Nella nuova puntata dell’inchiesta dedicata alle nuove Direzioni Musei, dotate di ampi poteri decisionali e con autonomia finanziaria, ci spostiamo in Piemonte. Alla guida delle Residenze reali sabaude e della Direzione regionale Musei nazionali (DrMn) Piemonte dal 16 maggio scorso c’è Filippo Masino, precedentemente curatore architetto presso i Musei Reali di Torino, dove si era occupato degli interventi di sviluppo, restauro, manutenzione e allestimento. L’avvio della sua carriera al Ministero avviene, però, nell’ambito delle soprintendenze, nel 2012, come unico funzionario architetto presso la Soprintendenza Archeologia del Piemonte e Museo delle Antichità Egizie, con compiti di tutela e restauro delle strutture e di direttore tecnico del Museo di Antichità di Torino. Masino arriva, dunque, ad occuparsi di valorizzazione con una solida esperienza nel campo della tutela. La temuta separazione dei due ambiti che aveva tenuto banco nel dibattito che aveva accompagnato la Riforma Franceschini dal 2014 possiamo dire, alla luce ormai di oltre due lustri, essere stata smentita dai fatti.
Il nuovo istituto piemontese dirige 12 siti ereditati dalla precedente Direzione regionale Musei: di questi, a seguito dell’ultima riforma cinque vanno a formare il museo autonomo delle Residenze reali sabaude, ma la struttura di governance è unica anche per gli altri sette luoghi della cultura. La DrMn rientra, infatti, tra le 11 che fanno capo ad altrettanti istituti autonomi, secondo una soluzione ibrida. Un unico direttore quindi, ma anche un unico bilancio e uffici unificati per il personale, la stazione appaltante e i servizi tecnici ad esempio. Per Masino, “la sfida più complessa” dell’ultima riforma è proprio “quella dei nuovi musei autonomi ‘seriali’, e cioè composti da più siti anche molto distanti tra loro”. Come le Residenze reali sabaude, appunto. “L’affermazione di questo modello è la vera novità dell’ultima tornata di istituti”.
Non è chiaro, invece, se il confronto tra direttori in un’ottica di rete avvenga in una cabina di regia alla quale sono ammessi solo alcuni, dato che Masino, come Fabrizio Sudano (Calabria) e Filippo Demma (Basilicata) ci hanno parlato nelle precedenti interviste di convocazioni periodiche da parte del Direttore Generale, mentre Alessandra Guerrini (Liguria) e Valentina Uras (Sardegna) sembrano far riferimento per lo più a iniziative dei singoli.
Dei 12 siti, tra musei, gallerie, castelli e siti archeologici, della DrMn Piemonte fanno parte Palazzo Carignano, Villa della Regina, Castello di Moncalieri, tutti a Torino; l’Abbazia di Fruttuaria, a San Benigno Canavese (Torino); Area archeologica di Libarna, a Serravalle Scrivia (Alessandria); e ancora il Castello di Serralunga d’Alba, a Cuneo.
SM. Tra le novità introdotte nel 2014 dalla riforma Franceschini i “poli museali regionali” si sono rivelati da subito i punti deboli della riorganizzazione ministeriale. Secondo Lei quali sono state le criticità di quelle strutture?
FM. La riforma Franceschini è stata una rivoluzione nel settore museale italiano, avviata per recuperare un ritardo decennale rispetto ad altri paesi europei, dotando il sistema museale statale italiano di modelli organizzativi più allineati alle esigenze dei musei di oggi. Una profonda trasformazione degli uffici quindi, che ha implicato il passaggio tra vari istituti non solo dei beni, ma soprattutto di funzioni e del personale, che da quel momento doveva scegliere se rimanere nelle soprintendenze o intraprendere una nuova carriera nel settore della valorizzazione. Tutto questo non poteva naturalmente essere indolore per la struttura ministeriale, in quanto cambiavano non solo le attività da svolgere giorno dopo giorno: si trattava di cambiare radicalmente la visione, le abitudini e gli obiettivi, passando dalla prevalenza dell’attività tecnico-scientifica allo sviluppo dei servizi culturali per la comunità allargata. Al di là dell’effettiva portata innovativa, era implicito che il DPCM 171/2014 sarebbe stato solo l’inizio di un lungo processo di riorganizzazione e miglioramento, che infatti continua ancora oggi. Il primo passo fu quello dell’autonomia ai grandi attrattori, divisi tra musei di prima e di seconda fascia, ognuno con un proprio direttore, spesso selezionato al di fuori del Ministero e in alcuni casi anche straniero. Ma rimanevano fuori una costellazione di luoghi della cultura sparsi nel territorio: per le loro dimensioni, complessità e impatto economico, per questi si preferì il modello dei “Poli museali regionali”, e cioè uffici di coordinamento e indirizzo con il compito di progettare la valorizzazione e il servizio pubblico. I Poli avevano una autonomia molto scarsa, in prima battuta in quanto iniziava proprio allora il complesso iter di trasferimento dei beni dalle Soprintendenze, che a volte ha richiesto tempi lunghi e ha talvolta innescato alcune conflittualità. Soprattutto, erano degli uffici di carattere prevalentemente tecnico-amministrativo, privi ancora di quel potere decisionale e quegli strumenti fondamentali per sviluppare una progettualità organica sul patrimonio diffuso, con grandi difficoltà soprattutto nel promuovere i musei meno conosciuti. Inoltre, questi uffici dovevano comunque passare dagli Enti di tutela ad esempio per autorizzare il prestito in Italia delle collezioni di propria competenza per mostre o manifestazioni, così come per avviare i servizi in affidamento diretto o in concessione, e addirittura per autorizzare lo studio e la pubblicazione dei materiali conservati dai propri stessi musei.
È poi cambiato qualcosa nel 2019 con le “direzioni regionali musei”, oltre la nuova dicitura?
Con una situazione più stabile e l’esperienza che man mano si era costruita anche negli uffici, in termini di governance e orientamento alla qualità del servizio, il passaggio alla formula delle Direzioni regionali Musei ha finalmente dotato di maggiore autonomia questi istituti, e confermato le competenze anche nelle materie della gestione dei beni. L’accezione “Direzione regionale” non era priva di difetti (il primo dei quali era una frequente confusione da parte degli utenti esterni con uffici delle Regioni italiane… in questo la nuova denominazione “Musei nazionali” data nell’ultima riforma è una benedizione); ma era sicuramente più pertinente, descrivendo bene il passaggio da una concezione centralizzata dei poli ad una che intendeva far emergere proprio il valore di rete diffusa, che è la vera cifra del nostro Paese; e cioè quel sistema territoriale formato dai luoghi della cultura, ognuno con la propria diversità, e dalle relazioni con le comunità e gli altri soggetti del territorio. Un passo fondamentale, veramente “identitario” delle Direzioni Museali, è stato compiuto poi con l’avvio del Sistema museale nazionale e con l’adozione dei Livelli minimi uniformi di qualità per i musei e i luoghi della cultura di appartenenza pubblica, che ha visto questi uffici imparare a confrontarsi con obiettivi di qualità misurabili e comuni anche ai musei non statali.
Qual è la ragione per cui è stata introdotta una diversificazione tra direzioni coincidenti con una Regione e altre aggregate ad istituti autonomi? E in cosa consiste la differenza? Restando sempre a questo secondo gruppo di istituti, questi accorpamenti sono, per esempio, funzionali alla condivisione di servizi, strumentazioni, competenze professionali? In alcuni casi si tratta di elenchi particolarmente corposi, come i 15 istituti, luoghi della cultura e complessi assegnati alla DrMn Umbria con i Musei nazionali di Perugia o i 13 alla DrMn di Marche insieme a Palazzo Ducale di Urbino. Insomma, saranno utili anche a generare economie di scala?
Non possiedo la risposta diretta, non avendo partecipato alla stesura dei decreti della riforma. Tuttavia credo che la motivazione sia quella più semplice, e cioè la diversa complessità delle situazioni sul territorio italiano, più ancora che mere ragioni di risparmio. Nel caso del Piemonte, ad esempio, dei dodici luoghi della cultura che componevano la precedente DRM, cinque palazzi principeschi e i loro giardini (già inseriti nell’omonimo sito UNESCO insieme ad altri beni non statali) sono stati individuati per comporre il nuovo istituto autonomo delle Residenze reali sabaude; tuttavia, all’istituto si è comunque voluta mantenere in capo anche la gestione dei sette altri siti, che spaziano dalle aree archeologiche alle abbazie romaniche fino ai castelli medievali, senza istituire una nuova sede dirigenziale e uno sdoppiamento degli uffici tecnico-amministrativi. In altre regioni è andata diversamente: in Toscana ad esempio, dove partendo da oltre 40 siti si sono visti nascere più istituti autonomi pur mantenendo una propria Direzione musei ancora ricca di beni. Nella pratica, la coesistenza nello stesso istituto di una direzione regionale e di un museo autonomo pone sicuramente dei vincoli nella organizzazione della struttura organizzativa interna, ad esempio distinguendo alcuni dipartimenti dedicati verticalmente alle diverse tipologie di siti e altri dipartimenti invece orizzontali di servizio generale; così come nella definizione dei progetti culturali e di sviluppo che devono tenere in conto delle differenze anche di potenzialità d’impatto comunicativo tra i siti del museo autonomo e gli altri musei nazionali nel territorio, ma naturalmente senza fare figli e figliastri. Ritengo che la sfida più complessa sia quella dei nuovi musei autonomi “seriali”, e cioè composti da più siti anche molto distanti tra loro: penso non solo alle Residenze reali sabaude, ma anche alle ville monumentali fiorentine, a quelle della Tuscia e ai sistemi di parchi archeologici: l’affermazione di questo modello è la vera novità dell’ultima tornata di istituti, mentre prima i casi erano ridotti e comunque relativi a strutture collocate nella stessa città (come il Museo Nazionale Romano con le diverse sedi a Roma, o agli Uffizi con Palazzo Pitti). Questo richiede non solo una struttura organizzativa adatta, nella quale tenere in conto anche la necessaria autonomia delle singole realtà ad esempio nel coordinamento del personale, delle attività vocazionali e nei rapporti con gli specifici contesti socio territoriali, spesso molto diversi tra loro; ma soprattutto la capacità di orientare strategicamente la loro attività nell’alveo di un progetto culturale organico, nel quale le loro diverse voci siano valorizzate ma sappiano anche cantare come in un unico coro. Dal mio punto di vista, pur con queste complessità, questa è una grande occasione per generare non solo un efficientamento organizzativo orientato alla sostenibilità, ma anche economie di scala e contaminazioni positive, che ritengo possono essere utili a molti siti delle DrMn per crescere nelle ambizioni e nella capacità di fornire un servizio di qualità.
Le aggregazioni, poi, avvengono esclusivamente con musei o parchi di livello dirigenziale non generale. C’è una ragione per cui le DrMn non sono state abbinate agli istituti autonomi “più forti” di prima fascia?
I musei di prima fascia sono riconosciuti come tali in quanto grandi attrattori, spesso luoghi non solo di grande valore storico artistico, ma anche emblematico nell’immaginario nazionale e globale. Tutto questo ha una portata di complessità che io ho avuto modo di misurare bene nei Musei Reali di Torino. Ritengo che questo tipo di beni, generalmente concentrati in un singolo compendio o al più su alcune sedi distaccate nello stesso areale urbano come nei casi di Firenze, Napoli e Roma, debbano concentrarsi effettivamente sulla propria missione prevalente di museo autonomo. Inoltre, visto che non in tutte le regioni sono presenti strutture di prima fascia, l’aggregazione di alcune DrMn a musei di livello generale causerebbe una effettiva disomogeneità a livello nazionale, con complessità effettive nella gestione.
In quest’ottica di rete (se effettiva) sono previsti momenti di scambio, come tavoli tecnici convocati con una certa regolarità, tra voi direttori per confrontare le diverse esperienze? Replicare quelle riuscite, risolvere problemi comuni o condividere modelli e progettualità?
Con i colleghi e le colleghe abbiamo scambi frequentissimi, non solo in occasioni degli incontri a cui siamo convocati periodicamente dal Direttore Generale su temi specifici: utilizziamo quotidianamente mail di gruppo e chat tra tutti noi dove sottoponiamo quesiti, ci scambiamo pareri, suggerimenti e documenti, e organizziamo dei ritrovi in remoto a cadenza circa mensile. Questa è una preziosissima rete di confronto e supporto reciproco che si è rivelata preziosissima in questi primi mesi di avvio delle attività nei nuovi istituti, ma che sicuramente rimarrà anche nel futuro.
Cosa pensa che cambierà con la nuova autonomia rispetto al passato? In particolare, dal punto di vista finanziario.
L’autonomia finanziaria è un cambio di passo che il settore aspettava ormai da anni, sulla scorta dell’esperienza degli istituti che hanno aperto la pista nel 2014. Si tratta di una prova di maturità per l’amministrazione dei musei statali, davanti alla quale fortunatamente il dirigente non è solo con il proprio staff, ma è affiancato da un Consiglio di Amministrazione e dalla vigilanza dei revisori dei conti. Disporre di un proprio bilancio e di una propria cassa, alimentata dagli utili raccolti con i servizi erogati e con il mecenatismo, non solo consente una amministrazione delle proprie risorse più stabile e sincrona rispetto alle reali esigenze dei musei nel corso dell’anno, svincolandosi dalle finestre amministrative precedenti che spesso impedivano per la prima parte di ogni anno di disporre materialmente delle risorse per firmare contratti. Ma soprattutto va nella direzione di avvicinare gli uffici al concetto di azienda pubblica, richiamando a fissare degli obiettivi da raggiungere, ad una gestione responsabile delle proprie risorse, ad una programmazione consapevole e a una rendicontazione trasparente anche nei confronti del contribuente. Come dimostra l’esperienza già vissuta negli altri istituti e in questi primi mesi di lavoro, questo consente di presentarsi come partner più credibili ed efficienti anche nei confronti degli attori del territorio, quali gli enti del terzo settore e i privati interessati a prendere parte ai progetti dei musei, e di ragionare effettivamente in termini di investimento per il futuro.
L'autrice di questo articolo: Silvia Mazza
Storica dell’arte e giornalista, scrive su “Il Giornale dell’Arte”, “Il Giornale dell’Architettura” e “The Art Newspaper”. Le sue inchieste sono state citate dal “Corriere della Sera” e dal compianto Folco Quilici nel suo ultimo libro Tutt'attorno la Sicilia: Un'avventura di mare (Utet, Torino 2017). Come opinionista specializzata interviene spesso sulla stampa siciliana (“Gazzetta del Sud”, “Il Giornale di Sicilia”, “La Sicilia”, etc.). Dal 2006 al 2012 è stata corrispondente per il quotidiano “America Oggi” (New Jersey), titolare della rubrica di “Arte e Cultura” del magazine domenicale “Oggi 7”. Con un diploma di Specializzazione in Storia dell’Arte Medievale e Moderna, ha una formazione specifica nel campo della conservazione del patrimonio culturale (Carta del Rischio).