I disegni delle spettacolari scenografie architettoniche barocche tra Roma e le Fiandre


Recensione della mostra Alla luce di Roma. I disegni scenografici di scultori fiamminghi e il Barocco romano, fino al 26 febbraio 2017.

Documentare il modo in cui il gusto barocco romano si diffuse, nel corso del Seicento (ma anche oltre) e con riguardo ai campi della scultura e dell’architettura, nei Paesi Bassi meridionali, territorio corrispondente all’incirca all’odierno Belgio: potremmo riassumere in questi termini il contributo che la mostra Alla luce di Roma. I disegni scenografici di scultori fiamminghi e il Barocco romano (a Roma, presso l’Istituto Centrale per la Grafica, a cura di Charles Bossu, Wouter Bracke, Alain Jacobs, Sara Lambeau e Chiara Leporati) intende offrire nell’ambito di un campo di studi ancora piuttosto giovane, ma divenuto negli ultimi anni oggetto di particolari attenzioni da parte degli specialisti, tanto che la mostra stessa si colloca nel più ampio quadro di una serie di ricerche volte ad approfondire i legami tra gli scultori fiamminghi e la Roma barocca. Ciò nondimeno mancava, come sottolinea nel catalogo Alain Jacobs, “un evento-faro per suscitare e cristallizzare in maniera duratura l’interesse a livello internazionale”: dunque, il modo migliore per suscitare tale interesse era partire proprio da Roma, con una mostra di elevatissimo spessore scientifico, capace di radunare molti esperti di arte barocca (impressionante il volume dei contributi nell’ampio catalogo), di coinvolgere numerosi enti nella realizzazione del progetto, di proporre novità e scoperte (sono stati rinvenuti, per esempio, interessanti documenti sull’attività di molti degli artisti in mostra, e sono stati esposti e pubblicati alcuni disegni inediti).

La prima sala di "Alla luce di Roma"
La prima sala di “Alla luce di Roma”

Come si può facilmente intuire dal titolo, si tratta di una mostra in prevalenza di disegni: non è pertanto una di quelle esposizioni in grado di esercitare una particolare presa sul grande pubblico. Non scopriamo certo oggi che le mostre di grafica facciano un po’ di fatica a proporsi a un pubblico diverso rispetto a quello degli specialisti, degli addetti ai lavori o degli appassionati. Nel caso di Alla luce di Roma, tuttavia, sussistono gli elementi necessari per far sì che l’esposizione riesca a raggiungere anche un pubblico più ampio: sono esposti oltre cento disegni (tutti di grandissima qualità e provenienti da diversi istituti), ci sono nomi di primo piano tra cui, per esempio, quello di Pieter Paul Rubens, di cui la mostra espone un progetto per l’altare maggiore della chiesa dei Gesuiti di Anversa, e quello di Gian Lorenzo Bernini, presente con un disegno piuttosto insolito (un macabro Scheletro alato che sorregge una piramide, probabilmente uno studio preliminare per il catafalco eretto in memoria del duca di Beaufort in santa Maria in Aracoeli), e soprattutto c’è un progetto pensato anche in termini divulgativi. La mostra, che occupa tre sale, si articola infatti in cinque sezioni tematiche, chiaramente distinte ma ben legate tra loro da un filo rosso continuo (quello degli interscambi tra il barocco romano e il nascente barocco fiammingo).

Gian Lorenzo Bernini, Scheletro alato che sorregge una piramide
Gian Lorenzo Bernini, Scheletro alato che sorregge una piramide (1669; penna, inchiostrro bruno e acquerello bruno su carta bianca, 20 x 13,3 cm; Roma, Istituto Centrale per la Grafica)


La terza sala di "Alla luce di Roma"
La terza sala di “Alla luce di Roma”

La prima delle cinque sezioni è dedicata alla scenografia barocca: nella prima sala sono dunque esposti disegni che dimostrano come anche nelle Fiandre fossero stati adottati gli apparati tipici dell’arte romana del tempo. Una vera “romanizzazione” delle chiese fiamminghe che poté verificarsi grazie a due circostanze determinanti. La prima: il diffondersi, nel Belgio, della controriforma e, di conseguenza, della liturgia romana. I Paesi Bassi, verso la metà del Cinquecento, furono teatro di forti scontri religiosi: ci interessa tuttavia sapere, in particolare, che nel 1579 le province meridionali (quelle che, grosso modo, corrispondono all’attuale Belgio) si dichiararono fedeli a Filippo II di Spagna e scelsero, in sostanza, di rimanere cattoliche, con la conseguenza che nelle Fiandre furono adottati i riti tridentini e che, a partire dal 1596, la Chiesa stabilì che anche a Bruxelles ci fosse un nunzio apostolico. “Questo processo di tridentinizzazione dei Paesi Bassi”, spiegano Ralph Dekoninck e Annick Delfosse in uno dei saggi a catalogo, “contribuì a rinforzare l’identità intrinsecamente cattolica che le province meridionali avevano forgiato come reazione alle rivendicazioni calviniste del nord”. La seconda circostanza che favorì il diffondersi della “romanizzazione” fu invece la possibilità che una folta schiera di artisti, provenienti da tutte le città fiamminghe, ebbe di soggiornare a Roma: gli artisti, a contatto con le impressionanti novità dell’arte locale, finirono con l’adeguare il proprio stile alle nuove istanze. E questo fiorire di sontuosi e scenografici altari votati alla retorica e alla spettacolarità è adeguatamente testimoniato dai fogli esposti nella prima sala.

Tra i primi fiamminghi a soggiornare in Italia ci fu Pieter Huyssens (Bruges, 1577 - 1637): il suo Progetto per l’altare maggiore della chiesa dei Gesuiti di Anversa, messo a confronto con l’omologo foglio di Rubens citato poco sopra (benché nessuno dei due fosse stato poi seguito nell’esecuzione finale), evidenzia quali fossero le caratteristiche del barocco romano entrate a pieno titolo anche nella cultura figurativa fiamminga. Frontoni spezzati, volute arzigogolate, colonne tortili, trabeazioni con rientranze: lo stesso esuberante lessico degli edifici di culto romani. Gli esempi sono numerosi: un Interno di una chiesa con un monumento, opera di Hendrik Frans Verbrugghen (Anversa, 1654 - 1724) propone un tipo di monumento tipicamente romano, quello inserito in una grande nicchia (che riprende, per esempio, quelli della Basilica di San Pietro), totalmente alieno alla cultura dei Paesi Bassi fiamminghi, e sempre di Verbrugghen un Progetto per l’altare e la decorazione della chiesa dei Gesuiti di Utrecht richiama inequivocabilmente, col soffitto che si apre illusionisticamente su una visione divina, la volta della Chiesa del Gesù affrescata dal Baciccio, e ancora un ulteriore foglio dello stesso Verbrugghen, un Progetto per l’altare della corporazione di San Luca nella Cattedrale di Nostra Signora di Anversa, s’ispira alla berniniana cappella Fonseca in San Lorenzo in Lucina a Roma.

A sinistra: Pieter Huyssens, Progetto per l'altare maggiore della chiesa dei Gesuiti di Anversa. A destra: Pieter Paul Rubens, Progetto per l'altare maggiore della chiesa dei Gesuiti di Anversa
A sinistra: Pieter Huyssens, Progetto per l’altare maggiore della chiesa dei Gesuiti di Anversa (1621; pietra nera, penna e inchiostro nero acquerellato, sanguigna su vari frammenti di carta assemblati, 110 x 52,5 cm; Anversa, Plantin-Moretusmuseum, Gabinetto delle Stampe). A destra: Pieter Paul Rubens, Progetto per l’altare maggiore della chiesa dei Gesuiti di Anversa (1621; matita, penna e inchiostro bruno su carta, 51,9 x 26,1 cm; Vienna, Graphische Sammlung Albertina)


Hendrik Frans Verbrugghen, Progetto per l'altare e la decorazione della chiesa dei Gesuiti di Utrecht
Hendrik Frans Verbrugghen, Progetto per l’altare e la decorazione della chiesa dei Gesuiti di Utrecht (1701; penna e acquerello bruno su carta, 20,7 x 16,7 cm; Anversa, Plantin-Moretusmuseum, Gabinetto delle Stampe)


Hendrik Frans Verbrugghen, Progetto per l'altare della corporazione di San Luca nella Cattedrale di Nostra Signora di Anversa
Hendrik Frans Verbrugghen, Progetto per l’altare della corporazione di San Luca nella Cattedrale di Nostra Signora di Anversa (penna e inchiostro bruno e grigio acquerellato e acquerello bruno su carta, 55,2 x 30,9 cm; Anversa, Plantin-Moretusmuseum, Gabinetto delle Stampe)

Tutti questi elementi sarebbero stati poi elaborati in fantasiose soluzioni utilizzate per quelli che probabilmente erano i due principali elementi delle chiese fiamminghe: i pulpiti e i confessionali, per i quali gli scultori fiamminghi idearono soluzioni che, quanto a stranezza e fantasia, spesso si spingevano ben oltre i limiti fissati dagli artisti italiani. Il perché è presto detto: il pulpito, elemento sul quale il sacerdote era tenuto a salire per rivolgere la propria predica ai fedeli, con un apparato scenico di forte impatto avrebbe corroborato il messaggio del prete, che doveva arrivare forte e chiaro in una zona che, al contrario dell’Italia, era in costante e stretto contatto con le istanze riformate, dalle quali i cattolici andavano tenuti ben lontani. Lo stesso discorso vale per i confessionali: il sacramento della penitenza (o della “confessione”) è assente nel cristianesimo protestante, e mostrare ai fedeli confessionali magnifici e pomposi significava affermare la potenza della Chiesa cattolica. Nella seconda sezione della mostra (che occupa per intero la seconda sala) sono esposti in sequenza tre incredibili studi di Theodoor Verhaegen (Malines, 1700 - 1759) che ci mostrano fino a che punto potesse spingersi la bizzarria di certi scultori: il progetto per il pulpito della chiesa di Santa Caterina a Malines è immaginato come un’architettura in rovina, coperta da un tetto di paglia sotto a cui trova accoglienza un gruppo scultoreo raffigurante la Sacra Famiglia e sopra al quale una grande nuvola attorniata da angeli e cherubini scorta l’apparizione dello Spirito Santo che diffonde luce ovunque. Impressionante anche il progetto per un pulpito con Gesù che insegna agli apostoli, una sorta di architettura in forma di boschetto sulla quale svetta una sfera armillare accompagnata da due angeli e al di sotto della quale notiamo la statua di Cristo che predica assieme agli apostoli che si dispongono attorno a lui.

Theodoor Verhaegen, Progetto per il pulpito della chiesa di Santa Caterina a Malines
Theodoor Verhaegen, Progetto per il pulpito della chiesa di Santa Caterina a Malines (penna e inchiostro nero e acquerello grigio su carta, 68,2 x 43 cm; Anversa, Plantin-Moretusmuseum, Gabinetto delle Stampe)


Theodoor Verhaegen, Progetto per un pulpito con Gesù che insegna agli apostoli
Theodoor Verhaegen, Progetto per un pulpito con Gesù che insegna agli apostoli (penna e inchiostro nero e acquerello grigio su carta, 56,3 x 33,4 cm; Anversa, Plantin-Moretusmuseum, Gabinetto delle Stampe)

I rapporti tra gli scultori fiamminghi e quelli italiani sono inoltre indagati da una cospicua serie di studi che gli artisti provenienti dalle Fiandre ricavarono analizzando le opere dei loro colleghi italiani. Questa continua opera d’analisi consentì ai fiamminghi di aggiornare in modo determinante la loro arte, abbandonando la “ieraticità ereditata dal Manierismo nordico in favore di un’interpretazione più naturalistica nella resa del corpo umano e nella disposizione ritmica dei movimenti”. È interessante notare come gli artisti fossero pervenuti alla conoscenza dell’arte italiana in due modi: soggiornando direttamente in Italia, oppure studiando disegni e incisioni di artisti che erano stati in Italia. Al primo caso appartengono artisti come Robert Henrard (Dinant, 1615 circa - Liegi 1676), che in mostra è presente con un interessante disegno che copia il Sant’Andrea di François Duquesnoy, uno dei primi (nonché forse il più famoso) tra gli scultori fiamminghi che soggiornarono in Italia, oppure Pieter I Verbruggen (1615 - Anversa, 1686) la cui composizione per un gruppo raffigurante Borea e Orizia riprende il Ratto di Proserpina di Bernini. Della seconda schiera fa invece parte, oltre all’Hendrik Frans Verbrugghen di cui s’è ampiamente detto sopra (che non fu mai in Italia ma, paradossalmente, diventò uno dei fiamminghi più “italiani”), Jan Claudius de Cock (Bruxelles, 1667 - Anversa, 1735), presente in mostra con un Apollo e Dafne d’ispirazione, anche in questo caso, chiaramente berniniana (de Cock studiò sulle incisioni il celebre gruppo oggi alla Galleria Borghese).

Pieter I Verbruggen, Borea e Orizia
Pieter I Verbruggen, Borea e Orizia (matita, penna e inchiostro nero, acquerello grigio e sanguigna su carta, 21,6 x 13,5 cm; Anversa, Plantin-Moretusmuseum, Gabinetto delle Stampe)


Jan Claudius de Cock, Apollo e Dafne
Jan Claudius de Cock, Apollo e Dafne (1699; penna e inchiostro bruno e sanguigna su carta, 17,5 x 15,3 cm; Anversa, Plantin-Moretusmuseum, Gabinetto delle Stampe)

La terza e ultima sala ospita le rimanenti tre sezioni: i temi affrontati sono la festa barocca, la morte e i catafalchi. La festa è analizzata e delineata in tutte le sue declinazioni, ma è soprattutto la fattispecie del trionfo che divenne particolarmente congeniale agli scultori e agli architetti fiamminghi, capaci di progettare i più scenografici ed elaborati apparati che dovevano accompagnare l’ingresso di principi e sovrani nelle città delle Fiandre. Di particolare pregio è la Tribuna per l’ingresso trionfale dell’imperatore Carlo VI a Bruxelles, ideata da Pieter I van Baurscheit (Wormersdorf, 1669 - Anversa, 1728) e da suo figlio Pieter II (Anversa, 1699 - 1768), che pensarono a un grande teatro da piazzare nella centralissima place des Bailles di Bruxelles: rifacendosi a quello che i curatori individuano come l’archetipo di queste tribune, ovvero il teatro che Rubens ideò nel 1635 per l’ingresso di Ferdinando d’Austria ad Anversa, van Baurscheit padre e figlio svilupparono la tribuna in forma di colonnato, ponendo il trono destinato all’imperatore sotto un imponente arco sovrastato da un’edicola recante simboli legati all’avvenimento. La fantasia degli scultori fiamminghi trovava poi sfogo in altri tipi di realizzazioni: carri da parata, come quelli che il succitato Verbrugghen progettò nel 1718 per l’ommegang (una sorta di corteo che a sua volta si articolava in una processione religiosa e in una laica) di Anversa di quell’anno, archi di trionfo, teatri provvisori, e via dicendo.

Pieter I e Pieter II van Baurscheit, Tribuna per l'ingresso trionfale dell'imperatore Carlo VI a Bruxelles
Pieter I e Pieter II van Baurscheit, Tribuna per l’ingresso trionfale dell’imperatore Carlo VI a Bruxelles (1718; matita, penna e inchiostro nero, acquerello e inchiostro grigio su carta, 51 x 13,35 cm; Bruxelles, Museum van de Stad/Musée de la Ville)


Hendrik Frans Verbrugghen, Progetto per il carrlo La Montagna delle Vergini per l'Ommegang di Anversa del 1718
Hendrik Frans Verbrugghen, Progetto per il carrlo La Montagna delle Vergini per l’Ommegang di Anversa del 1718 (1718; matita, penna e inchiostro bruno, sanguigna su carta, 42,3 x 36,4 cm; Anversa, Plantin-Moretusmuseum, Gabinetto delle Stampe)

Il grande spettacolo barocco non poté non coinvolgere uno dei temi portanti del cristianesimo, quello della morte, col suo carico di timore per il suo sopraggiungere e al contempo di speranza in quanto momento di passaggio verso una vita eterna in paradiso. Accanto a opere in cui l’elemento macabro è preponderante (un capolavoro in tal senso è il Progetto per un candelabro funerario monumentale attribuito a Gaspar Melchior Moens: le candele poggiano su una base sostenuta da due scheletri chinati, che meditano piangendo, e sormontata da due falci incrociate che coronano tutta la struttura a mo’ di bandiere) ne troviamo altre dove la morte, pur presente, è vinta da Cristo: è il caso, per esempio, del Progetto per un monumento funerario con la Resurrezione di Cristo di Pieter II Verbruggen (Anversa, 1648 - 1691) dove i due soldati che fanno la guardia al sepolcro di Gesù, simbolo di morte, vedono quest’ultimo divelto dalla forza di Cristo che ne esce risorgendo e ascendendo verso il cielo. L’idea del “trionfo sulla morte”, più che quella del “trionfo della morte” (così Marcello Fagiolo in un saggio a catalogo), è quella che anima i grandi progetti per i monumenti funebri, spesso progettati nella forma di solenni catafalchi, che potevano essere eretti in modo provvisorio o definitivo: a Roma venivano realizzati in onore dei papi, mentre nei Paesi Bassi erano destinati a celebrare principi e sovrani. E se non mancano catafalchi sulla cui sommità svettano i simboli della morte (come quello che Wenzel Hollar progettò per il principe Baltasar Carlos, figlio di Filippo IV di Spagna, coronato da uno scheletro che regge una falce e un cipresso) ne esistono anche diversi in cui gli elementi lugubri sono comunque presenti (anche come memento mori: il fedele deve sapere che prima o poi arriverà il suo momento), ma devono, appunto, soccombere di fronte al trionfo sulla morte: è il caso del Progetto per il catafalco di Maria Elisabetta governatrice generale dei Paesi Bassi, opera in cui l’autore, ancora Moens (Anversa, 1698 - 1742) collocò al di sopra di tutta la struttura un’aquila cavalcata da un putto (l’aquila è animale associato all’ascesa verso il paradiso).

Gaspar Melchior Moens (attribuito a), Progetto per un candelabro funerario monumentale
Gaspar Melchior Moens (attribuito a), Progetto per un candelabro funerario monumentale (1744; penna e acquerello bruno, acquerello grigio su carta, 32,1 x 19 cm; Anversa, Plantin-Moretusmuseum, Gabinetto delle Stampe)


Pieter II Verbruggen, Progetto per un monumento funerario con la Resurrezione di Cristo
Pieter II Verbruggen, Progetto per un monumento funerario con la Resurrezione di Cristo (pietra nera, penna e inchiostro bruno, inchiostro bruno e grigio acquerellato e sanguigna su carta, 29,2 x 18,3 cm; Anversa, Plantin-Moretusmuseum, Gabinetto delle Stampe)


Gaspar Melchior Moens, Progetto per il catafalco di Maria Elisabetta governatrice generale dei Paesi Bassi
Gaspar Melchior Moens, Progetto per il catafalco di Maria Elisabetta governatrice generale dei Paesi Bassi (1741; matita, penna e inchiostro bruno e acquerello grigio e nero su carta, 32,3 x 18,9 cm; Anversa, Plantin-Moretusmuseum, Gabinetto delle Stampe)

Alla luce di Roma è, insomma, un ottimo esempio di come dovrebbe essere organizzata e allestita una mostra di grafica. Un percorso coerente, inappuntabile dal punto di vista scientifico e buono anche per l’aspetto divulgativo (se vogliamo cercare il pelo nell’uovo, forse avremmo anticipato il tutto con premesse più ampie per fornire al pubblico maggiori indicazioni sul contesto di riferimento), un catalogo trilingue (con saggi in italiano, francese e inglese), ricco e corposo, che siamo sicuri diventerà un imprescindibile punto di riferimento per gli studi sui rapporti tra Italia e Fiandre in età barocca. Riguardo al catalogo, ci preme sottolineare un aspetto particolare, apparentemente di poco conto ma che in realtà denota una cura meticolosa nei confronti del lavoro e premura nei confronti del lettore, ovvero il fatto che è dotato di un indice dei nomi, strumento troppo spesso trascurato ma che in un catalogo scientifico è sempre molto utile. Da non trascurare, infine, il fatto che la mostra è frutto di un buon dialogo tra istituzioni pubbliche (Academia Belgica, Ministero dei Beni Culturali, Istituto Centrale per la Grafica), che si è rivelato particolarmente intelligente: un plauso quindi a quanti lo hanno reso possibile.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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