre, sul piano dell’azione teorica, abbia a malapena sfiorato i punti del programma elettorale, e abbia anche generato una certa confusione tra gli addetti ai lavori, tanto che ancor oggi si fatica a comprendere quale sia la sua visione sui beni culturali. Da questi primi sei mesi di governo, infatti, non è emersa una linea strategica: s’è parlato quasi esclusivamente d’interventi spot, e i veri problemi (primo tra tutti quello occupazionale) sono stati sin qui affrontati in maniera molto blanda e marginale, con dichiarazioni che hanno lasciato il tempo che hanno trovato. A cominciare da quelle sulle assunzioni, la cui entità cambiava di volta in volta: a luglio Bonisoli dichiarava di ritenere necessario assumere seimila unità di personale, poche settimane dopo palesava l’intenzione di voler lanciare un concorso da duemila posti, a settembre informava di aver chiesto al Ministero della Funzione Pubblica un concorso per oltre quattromila posti. La realtà ci pone invece di fronte a una situazione ben diversa: blocco delle assunzioni nella pubblica amministrazione fino a novembre 2019 (è uno degli effetti della “manovra del popolo”: per risparmiare un centinaio di milioni di euro da destinare a quota 100 e reddito di cittadinanza, viene congelata l’assunzione di migliaia di giovani negli enti pubblici, una misura definita “gravissima” dal presidente dell’Inps, Tito Boeri) e, dopo, ci saranno in più appena un migliaio di assunti fino al 2021, oltre a circa un centinaio d’unità che entreranno con lo scorrimento delle graduatorie del concorso del 2016. C’è da sottolineare che, di qui al 2021, sono previsti tremila pensionamenti al Ministero dei Beni Culturali: si tratta d’unità che dovrebbero essere rimpiazzate per effetto del cosiddetto ddl concretezza, un disegno di legge che, se approvato, introdurrebbe il turnover al 100% nella pubblica amministrazione. Ovvero, per ogni pensionamento ci sarebbe una nuova assunzione, e questo a partire dal 2019. Ma al momento il ddl concretezza è fermo alla Camera da un paio di settimane, e non sono emerse novità dopo l’emendamento che sancisce la sospensione delle assunzioni (e che cozza frontalmente col ddl concretezza: è dunque lecito attendersi che ci saranno modifiche). E poi ci sarebbe anche da evidenziare che non una parola è giunta dal ministro o dai sottosegretarî in merito al raddoppio dell’Ires per le organizzazioni del terzo settore, che includono sia gl’istituti che assistono i poveri e i bisognosi, sia le fondazioni che promuovo la ricerca, le lettere, le arti, la scienza, la cultura (si pensi a cosa può voler significare un’aliquota che passa dal 12 al 24% per una fondazione che eroga borse per le ricerche di giovani studiosi): un raddoppio che, secondo le stime, vale poco più di cento milioni di euro, ma che rischia di creare non pochi danni al settore (oltre che di colpire chi avrebbe bisogno d’aiuto).

Per il resto, non ci sono novità significative: la distribuzione dei (pochi) fondi risparmiati su 18app è un’operazione di pura ragioneria (forse sarebbe stato meglio avere il coraggio di abolire il bonus per i diciottenni, stante anche la considerazione di Bonisoli secondo cui “la cultura non è una mancetta elettorale, ma un investimento”, e trovare dunque un modo più interessante per investire, in misure strutturali, i quasi trecento milioni di euro del bonus), la ridistribuzione dei fondi del piano per l’arte contemporanea è poco chiara (non si comprende cosa s’intenda per “promozione all’estero dell’arte contemporanea italiana”) e rischia d’affossare la GNAM e il MAXXI di Roma, e a fronte di qualche sparuto investimento (i dodici milioni e mezzo di euro per le fondazioni lirico sinfoniche, una goccia rispetto al debito accumulato, gli otto milioni per il FUS, più qualche stanziamento per realtà come Matera 2019, Parma 2020, l’Accademia dei Lincei, l’Istituto per la storia del Risorgimento e pochi altri) è necessario rimarcare i tagli al contributo per il contenimento della spesa per i musei autonomi e quello ai crediti d’imposta per librerie e sale cinematografiche, per un totale di quasi otto milioni di euro. Da segnalare con favore il piano d’investimenti in materia di sicurezza antincendio da 109 milioni di euro: è vero che si tratta di risorse che afferiscono ai cosiddetti “Fondi rinvenienti 2007-2013”, tuttavia è positivo che lo stanziamento riguardi la sicurezza dei nostri istituti.

Ma è comunque sempre poco, soprattutto se si pensa che l’attuale compagine governativa s’è sempre presentata come dedita al più radicale cambiamento, e che negli ultimi centottanta giorni non s’è mai parlato di nessuno dei punti programmatici coi quali il Movimento 5 Stelle s’è presentato alle elezioni. Nessun cenno alla revisione della riforma Franceschini, nessuna discussione sul problema del volontariato come sostituto del lavoro professionale, di lavoro stesso s’è parlato poco e male (e, a proposito, il ministro non s’è neanche fatto sentire dopo la grande manifestazione del 6 ottobre), non s’è parlato del miglioramento del sistema del mecenatismo culturale italiano (a cominciare dall’Art Bonus), e lo stesso dicasi per il miglioramento della fruibilità dei beni culturali, non s’è neppure prestata attenzione alla disastrosa situazione in cui versano le biblioteche, men che meno al riconoscimento giuridico dei professionisti della cultura, e non s’è mai sfiorato l’argomento dei servizî aggiuntivi nei musei e della Legge Ronchey. Tutti ambiti che i pentastellati si proponevano di riformare: naturalmente, siamo tutti d’accordo sul fatto che in sei mesi sia impossibile dar vita a rinnovamenti risolutivi, ma si tratta comunque d’un lasso di tempo ragionevole per impostare una strategia, adottare linee guida, stilare punti programmatici, dotarsi d’una road map di massima, intavolare discussioni con gli operatori e con gli addetti ai lavori. O, quanto meno, per degnare d’una seppur minima considerazione il proprio programma. È questo ciò che si rimprovera al ministro: la mancanza d’una visione. Il risultato è che il sistema dei beni culturali corre il rischio di vivacchiare alla giornata: si potranno magari trarre momentanei beneficî da qualche provvedimento ad hoc, ma senza che venga adottata una strategia di lungo termine, e se scarsa è la propensione a confrontarsi con gli addetti ai lavori, diventa anche molto difficile fronteggiare i numerosi problemi che affliggono il sistema. E se la tendenza consiste nell’impacchettare quelle poche azioni finora intraprese per presentarle come grandi risultati, continuando a rimandare l’avvio delle discussioni sui problemi più spinosi, allora sarà forse bene cominciare a considerare l’idea d’invertirla fin da subito.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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