Labirinti del cuore: a Roma una mostra sui sentimenti nell'arte di Giorgione e del primo Cinquecento


Recensione della mostra 'Labirinti del cuore. Giorgione e le stagioni del sentimento tra Venezia e Roma' a Roma, Palazzo Venezia, fino al 17 settembre 2017.

“Amare senza amaro non si può”, sentenziava Perottino, l’innamorato infelice protagonista del primo libro degli Asolani di Pietro Bembo, trattato in forma di dialogo sull’amore, composto tra il 1497 e il 1502 e pubblicato nel 1505: ebbe un notevole successo nei circoli intellettuali della Venezia d’inizio Cinquecento, e folte schiere di storici dell’arte si sono prodigati nell’indagare fino a quale punto l’influenza degli Asolani si fosse estesa nel campo delle arti visive. Questo amore che, secondo lo sconsolato Perottino, non può esistere senza che al contempo si provino amarezze (tanto che il personaggio faceva risalire l’etimologia del termine proprio all’aggettivo “amaro”: l’amore “null’altro ha in sé e nelle sue operationi che amaro, da questa parola, sì come io mi credo, assai acconciamente così detto da chiunque si fu colui il quale prima questo nome gli diè”), sarebbe secondo molti il principale protagonista del dipinto del Giorgione (Castelfranco Veneto, 1477 - Venezia, 1510) noto come i Due amici, opera attorno alla quale ruota l’intera mostra Labirinti del cuore. Giorgione e le stagioni del sentimento tra Venezia e Roma, volta a indagare la rappresentazione dei sentimenti (e con essa i legami che, in tale contesto, unirono l’arte alla musica e alla letteratura: se n’è appena fornito un esempio) nella pittura al principio del XVI secolo, segnatamente quella prodotta in ambito veneto.

Un centinaio d’oggetti tra dipinti, sculture, stampe, manoscritti e documenti: tale è la base che concorre a dar corpo alla mostra, uno dei principali eventi espositivi che si tengono nel 2017 a Roma. Un’ottima mostra spiccatamente divulgativa (pur con alcuni difetti), curata da un grande esperto d’arte veneta e di Giorgione quale è Enrico Maria Dal Pozzolo, e divisa tra due musei, il Museo Nazionale di Palazzo Venezia e quello di Castel Sant’Angelo, che offrono due percorsi diversi, riuniti in un discorso sostanzialmente unitario, tanto che si fatica un po’ a seguire la seconda sezione, quella di Castel Sant’Angelo, se non si è visitata la prima, che funge da guida e da contesto. Forse occorrerebbe anche interrogarsi sull’opportunità di estendere il percorso a Castel Sant’Angelo, luogo che poco ha a che spartire con i temi della mostra (non fosse per il fatto che, per arrivare alle sale in cui si tiene l’esposizione, è necessario attraversare l’intero percorso del museo... un “labirinto” in sintonia col titolo dell’esposizione) e i cui spazî spesso angusti (il percorso è stato allestito negli appartamenti papali) non rendono facilissima la fruizione, anche tenuto conto del fatto che Castel Sant’Angelo è, tolto il circuito del Foro Romano e del Colosseo, il museo di gran lunga più visitato di Roma, con oltre un milione di presenze l’anno. Ci si domanda, pertanto, se non fosse stato meglio condensare il percorso e far svolgere tutta la mostra a Palazzo Venezia (o, per meglio dire, al Palazzo di Venezia). Anche perché l’esposizione s’apre con una lunga (e forse poco utile) introduzione sulla storia del palazzo.

Il visitatore, per tre sale, viene edotto in merito agli eventi che condussero alla donazione del palazzo alla Repubblica di Venezia, ai rapporti tra Venezia e Roma nel XVI secolo (invero risolti in modo decisamente superficiale: nient’altro che due allegorie e due vedute), e alle vicende d’un paio dei proprietarî dell’edificio, ovvero Pietro Barbo e Domenico Grimani, la cui presenza in mostra è motivata dal fatto che i due avrebbero favorito scambi culturali tra Roma e Venezia. Per Domenico Grimani, poi, s’aggiunge un altro dettaglio: il cardinale veneziano fu un appassionato collezionista, e nella sua raccolta figuravano anche opere di Giorgione. La mostra si spinge ad affermare che, essendo Domenico Grimani un collezionista di Giorgione, il pittore potrebbe “aver attraversato” le stanze di Palazzo Venezia: è vero che, a memoria di chi scrive, le ipotesi d’un viaggio di Giorgione a Roma rimontano almeno agli anni ’50 del secolo scorso, ma le basi su cui tali ipotesi si fondano sono più ampie della semplice presenza di opere dell’artista nella collezione di Domenico Grimani, e coinvolgono anche quel classicismo giorgionesco che rappresenta uno dei nodi più importanti della produzione del pittore di Castelfranco. La questione emerge in tutta la sua importanza da alcune opere che potrebbero aver tratto più d’uno spunto da marmi antichi presenti nella raccolta del cardinale: si pensa, in particolare, alle due tavole conservate agli Uffizi, non presenti in mostra, e alle quali già da tempo è stato ricollegato il cosiddetto Omaggio a un poeta, uno dei tre dipinti attribuiti a Giorgione che invece sono presenti a Palazzo Venezia. In tutti e tre i casi, tuttavia, c’è stato chi ha messo in dubbio tale attribuzione, ma la mostra è molto chiara nello specificare che non abbiamo certezze in merito all’autore delle opere, e ciò vale specialmente per i Due amici. Per quanto riguarda invece il cosiddetto Omaggio al poeta, che Dal Pozzolo assegna alla produzione giovanile dell’artista, si evidenzia che l’opera a Palazzo Venezia viene identificata come Fetonte davanti ad Apollo, soggetto proposto di recente in ambito scientifico e presentato qui per la prima volta in un contesto espositivo. Nel discorso s’inserisce con coerenza anche l’altra piccola tavoletta giorgionesca con la Leda e il cigno, in prestito dai Musei Civici di Padova: il soggetto deriva da quel Cygnus concubans cum Leda, il cammeo antico oggi al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, che nel 1457 figurava in un inventario della raccolta di Pietro Barbo.

Nella stessa sala, la quarta, che ha l’obiettivo di presentare al pubblico la sfuggente figura di Giorgione e, di rimando, i suoi rapporti con Roma, sono raccolti tre dei pochissimi documenti riguardanti l’attività dell’artista veneto: in particolare, abbiamo la celebre lettera in cui Isabella d’Este chiede a Taddeo Albano, suo agente a Venezia, lumi circa un dipinto di Giorgione, quindi abbiamo la risposta di Albano alla marchesa di Mantova, che la informa della scomparsa del pittore e del fatto che il dipinto da lei richiesto non esiste, e infine abbiamo l’inventario dei beni trovati nella casa di Giorgione.

Una delle sale della mostra Labirinti del cuore. Giorgione e le stagioni del sentimento tra Venezia e Roma
Una delle sale (a Palazzo Venezia) della mostra Labirinti del cuore. Giorgione e le stagioni del sentimento tra Venezia e Roma


Giorgione, Fetonte davanti ad Apollo
Giorgione, Fetonte davanti ad Apollo (1496-98 circa; olio su tavola, 59 x 48 cm; Londra, The National Gallery)


Giorgione, Leda e il cigno
Giorgione, Leda e il cigno (1499-1500; olio su tavola, 12 x 19 cm; Padova, Musei Civici, Museo d’Arte Medioevale e Moderna)


Lettera di Taddeo Albano ad Isabella d'Este
Lettera di Taddeo Albano ad Isabella d’Este (Venezia, 8 novembre 1510; inchiostro seppia scuro su carta, 23,1 x 22 mm; Mantova, Archivio di Stato, AG, b. 1893, c. 68)

Al ritratto dei Due Amici s’arriva per gradi. Il problema che il curatore si pone, infatti, è come l’autore del dipinto sia giunto a elaborare un tema tanto particolare, se si pensa al fatto che, all’epoca, il genere del ritratto non veniva adoperato per rendere esplicita una situazione sentimentale, bensì per dar conto d’uno status raggiunto o per serbar memoria dell’effigiato. Si passa, in sostanza, dal sottolineare l’esteriorità all’indagare l’interiorità. Con i Due amici, assicura Dal Pozzolo, siamo di fronte al primo, originalissimo esemplare d’un genere nuovo che trova le proprie premesse nella ritrattistica veneziana del secondo Quattrocento, quella di Antonello da Messina, di Giovanni Bellini, di suo fratello Gentile, di Marco Basaiti, di Giovanni Cariani. Nello specifico, s’assiste a una più puntuale volontà di cogliere l’individualità del soggetto, i tratti che lo rendono unico, pur nella sostanziale gravità che caratterizza i protagonisti di tali ritratti. Queste specifiche, dimostrate a Palazzo Venezia da alcuni splendidi ritratti, a cominciare dai due ritratti d’uomo di Gentile e Giovanni Bellini per proseguire con il doppio ritratto di Marco Basaiti (in cui però i personaggi appaiono più giustapposti che uniti da un vero e solido legame psicologico), soni premesse necessarie per arrivare all’indagine psicologica e all’autonoma resa dei sentimenti dei personaggi, il cui stato d’animo viene sondato anche col tramite delle fonti letterarie del tempo.

È quanto si diceva in apertura: protagonista dei Due amici è infatti un amore infelice che tormenta il giovane in primo piano, il quale tiene tra le mani un’arancia amara (un melangolo, come s’usava dire al tempo) che simboleggia l’apparenza dolce dell’amore che, esattamente come il melangolo, cela tuttavia un cuore amaro. Dipinto che dunque sottende una sofferenza da parte del protagonista, che si strugge per le pene d’amore e sembra indifferente all’amico posto più indietro, che invece non è affatto mosso dagli stessi sentimenti del giovane in primo piano e potrebbe dunque significare, allegoricamente, la fermezza dell’uomo che non si lascia turbare dalle cose terrene, o semplicemente la razionalità poco incline al romanticismo: certo è che, di fronte a questo ritratto, non ci troviamo soltanto in presenza di due stati d’animo diversi (anzi: opposti), ma scorgiamo anche un riflesso della cultura dell’epoca, che celebrava l’amore con prose, liriche e componimenti musicali, e Giorgione (o chi per lui) coglie gli stimoli provenienti da tali ambienti culturali per produrre un dipinto estremamente suggestivo, che si rifà agli Asolani di Bembo, come suggerito in apertura, ma anche, per questo modo d’intendere il tormento d’amore come un dolore su cui meditare in silenzio e nel proprio intimo piuttosto che come una piaga di cui lamentarsi apertamente, al Canzoniere di Petrarca, altra raccolta particolarmente apprezzata al tempo (giova sottolineare come due edizioni a stampa d’inizio Cinquecento degli Asolani di Bembo e dei sonetti di Petrarca siano presenti in mostra). Un dipinto che, infine, dimostra una sensibilità e una capacità d’introspezione psicologica che si pongono fuori dall’ordinario.

Giovanni Bellini, Ritratto d'uomo
Giovanni Bellini, Ritratto d’uomo (1490-95 circa; olio su tavola, 34 x 26,5 cm; Roma, Musei Capitolini)


Marco Basaiti, Doppio ritratto
Marco Basaiti, Doppio ritratto (1500 circa; olio su tavola, 24,5 x 19,5 cm; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini)


Giorgione, I due amici
Giorgione, I due amici (1502 circa; olio su tela, 77 x 66,5 cm; Roma, Museo Nazionale di Palazzo Venezia)

Dopo un’occhiata al videomapping “Il giardino dei sogni” di Luca Brinchi e Daniele Spanò (una “installazione video sonora immersiva”, precisano gli autori), che nella Sala delle Battaglie, in un ambiente fresco e con sedie comode, chiude la sezione di Palazzo Venezia, si può intraprendere una mezz’ora di passeggiata fino a Castel Sant’Angelo: superata in qualche modo l’inevitabile ressa e attraversato, come si ricordava, l’intero percorso del museo, si giunge agli Appartamenti Papali, dove la seconda parte dell’esposizione (Le stagioni del sentimento tra Venezia e Roma) è organizzata per macrotemi e s’apre laddove Palazzo Venezia ci aveva lasciati, ovvero dalle riflessioni letterarie sul tema dell’amore: edizioni a stampa dei sonetti di Petrarca, del Decameron di Boccaccio, e poi i trattati di Bembo, di Lodovico Dolce, di Mario Equicola, di Francesco Barbaro e altri accompagnano il visitatore in una sorta d’introduzione a cui è demandato il compito di far sapere al pubblico che l’amore era una delle principali preoccupazioni degli ambienti culturali del tempo. Senza voler entrare nel merito delle singole sale tematiche (si spazia dalla musica ai labirinti, dai simboli d’amore alla seduzione), preme focalizzarsi su alcune delle principali opere della seconda parte dell’esposizione, a cominciare da una Dama con garofano di Giomo del Sodoma: in antico era uso scambiarsi tale fiore per suggellare un fidanzamento e la tela è funzionale a sottolineare il ruolo del simbolo nell’esplicitare un sentimento amoroso. Garofani dunque, ma anche guanti, lettere, piante assortite: il campionario esposto è discretamente ampio. “Dalle parole e dai simboli si passa ai fatti”, suggerisce poi il pannello del gruppo tematico immediatamente seguente, dedicato alla seduzione: in una nicchia leggermente appartata (quasi fosse un’alcova: l’allestimento si fa dunque alquanto coerente con l’argomento trattato) trovano spazio certi nudi di grande procacia, ma anche ritratti di mogli che scoprono il seno in segno di fedeltà, dacché il mostrare tale parte del corpo significava porgere il cuore, come spiegava l’erudito Giovanni Bonifacio nel suo trattato Arte de’ cenni, una cui stampa del 1616 è esposta a Castel Sant’Angelo, aperta proprio alla pagina di nostro interesse (“l’aprirsi i panni dinnanzi al petto sarà gesto di voler mostrare il cuore e così di realtà e sincerità”). Appartiene a quest’ultima fattispecie il Ritratto di donna che scopre il seno di Bernardino Licinio, che con ogni probabilità raffigura la cognata del pittore (l’identificazione è possibile grazie ad altre opere in cui sappiamo per certo compaia la moglie del fratello Arrigo), mentre decisamente più seducente è la Nuda di Girolamo Siciolante da Sermoneta, che s’offre senz’alcun velo all’osservatore invitandolo a unirsi a lei con gesti neanche troppo criptici.

Un ruolo di primissimo piano è quello che spetta al celebre Ritratto di gentiluomo di Bartolomeo Veneto, giunto a Roma dal Fitzwilliam Museum di Cambridge. Ritratto famoso perché il gentiluomo, sul petto, reca quel labirinto che dà alla mostra questo titolo un po’ da romanzo rosa, e che viene interpretato come simbolo di quel labirinto di sentimenti che ognuno di noi porta dentro di sé. Occorre specificare che in realtà non è mai stata data un’interpretazione univoca del ritratto di Cambridge: molto calzante, per esempio, è quella che intende il labirinto come allegoria degli inganni del mondo, che tentano l’uomo di fede. Tanto più che la forma richiama quella del labirinto che orna il pavimento della cattedrale di Chartres (spesso s’incontrano labirinti nelle chiese francesi: questo dettaglio, unito alla foggia del copricapo, tipicamente borgognona, non dovrebbe lasciar adito a dubbi circa la nazionalità del soggetto raffigurato) e che il tema si ricollega alle ben note dispute religiose che sconvolsero l’Europa agli albori del XVI secolo e oltre. Suggestiva è comunque anche l’interpretazione fornita in mostra, forte del fatto che l’uomo sul cappello ha una spilla con un cammeo che raffigura un naufragio e che con la mano sfiora il pomello d’una spada, quasi che si stia per preparare a una battaglia.

La mostra, nell’avviarsi verso la conclusione, inizia a perdersi un poco: c’è una sezione dedicata agli abbracci come simboli d’unione declinati soprattutto in ambito familiare, all’interno della quale spicca un Ritratto della famiglia di Arrigo Licinio, dipinto dal summenzionato Bernardino, che s’era specializzato al tempo nei ritratti di gruppo (e questo ne è uno dei più alti esempî: peraltro, nell’opera, ritroviamo la cognata che già avevamo conosciuto nel gruppo dedicato alla seduzione). C’è una sezione dedicata a Francesco I de’ Medici, giustificata sulla base dell’amore disinteressato che il granduca di Toscana nutrì per la veneziana Bianca Cappello: tuttavia, in un percorso dedicato all’arte veneta del primo Cinquecento, questa “deviazione” appare del tutto fuori tempo e fuori luogo. A chiudere la mostra, infine, i dipinti dedicati alle memorie. Figura un Ritratto di vecchio d’antica e non più accettata attribuzione giorgionesca (un ritratto di vedovo: la memoria è quella della sposa la cui assenza riempie di malinconia gli occhi del personaggio), ma protagonista è ancora Bernardino Licinio che pone termine al percorso con una Dama che regge un ritratto di figura maschile: quasi sicuramente una sposa che sorregge il ritratto del marito assente. Non conosciamo i motivi di tale lontananza: certo è che l’amore di questa donna è talmente forte da portarla ad abbracciare e ad accarezzare, con sguardo velato di meditabonda tristezza, l’immagine del suo uomo.

Il videomapping Il Giardino dei sogni
Un momento della proiezione Il giardino dei sogni


Giomo del Sodoma, Dama con garofano
Giomo del Sodoma, Dama con garofano (1540-50 circa; olio su tavola, 61 x 43,5 cm; Siena, Accademia Chigiana)


Bernardino Licinio, Ritratto di donna che scopre il seno
Bernardino Licinio, Ritratto di donna che scopre il seno (1536; olio su tela, 83 x 69 cm; Bergamo, collezione privata)


Girolamo Siciolante da Sermoneta, Nuda
Girolamo Siciolante da Sermoneta, Nuda (1548 circa; olio su tela, 190 x 93 cm; Roma, Musei Capitolini)


Bartolomeo Veneto, Ritratto di gentiluomo
Bartolomeo Veneto, Ritratto di gentiluomo (1510-15 circa; olio su tavola, 72,8 x 54,3 cm; Cambridge, Fitzwilliam Museum)


Bernardino Licinio, Ritratto della famiglia di Arrigo Licinio
Bernardino Licinio, Ritratto della famiglia di Arrigo Licinio (1535-40; olio su tela, 118 x 165 cm; Roma, Galleria Borghese)


Pittore veneto del XV secolo, Ritratto di vecchio
Pittore veneto del XV secolo (già attribuito a Giorgione), Ritratto di vecchio (1530-40?; olio su tela, 107 x 90 cm; Roma, Galleria Doria Pamphilj)


Bernardino Licinio, Dama che regge un ritratto di figura maschile
Bernardino Licinio, Dama che regge un ritratto di figura maschile (1525-30; olio su tela, 77,5 x 91,5 cm; Milano, Pinacoteca del Castello Sforzesco)

Uscendo da Labirinti del cuore. Giorgione e le stagioni del sentimento tra Venezia e Roma si ha la sensazione d’aver avuto a che fare con un’occasione che si sarebbe potuta senz’altro sfruttare meglio: certe scelte curatoriali che appaiono forzate, la divisione tra due spazî espositivi che rischia di far perdere il filo del discorso, alcune soluzioni francamente da rivedere nel progetto d’allestimento (come certe didascalie che si trovano a una decina di centimetri da terra, e per di più in ambienti buî), sono dettagli sicuramente migliorabili. Ma facendo le somme, si può tranquillamente asserire che la mostra sia un’operazione nel complesso buona, e diversi sono gli aspetti positivi: un percorso sicuramente ben congegnato, opere spesso sorprendenti, una mostra che riesce a proiettare il pubblico nelle atmosfere del primo Cinquecento, un taglio divulgativo quanto mai idoneo per una platea eterogenea, l’apprezzabile volontà di non fare un’esposizione su Giorgione (ad appena sette anni di distanza dalla grande monografica di Castelfranco Veneto, senza novità di particolare rilievo, non sarebbe stato proprio il caso), ma di rendere il grande artista di Castelfranco protagonista di una mostra che, peraltro, potrebbe aprire interessanti filoni di ricerca sul rapporto tra arte e sentimenti nel primo Cinquecento veneto. Questo, almeno, è l’auspicio del curatore. Merita infine un encomio particolare la capacità, da parte della mostra, di tenere costantemente vivo l’interesse del visitatore attraverso un racconto affascinante scandito da pannelli illustrativi chiari e forti d’un linguaggio quasi colloquiale: particolari da non dare per scontati e che infondono al percorso espositivo una freschezza che non sempre si riscontra in mostre d’arte antica.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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