A Palazzo Antinori, la mostra sull'immagine di Firenze secondo Giovanni e Telemaco Signorini, due generazioni di grandi artisti


Recensione della mostra “La Firenze di Giovanni e Telemaco Signorini”. A Firenze, Palazzo ANtinori, dal 19 settembre al 10 novembre 2019.

Il rinvenimento, nel 2008, d’un importante carteggio tra Telemaco Signorini (Firenze, 1835 - 1901), uno dei principali pittori del secondo Ottocente e nome di punta del movimento dei macchiaioli, e suo padre Giovanni (Firenze, 1810 - 1862), artista di spicco della corte lorenese appena prima dell’Unità d’Italia e vedutista (e non solo) in grado di soddisfare un’esigente committenza internazionale, è alla base della bella mostra La Firenze di Giovanni e Telemaco Signorini, la prima mai organizzata negli spazî di Palazzo Antinori, nel capoluogo toscano: il piano nobile dell’edificio che, da cinque secoli, appartiene ai marchesi oggi celebri ovunque per le loro produzioni vinicole, apre per la prima volta al pubblico. La rassegna, curata da Elisabetta Matteucci e da Silvio Balloni, giunge a dieci anni di distanza dall’ultima occasione espositiva che ha riguardato Telemaco Signorini (la grande mostra di Palazzo Zabarella a Padova: tenutasi nel 2009, diede l’opportunità di ripercorrere con dovizia e profondità tutta la carriera del pittore fiorentino, in maniera tanto puntuale che Signorini, da quella data, non ha più avuto mostre a lui dedicate), e si propone con due novità sostanziali, finora non ancora indagate con tanta minuzia: la prima è il rapporto tra padre e figlio, la seconda è il loro legame con Firenze, per entrambi indissolubile (anche per Telemaco, nonostante la sua mentalità aperta e cosmopolita, la sua propensione a viaggiare, i suoi ripetuti soggiorni in Italia e all’estero).

Si potrebbe dire che la città assurga a ruolo di protagonista della mostra, assieme ai due pittori: coi dipinti che si susseguono nelle otto sezioni della mostra (e disposti con un singolare allestimento raccolto, che favorisce una visione ravvicinata, su tre sale del piano nobile di Palazzo Antinori) ne vengono ripercorsi quasi settant’anni di storia, attorno al cruciale passaggio da centro del granducato dei Lorena a capitale, dal 1865 e per sei anni fino al 1871, dell’appena proclamato regno d’Italia. La costante tra due epoche così diverse è l’apertura al mondo di Firenze, la modernità della sua classe dirigente, il suo innegabile e impagabile appeal internazionale che attirò, in questo lungo lasso di tempo, tante personalità illustri dell’arte, dell’economia e della politica. Un’apertura che caratterizzò anche gli ultimi anni del dominio lorenese: malgrado una corte di grandi proporzioni, e nonostante un cerimoniale che dai Medici in poi non era stato mai snellito (questo pesante apparato, del resto, era necessario a conferire ai Lorena visibilità agli occhi del mondo), intento della famiglia regnante era quello di trasmettere ai proprî sudditi un’immagine nuova del potere, più in linea coi tempi. Di qui, le grandi opere pubbliche (gli ammodernamenti architettonici che furono promossi in tutti i principali centri della Toscana, le bonifiche, l’ampliamento del porto di Livorno, le infrastrutture, a cominciare dalla costruzione della rete ferroviaria e dal miglioramento della rete stradale), le riforme tributarie (come quella del 1824-1825 che riuscì a ridurre notevolmente la pressione fiscale), quelle in favore delle libertà individuali (a cominciare dalla riforma della stampa che riduceva nettamente le maglie della censura permettendo a Firenze di diventare un importante centro editoriale: solo le misure adottate dopo i moti del ’48 avrebbero inferto un duro colpo a questa conquista), la riforma del sistema universitario, e diversi altri provvedimenti. Il breve periodo in cui Firenze fu capitale del regno fu comunque sufficiente a cambiare radicalmente il volto della città con un profondo riassetto del centro storico (molti furono gli abbattimenti e le demolizioni per fare spazio a un’idea nuova di città, e il piano urbanistico elaborato da Giuseppe Poggi non fu esente da forti critiche) e con l’espansione della città verso le zone limitrofe, invase dai nuovi quartieri che dovevano rispondere alle nuove necessità della città designata per essere capitale d’Italia.

La storia dei Signorini parte da Firenze e da qui s’irradia altrove, ma, come anticipato, la città toscana mai smise d’essere per loro un punto di riferimento. S’è detto in apertura che la mostra nasce dal ritrovamento d’un carteggio inedito tra Giovanni e Telemaco (che, in verità, si estende anche ad altri membri della famiglia, ovvero Leopoldo e Paolo, altri due figli di Giovanni): le lettere saranno pubblicate prossimamente da Elisabetta Matteucci, ma è comunque possibile anticipare che dalle missive emergono le figure di due artisti molto legati alla loro città natale e perfettamente inseriti nel milieu culturale e artistico fiorentino. C’è poi un’ulteriore considerazione che accompagna il rapporto tra i Signorini e Firenze: la riflessione sul loro legame con la città, scrive la curatrice, “favorisce l’analisi delle fonti figurative all’origine della formazione, oltre a suggerire una valutazione del tema urbano tanto indagato da divenire identificativo”. Si tratta inoltre d’una ricerca che, sottolinea ancora Elisabetta Matteucci, “non poteva trascurare l’influenza esercitata dalla città nella sfera sociale”. Tutti temi che vengono puntualmente esaminati nelle sale dell’esposizione fiorentina, nell’ambito della quale l’immagine della città diviene anche mezzo per “narrare le diverse stagioni che determinarono l’evoluzione di uno stile in relazione alle mutazioni urbanistiche e sociali di Firenze e anche alle innumerevoli sollecitazioni provenienti dalla comunità internazionale che aveva identificato nella città sull’Arno il più suggestivo approdo per le evasioni dei sentimental travellers”, sottolinea Carlo Sisi nel catalogo.

Sala della mostra La Firenze di Giovanni e Telemaco Signorini
Sala della mostra La Firenze di Giovanni e Telemaco Signorini

Così, dopo un breve introibo dedicato ai ritratti familiari (tra i quali figurano un bel ritratto inedito di Egisto, il maggiore dei tre figli di Giovanni, e un ritratto di Telemaco tredicenne, eseguito proprio da Egisto e che torna a essere esposto al pubblico a quasi cent’anni di distanza dall’ultima occasione), la prima immagine di Firenze a delinearsi è quella delle vedute di Giovanni. Un puntuale inquadramento del Giovanni Signorini “vedutista” era stato offerto dalla studiosa Silvestra Bietoletti in occasione della mostra di Palazzo Zabarella 2009 (e ribadito dalla stessa storica dell’arte in occasione di questa): se i suoi paesaggi degli esordî si rifanno ancora alla tradizione secentesca di Salvator Rosa e Claude Lorrain, una più ponderata meditazione sulle vedute toscane del Settecento e del primo Ottocento (a cominciare da quelle di Giuseppe Gherardi, presente a Palazzo Antinori con due opere che vengono poste a confronto con quelle di Signorini) si traduce in una pittura più serena e oggettiva, à la Canaletto (col quale Signorini padre condivideva l’abitudine alla presa dal vero) ma con un più sentito interesse per il pittoresco, coi contrasti di luce che alle volte sanno farsi marcati fin quasi a diventare protagonisti principali della composizione e, sottolineava Bietoletti in occasione della mostra padovana, senza perdere il contrasto con un’immagine di Firenze che, spesso trasognata, riesce talvolta a fondere il vero con l’ideale. La rassegna di Firenze esemplifica magistralmente tutti questi passaggi con una preziosa successione di opere in prestito da collezioni private (come gran parte dei dipinti che compongono la mostra): si parte con due marine fortemente debitrici nei confronti dell’arte di Salvator Rosa e fatte di luci soffuse e tinte scure, con vedute dall’intenso sapore lirico (è quanto accade nella Marina con due velieri: le due imbarcazioni che stanno lasciando il porto di Livorno procedono verso un tramonto che illumina l’intera scena d’una luce calda e avvolgente), e si passa a opere come la Veduta dell’arno da Ponte alla Carraia, animata da intenti che potremmo dire più “scientifici” rispetto alle opere precedenti (e tra le due fasi c’è uno stacco di appena cinque anni) e con sguardo che cambia completamente riferimento, dal momento che si migra dai paesaggi dell’Italia centrale del Seicento alla veduta nordica. Per i curatori, le rasserenanti vedute di Signorini hanno anche sottesi risvolti politici (diventano dunque allegorie dell’armonia che regna sotto il governo dei Lorena), e quando l’epoca del granducato s’avviava verso la fine (specialmente a seguito della svolta reazionaria che seguì i moti del 1848), i dipinti di Signorini acquisirono una dimensione più nostalgica e malinconica: ne è un chiaro esempio un’opera del 1856, La mietitura d’estate, dove il più classico dei panorami della città, vista dalle colline a sud (di modo che si distinguano il profilo della cupola del Duomo, il campanile di Giotto, la torre di Arnolfo, la guglia della Badia Fiorentina), fa da sfondo a una specie d’idillio campestre che quasi si dissolve nella luce rossastra d’un caldo tramonto di giugno. Un nucleo d’opere che completa il discorso avviato con la mostra di Padova, dal momento che a Palazzo Antinori sono più numerose e allargano lo sguardo anche alle opere più vicine al romanticismo degli esordî.

Ed è in questo contesto che s’inseriscono anche le prime sperimentazioni d’un Telemaco appena ventenne o poco più, rilette attraverso il rapporto col padre (sempre cordiale, evidenzia Bietoletti, e alimentato da un clima familiare vivace e incline a sostenere il giovane): è infatti sull’immagine di Firenze, mediata dal filtro paterno, che comincia a formarsi la sua personalità artistica, come appare evidente da due ovali inediti, un Panorama di Firenze dal colle di San Miniato e una Veduta dell’Arno e di Santa Maria del Fiore dal Forte di Belvedere, che si ricollegano alla Mietitura di cui s’è appena detto per via della loro atmosfera idilliaca. Sono però anche opere che, spiegano i curatori, “attestano un moderno utilizzo della luce, condotto tramite intensi contrasti di chiaroscuro, che sinora il pittore aveva utilizzato per aumentare il coinvolgimento narrativo e il senso di verità in episodî storico-letterarî o in studî di architetture urbane, ma che adesso connota l’attualità di una visione rivolta al paesaggio osservato en plein air, prima della consueta rielaborazione in studio”. Quest’immagine romantica della città è quella che, alla proclamazione del regno d’Italia, contraddistinguvae la produzione di molti pittori attivi nell’area: è il caso, per esempio, di Lorenzo Gelati (Firenze, 1824 - 1899), la cui Veduta della chiesa di San Miniato al Monte par quasi invitarci ad ammirare assorti uno scorcio che sembra fatto apposta per una cartolina, o di Nino Costa (Roma, 1826 - Marina di Pisa, 1903), nome di punta della pittura dal vero di metà Ottocento, che con la sua tavola Un pomeriggio alle Cascine cerca l’effetto suggestivo.

Nel contempo, il giovane Telemaco, verso la fine degli anni Cinquanta, ormai abbandonata la via tracciata dal padre per intraprendere la propria, cominciava a mettere a punto la sua pittura di “macchia”, che in certa misura avrebbe anche enunciato a livello teorico in un articolo pubblicato dsu La Gazzetta del Popolo del 1862, in risposta a un polemico critico anonimo che, com’è noto, adottando il termine “macchiaioli” intendeva connotare negativamente quei giovani che si proponevano di “riformare la pittura”: “nelle teste delle loro figure”, si legge nel piccato articolo non firmato, “voi cercate il naso, la bocca, gli occhi, e le altre parti: voi ci vedete delle macchie senza forma [...]. Che l’effetto ci debba essere, chi lo nega? Ma che l’effetto debba uccidere il disegno, fin la forma, questo è troppo”. A questi attacchi, Signorini rispondeva scrivendo che “la macchia non fu altro che un modo troppo preciso del chiaroscuro, ed effetto della necessità in cui si trovarono gli artisti d’allora di emanciparsi dal difetto capitale della vecchia scuola, la quale, ad un’eccessiva trasparenza dei corpi, sagrificava la solidità e il rilievo dei suoi dipinti”. La macchia di Signorini, Fattori, Borrani e colleghi, scriveva Bietoletti nel 2009, nasceva per rispondere alla necessità di liberare la pittura dal didascalismo che aveva caratterizzato la pittura storica romantica e, viceversa, per rinnovare questo genere alla ricerca d’un più passionale coinvolgimento dell’osservatore. Questa primissima stagione della pittura di macchia non è documentata dalla mostra di Palazzo Antinori, che al contrario si concentra sulla nuova pittura di paesaggio, elaborata a cavallo del periodo che precedette e seguì la seconda guerra d’indipendenza. Al termine delle ostilità, Signorini, dopo la scomparsa del padre Giovanni occorsa nel 1862, si trasferì a Piagentina, nelle campagne appena fuori Firenze, dove fondò una sorta di libera scuola di pittura assieme a Silvestro Lega (Modigliana, 1826 - Firenze, 1895) e Odoardo Borrani (Pisa, 1833 - Firenze, 1905), basata sulla pittura en plein air che teneva a mente l’esempio della scuola di Barbizon (i cui esiti Signorini aveva potuto apprezzare soggiornando a Parigi pochi mesi prima), sull’osservazione del mero dato naturale, sulla volontà di recidere i legami con l’accademia, sulla consapevolezza del fatto ch’era necessario imprimere sulla tela una sensazione. Della stagione di Piagentina sono in mostra tre dei lavori più noti, a costituire pertanto un nucleo ridotto nella quantità, ma di qualità elevatissima: Il ponte sul torrente Affrico, compendio di quest’interessi filtrato attraverso l’interesse per la vita rustica che torna spesso nella produzione di Signorini, e ancora La luna di miele, un dipinto pienamente macchiaiolo ammantato di delicato lirismo, e i Renaioli sull’Arno, denso di quegli effetti atmosferici che il pittore andava cercando con insistenza in questo periodo della sua attività. Telemaco s’era ormai reso del tutto indipendente dall’esempio del padre.

Giuseppe Gherardi, Veduta da Ponte Vecchio, dettaglio (1825; olio su tela, 37 x 52 cm; Collezione privata)
Giuseppe Gherardi, Veduta da Ponte Vecchio, dettaglio (1825; olio su tela, 37 x 52 cm; Collezione privata)


Giovanni Signorini, Marina di Livorno con la Fortezza Medicea sullo sfondo (1840 circa; olio su tela, 40,5 x 59,5 cm; Collezione privata)
Giovanni Signorini, Marina di Livorno con la Fortezza Medicea sullo sfondo (1840 circa; olio su tela, 40,5 x 59,5 cm; Collezione privata)


Giovanni Signorini, Veduta dell'Arno da Ponte alla Carraia (1846; olio su tela, 56 x 89 cm; Collezione privata)
Giovanni Signorini, Veduta dell’Arno da Ponte alla Carraia (1846; olio su tela, 56 x 89 cm; Collezione privata)


Giovanni Signorini, La mietitura d'estate (1856; olio su tela, 98 x 132 cm; Collezione privata)
Giovanni Signorini, La mietitura d’estate (1856; olio su tela, 98 x 132 cm; Collezione privata)


Telemaco Signorini, Panorama di Firenze dal colle di San Miniato (1856 circa; olio su tela, 73,4 x 55,2 cm; Collezione privata)
Telemaco Signorini, Panorama di Firenze dal colle di San Miniato (1856 circa; olio su tela, 73,4 x 55,2 cm; Collezione privata)


Telemaco Signorini, Veduta dell'Arno e di Santa Maria del Fiore dal Forte di Belvedere (1856 circa; olio su tela, 73,4 x 55,2 cm; Collezione privata)
Telemaco Signorini, Veduta dell’Arno e di Santa Maria del Fiore dal Forte di Belvedere (1856 circa; olio su tela, 73,4 x 55,2 cm; Collezione privata)


Lorenzo Gelati, Veduta della chiesa di San Miniato al Monte (1865 circa; olio su tela, 62 x 90 cm; Collezione privata)
Lorenzo Gelati, Veduta della chiesa di San Miniato al Monte (1865 circa; olio su tela, 62 x 90 cm; Collezione privata)


Nino Costa, Un pomeriggio alle Cascine (1859-1869; olio su tela, 39 x 66 cm; Collezione privata)
Nino Costa, Un pomeriggio alle Cascine (1859-1869; olio su tela, 39 x 66 cm; Collezione privata)


Telemaco Signorini, Piagentina. Il ponte sul torrente Affrico (1861-1862; olio su tela, 74 x 58 cm; Collezione privata)
Telemaco Signorini, Piagentina. Il ponte sul torrente Affrico (1861-1862; olio su tela, 74 x 58 cm; Collezione privata)


Telemaco Signorini, La luna di miele (1862-1863; olio su tela, 31,5 x 98 cm; Collezione privata)
Telemaco Signorini, La luna di miele (1862-1863; olio su tela, 31,5 x 98 cm; Collezione privata)


Telemaco Signorini, Una mattina sull'Arno (Renaioli sull'Arno) (1868 circa; olio su tela, 40 x 60 cm; Collezione privata)
Telemaco Signorini, Una mattina sull’Arno (Renaioli sull’Arno) (1868 circa; olio su tela, 40 x 60 cm; Collezione privata)

Un lungo capitolo della rassegna, composto dalla quarta e dalla quinta sezione, accompagna il pubblico nell’epoca di transizione che, nel volgere di pochi anni, avrebbe condotto Firenze a divenire capitale del regno d’Italia: la mostra di Palazzo Antinori segue questa trasformazione, si potrebbe dire, prima all’esterno (nei viali, nelle piazze, osservando come cambiava l’immagine della città) e quindi all’interno, tra i salotti e nel vivo della mondanità. Il compito di tracciare un profilo storico di questi stravolgimenti è affidato dai curatori a pennelli diversi rispetto a quello di Signorini: il Viale principe Amedeo a Firenze di Giovanni Fattori (Livorno, 1825 - Firenze, 1908) è testimone dell’apertura dei nuovi viali di circonvallazione che, stando a quanto stabiliva il piano Poggi, dovevano essere aperti sul tracciato delle antiche mura, che per tale motivo furono in molti tratti abbattute (lo stesso viale principe Amedeo fu ribattezzato “lo stradone delle mura” dai fiorentini). L’opera assume un particolare rilievo in quanto Fattori non era pittore particolarmente incline alle vedute urbane: lo era invece Ruggero Panerai (Firenze, 1862 - Parigi, 1923), che con il suo The Paddock dipinge una parata di fantini all’ippodromo delle Cascine (i fiorentini, dopo l’ingresso nel regno d’Italia e soprattutto dopo la proclamazione di Firenze capitale, avevano preso a maturare interessi simili a quelli ch’erano alla moda nei grandi centri europei: tra questi, figurava l’ippica), mentre con il Ponte di Santa Trinita, opera di stampo impressionista, ci racconta le eleganti passeggiate sui lungarni della borghesia commerciale e industriale della città. Signorini si trovava a perfetto agio in questo mondo, dato anche il suo carattere raffinato, salace ed esuberante: nella produzione che scruta gli ambienti dell’alta società entrando nelle sue case, spiccano la Lezione di pianoforte, un’occupazione tipica delle ragazze di buona famiglia del tempo (e molto diffusa in Francia, tanto da divenire soggetto d’elezione di molti pittori d’oltralpe), e il minuscolo Interno del salotto di casa Bracken a Firenze, opera d’appena dodici centimetri per sette, ma sufficienti a descrivere con arguzia l’essenza del living room del diplomatico inglese William Stewart Egerton Bracken, trasferitosi con la moglie sulle rive dell’Arno per lavoro, e col quale Signorini entrò presto in confidenza, tanto da diventare abituale frequentatore della loro dimora.

La sesta sezione, dal carattere piuttosto interlocutorio, torna sul tema della luce dei macchiaioli, introducendo il pubblico alle novità tecniche sperimentate da Signorini e colleghi. In mostra, accanto alle sue opere, compaiono in questa saletta i dipinti di Raffaello Sernesi (Firenze, 1838 - Bolzano, 1866) e Vito D’Ancona (Pesaro, 1825 - Firenze, 1884): il primo si recava saltuariamente a Piagentina, senz’arrivare alla regolarità di Borrani e Lega, per dipingere assieme a Signorini, mentre il marchigiano conobbe Telemaco tra i tavoli del Caffè Michelangelo, che com’è noto fu uno dei più significativi luoghi di ritrovo dei macchiaioli, e lo introdusse al pensiero di Pierre-Joseph Proudhon. La vicinanza alle istanze proudhoniane che propugnavano l’importanza del ruolo sociale dell’arte non solo avvicinarono Signorini a un’arte che spesso si poneva dalla parte degli ultimi (l’Alzaia è l’esempio più famoso: l’opera tuttavia non è in mostra), ma in certo modo contribuì anche a modellare il suo approccio nei confronti della natura, dal momento che lo stesso Proudhon promuoveva l’importanza d’un’arte che restituisse la natura senza filtri e senza mediazioni accademiche. Così, quando Signorini presentò le sue opere alla mostra della Promotrice fiorentina del 1867, il grande critico Diego Martelli (Firenze, 1839 - Castiglioncello, 1896), che fu tra i principali sostenitori dei macchiaioli, lodò a gran voce la “freschissima impressione dal vero” di un “quadretto con cavalli attaccati ad un carro”, che Giuliano Matteucci ha proposto d’identificare con la tela Un mattino di primavera. Il muro bianco, pubblicata nel 1949 dal collezionista Mario Borgiotti e che figura tra quelle più esposte del pittore (non poteva dunque mancare neppure a Palazzo Antinori). Un dipinto equilibrato, dove protagonista è la luce mattutina che rischiara questo brano di campagna conferendo alla scena un’atmosfera quasi astratta, surreale, della quale Ettore Spalletti, che descrisse l’opera in un suo saggio nel 1994, apprezzava il muro bianco che, in orizzontale, “separa i piani compositivi, luminoso e compatto diaframma di riferimenti analogici davvero neoquattrocenteschi”. È invece inedita una Stradina toscana con figure che i curatori datano al 1874, al ritorno dell’artista da un soggiorno a Parigi, sottolineandone “le peculiarità dello stile, distinto da un tratto prezioso, sottilmente descrittivo, illuminato dalla potenza sorgiva della luce”: l’“indugio analitico” della tela è, suggeriscono i curatori, riflesso delle meditazioni che Signorini aveva compiuto in Francia sulla letteratura naturalista del tempo.

Il viaggio nella Firenze di fine Ottocento si conclude nelle ultime due sezioni della mostra: la settima prende avvio da una citazione di Henry James (New York, 1843 - Londra, 1916), che visitando il capoluogo toscano ebbe a definirlo una “città-gioiello”. Secondo i curatori, l’immagine di James corrisponde a quella elaborata da Signorini, il quale, scrivono, “ne considerava sacro e inviolabile il cuore urbano”, e per tale ragione si sarebbe schierato contro gli sventramenti dei nuovi piani urbanistici, così come aveva fatto Henry James che criticò l’apertura dei nuovi quartieri, in quanto responsabili della demolizione di ampie porzioni del cuore medievale della città. La questione si fa però piuttosto complessa in virtù del fatto che diverse zone del centro storico di Firenze (che negli anni Settanta dell’Ottocento contava circa centosettantamila abitanti) erano effettivamente malconce, malsane e malfamate: il riferimento, in particolare, è all’area del Ghetto ebraico e del Mercato Vecchio, divenute protagoniste della pittura di Signorini negli anni che immediatamente precedettero i vasti abbattimenti coi quali fu totalmente cancellato l’antico tessuto della zona. Le ragioni della salute pubblica e della lotta al degrado, alla fine, prevalsero sui sentimenti nostalgici di quanti desideravano preservare il quartiere: poté così partire la vasta operazione di risanamento prevista dal piano regolatore ideato nel 1866 e poi definitivamente approvato nel 1881, e il quartiere medievale si trasformò in un reticolo di vie ordinate che s’incrociavano ortogonali secondo i canoni più tipici dell’urbanistica ottocentesca (è l’area che corrisponde all’attuale piazza della Repubblica e vie adiacenti). Andarono perdute case antiche, edifici pubblici medievali, torri, chiese. Per quanto riguarda la posizione di Signorini, da una parte si può citare un ormai celebre aneddoto, riportato tra gli altri anche dallo storico Sergio Camerani (anche se non se ne rintraccia la fonte primaria), secondo il quale, a un giornalista che aveva chiesto al pittore perché piangesse “sulle porcherie che vanno giù”, l’artista avrebbe risposto “non piango tanto sulle porcherie che vanno giù, quanto sulle porcherie che vengono su” (c’è da considerare che la popolazione fu trasferita in quartieri più moderni e dalle condizioni igieniche migliori, e un pittore attento alle ambasce degli ultimi quale era Signorini avrà sicuramente preso in considerazione quest’aspetto), o si può parlare della poesia, resa nota nel 2008 da Silvio Balloni, che canta la distruzione (“ed ora, t’hanno ucciso i professori / Addio per sempre, povero Mercato / addio, tesoro d’arte, inesplorato”), mentre dall’altra parte si può interpretare la frequenza con cui compaiono, nella sua produzione dei primi anni Ottanta, il ghetto e il Mercato Vecchio, come una difesa di questa realtà destinata a scomparire. Queste immagini, rilevava lo storico dell’arte Paul Nicholls, avevano però anche un’altra funzione: quella d’immettere sul fiorente mercato inglese immagini della Firenze d’una volta, che incontravano particolare gradimento presso i clienti d’oltremanica (e in effetti l’intuizione di Signorini si rivelò particolarmente fortunata sul piano commerciale). Ecco quindi che Signorini diviene un privilegiato testimone della “Firenze com’era”: tra i poveri tetti delle case diroccate de Il Mercato Vecchio di Firenze spunta il profilo della cupola di Brunelleschi, la Via degli Speziali viene raffigurata nel suo aspetto antico, che niente ha a che vedere con l’attuale, e infine una tela inedita, di proprietà della Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze, ci consente d’inoltrarci in una strada fiancheggiata da edifici medievali demoliti nella metà degli anni Ottanta.

La vena sentimentale di Signorini si esprime tuttavia al meglio nei dipinti eseguiti durante le numerose escursioni nelle colline fuori Firenze, cui è dedicata l’ultima sezione della rassegna. Settignano diventa una delle mete preferite del pittore, che nel piccolo borgo collinare suburbano trovò un luogo ideale per studiare le variazioni d’atmosfera, secondo il modus operandi tipico di tanti pittori dell’epoca, impressionisti in testa (il pittore fiorentino fu il primo in Italia a cimentarsi nel genere). La mostra ne dà conto con due splendide vedute della piazza di Settignano eseguite in pendant, una dipinta in una giornata di pioggia, con le case che assumono tinte fosche e le insegne che si fanno meno leggibili, rabbuiate come sono dalla cupezza dell’atmosfera, e l’altra con i contorni chiaramente delineati dalla luce d’una giornata di cielo sereno. In questo filone s’inserisce anche l’ultima opera della mostra, una veduta di Limite sull’Arno, ameno borgo dell’Empolese, dove Signorini si dimostra aggiornato sugli esiti della contemporanea pittura europea con un’opera che si distingue per la capacità di descrivere con sensibile rapidità e con una pennellata sfrangiata e immediata un brano di campagna toscana. Nell’ultimo Signorini, la veduta sembra quasi diventare poesia.

Giovanni Fattori, Viale principe Amedeo a Firenze (1880-1881; olio su tela, 29,5 x 60 cm; Collezione privata)
Giovanni Fattori, Viale principe Amedeo a Firenze (1880-1881; olio su tela, 29,5 x 60 cm; Collezione privata)


Ruggero Panerai, The Paddock (1885; olio su tavola, 20 x 34 cm; Collezione privata)
Ruggero Panerai, The Paddock (1885; olio su tavola, 20 x 34 cm; Collezione privata)


Ruggero Panerai, Ponte Santa Trinita (1885 circa; olio su tela, 45 x 66 cm; Collezione privata)
Ruggero Panerai, Ponte Santa Trinita (1885 circa; olio su tela, 45 x 66 cm; Collezione privata)


Telemaco Signorini, Lezione di pianoforte (1868 circa; olio su tela, 18 x 22 cm; Collezione privata)
Telemaco Signorini, Lezione di pianoforte (1868 circa; olio su tela, 18 x 22 cm; Collezione privata)


Telemaco Signorini, Un mattino di primavera. Il muro bianco (1866 circa; olio su tela, 27,5 x 57 cm; Collezione privata)
Telemaco Signorini, Un mattino di primavera. Il muro bianco (1866 circa; olio su tela, 27,5 x 57 cm; Collezione privata)


Telemaco Signorini, Stradina toscana con figure (1874; olio su tela, 38 x 34,4 cm; Collezione privata)
Telemaco Signorini, Stradina toscana con figure (1874; olio su tela, 38 x 34,4 cm; Collezione privata)


Telemaco Signorini, Mercato Vecchio (1882-1883; olio su tela, 39 x 66 cm; Collezione privata)
Telemaco Signorini, Mercato Vecchio (1882-1883; olio su tela, 39 x 66 cm; Collezione privata)


Telemaco Signorini, Il Mercato Vecchio da via degli Speziali (1882 circa; olio su tela, 86 x 55 cm; Collezione privata)
Telemaco Signorini, Il Mercato Vecchio da via degli Speziali (1882 circa; olio su tela, 86 x 55 cm; Collezione privata)


Telemaco Signorini, Scorcio di strada nel centro storico di Firenze (1880 circa; olio su tavola, 31 x 19 cm; Firenze; Fondazione CR Firenze)
Telemaco Signorini, Scorcio di strada nel centro storico di Firenze (1880 circa; olio su tavola, 31 x 19 cm; Firenze; Fondazione CR Firenze)


Telemaco Signorini, La piazzetta di Settignano in una giornata di pioggia, dettaglio (1881 circa; olio su tela, 36 x 51,4 cm; Collezione privata)
Telemaco Signorini, La piazzetta di Settignano in una giornata di pioggia, dettaglio (1881 circa; olio su tela, 36 x 51,4 cm; Collezione privata)


Telemaco Signorini, Piazza a Settignano, dettaglio (1881 circa; olio su tela, 32,8 x 53 cm; Collezione privata)
Telemaco Signorini, Piazza a Settignano, dettaglio (1881 circa; olio su tela, 32,8 x 53 cm; Collezione privata)


Telemaco Signorini, Limite sull'Arno (1890 circa; olio su cartone, 40 x 50 cm; Collezione privata)
Telemaco Signorini, Limite sull’Arno (1890 circa; olio su cartone, 40 x 50 cm; Collezione privata)

Nella lunga storia espositiva legata a Telemaco Signorini mancava un focus dedicato all’immagine di Firenze che si sviluppò nella sua arte, a partire dai risultati raggiunti dal padre, anche per il fatto che, se si escludono le mostre di disegni, le monografiche a lui dedicate hanno tutte avuto un carattere meramente ricognitivo (togliendo, ovviamente, le mostre-omaggio che gli sono state dedicate nei primi decennî del Novecento). Occasioni importanti, che hanno permesso alla critica una precisa ricostruzione del profilo artistico del pittore fiorentino. Occorre in particolare ricordare, oltre alla già ampiamente citata mostra padovana del 2009, l’esposizione di Montecatini del 1987, a cura di Piero Dini, e quella di Palazzo Pitti del 1997, curata da Francesca Dini, Giuliano Matteucci, Raffaele Monti, Giovanna Pistone ed Ettore Spalletti: fu a cavallo tra questi anni che si ripercorse per la prima volta la produzione del grande macchiaiolo secondo una prospettiva eminentemente scientifica. S’aggiunga poi che tali mostre erano inquadrate nell’ambito d’una “riscoperta” dei macchiaioli che s’espresse attraverso una lunga serie di mostre succedutesi a partire dagli anni Sessanta (particolare rilevanza rivestirono, in tal senso, gli studî di Dario Durbè e di Paul Nicholls), e che i risultati raggiunti dalle monografiche su Signorini sarebbero stati confermati e ampliati con l’evento del 2009. Se dunque il discorso critico su Signorini era già piuttosto assestato (e una nuova mostra avrebbe aggiunto poco), la rassegna di Palazzo Antinori riesce comunque ad avere un suo carattere d’originalità, distinguendosi per aver focalizzato l’attenzione sul rapporto tra i Signorini e la ciottà, per un’ulteriore indagine sulla figura di Giovanni che si sostanzia in un denso contributo di Silvestra Bietoletti, per aver approfondito i rapporti che legarono padre e figlio agli ambienti culturali del loro tempo (gran parte del lungo saggio di Elisabetta Matteucci è dedicato a questo argomento: vengono ripercorse anche le singole storie dei committenti e degli amici di Signorini), per aver esaminato, grazie anche alle opere inedite, il loro lavoro in una prospettiva più allargata, e per aver ulteriormente sottolineato la dimensione europea della loro arte. E ora non rimane che attendere la pubblicazione del carteggio recentemente scoperto.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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