Giulio Romano, Correggio, Bonsignori: uno straordinario ritorno. La mostra sul Cinquecento a Polirone


Recensione della mostra “Il Cinquecento a Polirone. Da Correggio a Giulio Romano”, a San Benedetto Po, Refettorio e Basilica Polironiana, dal 14 settembre 2019 al 6 gennaio 2020.

A catturare lo sguardo nel Refettorio Grande del complesso monastico di San Benedetto Po è senza dubbio il Cenacolo di Girolamo Bonsignori (Verona, 1472 – Mantova, 1529), monumentale opera che ha fatto ritorno dopo oltre due secoli nella sua sede originaria. Un evento che ha entusiasmato i cittadini del borgo della bassa mantovana, poiché capolavoro che sintetizza un importante pezzo di storia della comunità polironiana, ma che ha attirato visitatori da ogni parte d’Italia in occasione della mostra di cui il grande dipinto è divenuto protagonista, Il Cinquecento a Polirone. Da Correggio a Giulio Romano, e soprattutto ha dato il via a un rinnovato interesse per studi e analisi su opere legate al territorio.

Il progetto espositivo rientra nell’ambito delle celebrazioni che Mantova ha voluto dedicare a uno degli artisti che più hanno dato il loro contributo artistico alla città, Giulio Romano (Roma, 1499 circa – Mantova, 1546), l’allievo di Raffaello (dell’urbinate ricorrono i cinquecento anni dalla sua scomparsa) universalmente noto per aver realizzato nel mantovano Palazzo Te uno dei più suggestivi e impressionanti ambienti del Manierismo e di tutta la storia dell’arte italiana, la Camera dei Giganti. L’artista è omaggiato con ben due mostre, a Palazzo Ducale e a Palazzo Te, e come già affermato con la rassegna di San Benedetto Po, poiché egli fu artefice del rinnovamento del complesso polironiano nel corso del Cinquecento.

Con netto distacco dalle mostre blockbuster, il curatore Paolo Bertelli ha ribadito nell’introduzione del catalogo dell’esposizione che Il Cinquecento al Polirone è “l’occasione per San Benedetto Po di riappropriarsi una volta di più del suo passato, di superare limiti e confini, creando ponti e legami, di operare recuperi di opere d’arte e restauri”. Un’opportunità per avviare una nuova stagione di studî, come quella che è avvenuta nel 1989, in concomitanza della rassegna Dal Correggio a Giulio Romano. La committenza di Gregorio Cortese, titolo che tra l’altro si riallaccia al sottotitolo dell’attuale esposizione, e del relativo volume curato da Paolo Piva ed Egidio Del Canto. Negli intenti del curatore Bertelli c’era una mostra con alla base studio, divulgazione, accoglienza e proposizione. E in effetti questa ha condotto “al rinnovamento dell’allestimento del Refettorio Grande, alla valorizzazione e alla riscoperta di molte opere, a una campagna di analisi non invasive sui dipinti, a uno studio degli apparati tessili, al restauro di alcune opere esposte e alla pubblicazione di un volume dedicato”, nonché al ritorno del Cenacolo di Bonsignori.

Mostra Il Cinquecento a Polirone, San Benedetto Po
Mostra Il Cinquecento a Polirone, San Benedetto Po


Mostra Il Cinquecento a Polirone, San Benedetto Po
Mostra Il Cinquecento a Polirone, San Benedetto Po


Mostra Il Cinquecento a Polirone, San Benedetto Po
Mostra Il Cinquecento a Polirone, San Benedetto Po


Mostra Il Cinquecento a Polirone, San Benedetto Po
Mostra Il Cinquecento a Polirone, San Benedetto Po

Il sottotitolo della mostra, Da Correggio a Giulio Romano, rende esplicita l’idea del percorso espositivo compiuto, manifestando gli estremi (nel senso letterale del termine) dell’allestimento stesso: sulla parete di fondo campeggia l’affresco attribuito ad Antonio Allegri, detto il Correggio (Correggio, 1489 circa –1534), benché ci sia chi dice che sia stato realizzato anch’esso da Bonsignori: l’affresco fa da cornice all’imponente Cenacolo. Del Correggio è anche la splendida anta d’organo che ha fatto ritorno in questi luoghi dopo tanto tempo, mentre la prima opera che dà il via alla rassegna è un Ritratto di Giulio Romano attribuito a Federico Zuccari (Sant’Angelo in Vado, 1540 circa – Ancona, 1609).

Quest’ultimo, realizzato ad acquerello, rimanda al ritratto conservato a Palazzo Te che Tiziano (Pieve di Cadore, 1488/1490 – Venezia, 1576) eseguì tra il 1536 e il 1538, e dove Giulio Romano è raffigurato come architetto di corte mentre mostra allo spettatore il progetto di un edificio ancora oggi non identificato. A differenza del ritratto tizianesco, l’opera in mostra rappresenta solo il primo piano dell’artista, fino alle spalle, con una luce chiara e tenue lontana dal suo modello.

Accanto al ritratto, è testimoniato con un contratto l’accordo stipulato il “dì 3 de zenaro 1541” tramite cui “messer Iulio Romano promette, et obliga al monastero de Sancto Benedecto de Mantua far li sei quadri”: sei pale d’altare, cinque per le cappelle laterali e una per l’altare maggiore, da realizzare entro due anni. Le pale avrebbero dovuto essere dipinte di sua mano, mettendo in pratica tutta la sua abilità e i suoi studi, ma le uniche ancone rimaste di queste sono state eseguite, almeno parzialmente, nella sua bottega, in particolare da Fermo Ghisoni (Caravaggio, 1505 – Mantova, 1575). Sono qui esposte quindi L’incontro della Vergine con santa Elisabetta alla presenza dei santi Giustina, Gioacchino, Giuseppe e Scolastica, l’Incoronazione della Vergine con i santi Placido e Mauro, e la Madonna col Bambino tra i santi Ambrogio e Bernardo. Ghisoni realizzò inoltre, in collaborazione con Girolamo Mazzola Bedoli (Parma, 1500 circa – 1569), la pala dell’altare maggiore raffigurante l’Adorazione dei Magi, oggi conservata al Louvre a seguito delle spoliazioni napoleoniche; a questo gruppo sarebbe da aggiungere inoltre il San Pietro modicae fidei, presente in esposizione, attribuito anch’esso alla bottega di Giulio Pippi, detto Giulio Romano. Secondo queste testimonianze pittoriche perciò l’accordo non venne rispettato formalmente e i visitatori ne possono prendere atto di fronte alle uniche opere scaturite dal contratto. Tuttavia sono opere sulla cui attribuzione si è discusso a causa delle condizioni abbastanza precarie in cui si trovavano prima del recente restauro, soprattutto per quanto riguarda l’Incontro; ancora in attesa di restauro, come si può notare nella parte inferiore del dipinto e nelle vesti di Maria e Cristo, è invece l’Incoronazione, oggi custodita nella chiesa di Ognissanti di Mantova, ma risulta evidente nella postura e nel volto di Maria il rimando alla Madonna raffigurata tra i santi Ambrogio e Bernardo e l’influenza, come afferma il curatore, dell’Incoronazione della Vergine del Correggio per il gruppo centrale. Il San Pietro salvato dalle acque è oggetto di un dibattito cronologico: da tempo viene considerato copia tardosettecentesca di un originale di Giulio Romano, ma dalle indagini diagnostiche sono stati scoperti pentimenti (la cui presenza metterebbe in dubbio il fatto di trovarsi di fronte a una copia) e un tovagliato cinquecentesco come supporto. La tela si farebbe risalire quindi al 1542 circa.

Accordo tra il monastero di San Benedetto in Polirone e Giulio Romano per l'esecuzione di sei ancone d'altare (3 gennaio 1541; penna e inchiostro su carta, 210 x 285 mm; Mantova, Archivio di Stato)
Accordo tra il monastero di San Benedetto in Polirone e Giulio Romano per l’esecuzione di sei ancone d’altare (3 gennaio 1541; penna e inchiostro su carta, 210 x 285 mm; Mantova, Archivio di Stato)


Fermo Ghisoni, L'incontro della Vergine con santa Elisabetta alla presenza dei santi Giustina, Gioacchino, Giuseppe e Scolastica (1542 circa; olio su tela, 288 x 176 cm; San Benedetto Po, Basilica)
Fermo Ghisoni, L’incontro della Vergine con santa Elisabetta alla presenza dei santi Giustina, Gioacchino, Giuseppe e Scolastica (1542 circa; olio su tela, 288 x 176 cm; San Benedetto Po, Basilica)


Fermo Ghisoni, Incoronazione della Vergine con i santi Placido e Mauro (1542 circa; olio su tela centinata, 315 x 175 cm; Mantova, chiesa di Ognissanti)
Fermo Ghisoni, Incoronazione della Vergine con i santi Placido e Mauro (1542 circa; olio su tela centinata, 315 x 175 cm; Mantova, chiesa di Ognissanti)


Fermo Ghisoni, Madonna col Bambino tra i santi Ambrogio e Bernardo (1542 circa; olio su tela, 295 x 190 cm; San Benedetto Po, Basilica)
Fermo Ghisoni, Madonna col Bambino tra i santi Ambrogio e Bernardo (1542 circa; olio su tela, 295 x 190 cm; San Benedetto Po, Basilica)

Altro contratto esposto in mostra grazie al prestito dell’Archivio di Stato di Mantova è quello stipulato in data 8 settembre 1514 tra il Correggio e Benedetto da Cremona, reverendo della basilica di San Benedetto Po: secondo quanto scritto nel documento, testimonianza di grande importanza per l’attività dell’Allegri nel complesso polironiano, il Correggio si impegnava a dipingere le ante e il podium, ovvero la balconata, dell’organo della chiesa abbaziale entro la Pasqua successiva, l’8 aprile 1515. Anche in questo caso ci è pervenuta solo parte di queste opere stipulate, poiché della balconata e di un’anta raffigurante Mosè con l’arca si sono perse le tracce, mentre in occasione della rassegna è tornata nel suo luogo d’origine l’altra anta d’organo, quella che rappresenta David che riporta l’Arca santa a Gerusalemme, appartenente a collezione privata torinese. Un ulteriore orgoglio per la cittadinanza. D’ispirazione mantegnesca, la tela è stata attribuita al Correggio da Giovanni Romano tra il 1997 e 1998.

In primo piano il corteo segue Davide che stringe a sé l’Arca Santa: è notevole il rimando iconografico al Trionfo di Cesare di Andrea Mantegna (Isola di Carturo, 1431 – Mantova, 1506) della Royal Collection. David Ekserdjian nel suo saggio del catalogo approfondisce, partendo proprio dall’anta dell’organo, l’attività polironiana di Antonio Allegri: si hanno testimonianze del ruolo fondamentale che ebbe Mantova per gli inizi della sua carriera (si pensi agli affreschi nella cappella funeraria di Mantegna all’interno della chiesa di Sant’Andrea). Nella città realizzò due tele per lo Studiolo di Isabella d’Este e anche i committenti di alcuni celebri capolavori sono legati a Mantova: l’Educazione di Amore della National Gallery e Venere, Cupido e un satiro del Louvre per il conte Nicola Maffei, molto vicino a Federico II Gonzaga, e fu proprio Federico a commissionare gli Amori di Giove come omaggio a Carlo V di Spagna.

Nella Storia Pittorica di Lanzi si parla dei “giovani Mantegni”e in particolare di un Carlo del Mantegna: “Credesi che Carlo avesse parte ne’ lavori del palazzo e della cappella riferiti di sopra”, ovvero la cappella funeraria del Mantegna, “e in altri che si ascrivono a’ mantegnesi; fra’ quali sono due istorie dell’Arca nel monistero di San Benedetto di Mantova, ove si rivede la maniera di Andrea ampliata alquanto, anchorché di forme men belle”. In realtà quel Carlo del Mantegna, di cui non se ne conosce l’esistenza, era con ogni probabilità Correggio, date le coincidenze. Comunque l’artista raffigurò come già affermato il corteo con due buoi che tirano il carro sul quale è collocata l’arca dell’alleanza; sulla sinistra, Davide con la corona sul capo e tra le mani un salterio, sulla destra un uomo abbigliato da sacerdote ebraico guarda dietro di sé e tiene un rotolo di pergamena e un’asta fiorita; dietro a entrambi, persone suonano strumenti a fiato.

L’anta d’organo è posta a diretto confronto con il grande affresco sulla parete di fondo del Refettorio Grande, quasi per partecipare alla discussa questione attributiva che oscilla ancora tra Correggio e Girolamo Bonsignori, stesso artista che realizzò l’Ultima Cena accolta nell’affresco. Giuseppe Adani, nella scheda dell’opera, ricorda che Gregorio Cortese, vice-abate, accompagnò nel 1513 il Correggio a Roma per studio e aggiornamento, dopo che il monastero polironiano aveva già acquisito il Cenacolo di Bonsignori, e insieme progettarono il tema dell’affresco: un imponente tempio alla maniera del tempio di Salomone e con un’ispirazione bramantesca, dove l’artista erige colonne, capitelli, volte, cupole; all’interno di quest’architettura introduce profeti, figure dell’Antico Testamento, personaggi pagani, sibille. Ai lati del Cenacolo, sono raffigurati in due monocromi simili a statue Abramo che accetta di sacrificare suo figlio Isacco e Melchisedech che offre al Signore pane e vino.

Senza alcun dubbio invece Girolamo Bonsignori, frate domenicano, s’ispirò al Cenacolo di Leonardo da Vinci (Anchiano, 1452 – Amboise, 1519) nel realizzare la sua Ultima Cena collocata all’interno dell’affresco di cui si è parlato precedentemente. Sebbene a primo impatto le due opere siano molto simili, se si analizzano bene i particolari ci accorgiamo delle numerose differenze nelle figure, nell’architettura, nel pavimento e nel tavolo. I personaggi rappresentati infatti appaiono molto più vicini tra loro rispetto al Cenacolo vinciano; alle loro spalle si nota un’architettura più maestosa, come più preziosa è la pavimentazione a meandri. Sul tavolo (si notino anche le gambe dello stesso molto più massicce e decorate) si contano molti più bicchieri e ampolle e tozzi di pane rispetto all’opera leonardiana. Tema perfetto per l’ambiente a cui era destinato il dipinto, visto che ci troviamo in un refettorio, dove i monaci si dedicavano alla consumazione dei pasti in comune. E fu proprio il monaco Gregorio Cortese a volere questo dipinto nell’ambito del suo rinnovamento del complesso polironiano, dato che la tela risale al 1514 circa. Fino alla fine del Settecento è attestata la sua presenza nel refettorio e fino alla seconda dominazione francese al Polirone; successivamente compare in un elenco di opere destinate al palazzo di Sassuolo del conte d’Espagnac e poi giunge in Francia dove rimane per varî decennî. In Italia è documentata nel 1927 presso l’abbazia della Vangadizza in Badia Polesine e qui è custodita ancora oggi, nonostante abbia subito anche un incendio e un seguente restauro.

Correggio, David riporta l'Arca santa a Gerusalemme (1514-1515; olio su tela, 260 x 153,5 cm; Collezione privata)
Correggio, David riporta l’Arca santa a Gerusalemme (1514-1515; olio su tela, 260 x 153,5 cm; Collezione privata)


Girolamo Bonsignori, Ultima cena (1514 circa; olio su tela, 234 x 722 cm; Badia Polesine, Museo Civico)
Girolamo Bonsignori, Ultima cena (1514 circa; olio su tela, 234 x 722 cm; Badia Polesine, Museo Civico)


Correggio o Girolamo Bonsignori (attribuito a), Ambientazione architettonica del Cenacolo di Girolamo Bonsignori (1514 circa; affresco e interventi a secco, 1170 x 1135 cm; San Benedetto Po, Refettorio Grande)
Correggio o Girolamo Bonsignori (attribuito a), Ambientazione architettonica del Cenacolo di Girolamo Bonsignori (1514 circa; affresco e interventi a secco, 1170 x 1135 cm; San Benedetto Po, Refettorio Grande)

Se, nella sala, a sinistra rispetto all’affresco e all’Ultima Cena si è detto che è esposta l’anta d’organo del Correggio, a destra sono alcuni disegni di Giulio Romano, in un ulteriore rimando agli estremi del sottotitolo della mostra. Tra questi disegni, uno raffigura David e Betsabea al bagno, ovvero uno degli ottagoni della Loggia di Davide di Palazzo Te: Betsabea, nuda, viene coperta con un telo da una sua serva dopo essersi bagnata nella fontana del giardino dove si trova; alla finestra invece David con la corona in testa viene informato da un altro uomo circa l’identità della fanciulla. L’opera testimonia il ruolo preponderante che Giulio Romano dà al disegno e la sua incantevole abilità nella tecnica.

Completano il percorso espositivo una selezione di opere, tra dipinti e sculture, realizzate nel Cinquecento nel periodo post giuliesco. Di scuola veneta è la Madonna col Bambino di Paolo Farinati (Verona, 1524 – 1606), dipinto in collezione privata che raffigura la dolcezza con cui il Bambino guarda la sua mamma e le accarezza il volto e la Madonna che tiene suo figlio in braccio, su un cuscino. Lo stesso tema è rappresentato in scultura da Antonio Begarelli (Modena, 1499 – 1565), artista modenese a cui vennero commissionate negli anni Quaranta del Cinquecento statue in terracotta per il complesso polironiano. In questo caso la Madonna è in piedi, sopra a un essere mostruoso simile a un rettile, e tiene in braccio il Bambino, che però sembra volersi divincolare a differenza del dipinto di Farinati; probabilmente l’essere demoniaco si riferisce alla sconfitta del male grazie al sacrificio di Cristo. Begarelli realizzò successivamente per il Polirone una ventina di statue da collocare nelle nicchie della navata e del portico raffiguranti santi e infatti la rassegna include anche una visita alla Basilica per invitare il pubblico ad ammirare le splendide statue create dall’artista che sembrano di marmo, tanto sono state eseguite con grande meticolosità e abilità tecnica; in alcuni casi, come nella santa Giustina o nel san Lorenzo, lo scultore ha aggiunto finiture dorate a foglia e tocchi di colore per conferire maggiore realismo alle statue, e persino elementi in ferro e in legno.

Giulio Romano, David e Betsabea al bagno (1531; penna e inchiostro bruno, pennello e acquerello bruno con tracce di gessetto nero su carta preparata marroncina, 365 x 281 mm; Collezione privata)
Giulio Romano, David e Betsabea al bagno (1531; penna e inchiostro bruno, pennello e acquerello bruno con tracce di gessetto nero su carta preparata marroncina, 365 x 281 mm; Collezione privata)


Antonio Begarelli, Madonna col Bambino (1541 circa; terracotta, 142 x 61 x 40 cm; San Benedetto Po, Museo Civico Polironiano)
Antonio Begarelli, Madonna col Bambino (1541 circa; terracotta, 142 x 61 x 40 cm; San Benedetto Po, Museo Civico Polironiano)


Paolo Farinati, Madonna col Bambino (ottavo decennio del Cinquecento; olio su tela, 44,5 x 33 cm; Collezione privata)
Paolo Farinati, Madonna col Bambino (ottavo decennio del Cinquecento; olio su tela, 44,5 x 33 cm; Collezione privata)

È incredibile pensare come una basilica di un paesino della Pianura Padana custodisca tesori come quelli citati: indubbiamente il complesso del Polirone fu un centro monastico importante in quell’epoca, grazie al grande progetto di rinnovamento voluto da Gregorio Cortese che rese possibile in particolare la presenza di una meravigliosa serie scultorea realizzata dal Begarelli e di decorazioni a soffitto di Giulio Romano. Come nella sagrestia, dove è stata allestita una sezione liturgica: negli armadi si conservano paramenti suddivisi per giorno e per festività e se ne espone uno a rotazione tra quelli di rara fattura databili al XV e XVI secolo. All’interno della Basilica è anche conservato il sepolcro di Matilde di Canossa: fu suo nonno a fondare nel 1007 il monastero su un’isola compresa tra i fiumi Po e Lirone, intorno a una chiesa dedicata a Santa Maria; la tomba si trova ancora oggi nella sua sede originaria, grazie anche al contributo di Giulio Romano che, in accordo con Gregorio Cortese, fece riportare il sepolcro in quel punto, dopo che era stato trasferito all’entrata della chiesa maggiore e poi all’altare di Santa Giustina. Anche se da secoli il sepolcro è vuoto: il corpo di Matilde è sepolto in San Pietro a Roma, sormontato da una statua di Gian Lorenzo Bernini.

Altro aspetto da ricordare era la fiorente attività dello scriptorium attestata in mostra da codici con le miniature di Girolamo dai Libri provenienti dall’Archivio Storico Diocesano.

È un’esposizione che tocca tutti gli aspetti che hanno contribuito all’importanza e alla grandezza del Polirone nel Cinquecento. Comprensibile a tutti, è una mostra ben curata dal punto di vista dei contenuti, come dimostra anche il catalogo stesso dell’esposizione, nel quale sono proposti diversi saggi che approfondiscono temi quali l’attività di Correggio e di Bonsignori a Polirone, la scultura di Begarelli, il rinnovamento giuliesco al complesso monastico e il contesto artistico cinquecentesco in questi luoghi. Ogni opera è inoltre accompagnata da una scheda di approfondimento, elemento fondamentale per una buona comprensione.

Una mostra che ha ottenuto il ritorno di due importanti opere nella loro sede d’origine e che ha reso giusta gloria a Giulio Romano come artista della San Benedetto eterna.


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Ilaria Baratta

L'autrice di questo articolo: Ilaria Baratta

Giornalista, sono co-fondatrice di Finestre sull'Arte con Federico Giannini. Sono nata a Carrara nel 1987 e mi sono laureata a Pisa. Sono responsabile della redazione di Finestre sull'Arte.

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