“A touch of magic”. Lo “stregonesco” Dosso Dossi nei suoi capolavori giovanili tra Ariosto e la mitologia


Un viaggio tra i magici capolavori giovanili di Dosso Dossi, un pittore “stregonesco” che rielaborò la letteratura, dalla mitologia classica ad Ariosto, in maniera del tutto personale.

Pochi artisti possono fregiarsi di dirsi veramente magici, e Dosso Dossi è tra quanti appartengono a questa rara genia. Forse è perché Dosso rischia d’irretirci che Berenson suggeriva, nel suo fondamentale North Italian Painters of the Renaissance, di “non guardare troppo a lungo o troppo spesso le sue opere”. I suoi paesaggi, anticipava il grande storico dell’arte statunitense, evocano il mattino della giovinezza, le sue atmosfere ci catturano in un rapimento misticheggiante, le sue figure trasmettono “passione e mistero”. E per riassumere le sensazioni che si sperimentano quando ci si trova dinnanzi alla presenza d’un quadro di Dosso, Berenson adoperava una splendida immagine: “si respira l’aria della terra delle fate”. I suoi stessi natali rimangono tuttora oscuri: sappiamo che la famiglia era d’origine trentina, e che il padre Niccolò aveva un incarico alla corte estense, ma non conosciamo il luogo in cui Dosso nacque. Forse era mantovano di San Giovanni del Dosso, borgo di poche anime che all’epoca si chiamava Dosso Scaffa e ch’era sotto la giurisdizione dei Gonzaga, o forse emiliano di Tramuschio, nei territori del piccolo marchesato di Mirandola, al confine tra Mantova e Ferrara. E tra le due città, tra una sponda e l’altra del Po, tra i Gonzaga e gli Este, si dipanò la sua esistenza e si formò la sua cultura (benché a Ferrara spettasse la netta prevalenza): del giovane Dosso non sappiamo niente, dacché il primo documento che lo menziona è del 1512 e ce lo presenta, evidentemente, come artista già affermato, se era arrivato a farsi commissionare “un quadro grande con undici figure” dal marchese Francesco II Gonzaga, che aveva ingaggiato l’artista, allora venticinquenne o giù di lì, per il palazzo di San Sebastiano, all’epoca residenza gonzaghesca. Ma dobbiamo forse immaginarlo rapito lui stesso dall’epopea antica d’un Mantegna, dalla grazia di sentimenti d’un Correggio, dalle allegorie campestri d’un Lorenzo Costa. E, soprattutto, dobbiamo vederlo soggiogato dal lirismo giorgionesco, appreso probabilmente a Venezia, se prendiamo per buona l’ipotesi che lì, sulle rive della laguna, Dosso dovette compiere il suo tirocinio.

Lo troviamo però a Ferrara presto, già nel 1513, e, a far data da quest’anno, rare volte avrebbe lasciato la città cui si legò di più. E lo troviamo ben inserito nel clima mondano della corte estense, oltre che perfettamente a suo agio nel sistema valoriale ferrarese: una cultura laica ed edonistica, fondata sul buon vivere, su di una letteratura mirata a suscitare piacere, sulle feste che venivano date regolarmente nelle “delizie” dei signori di Ferrara, sulla prolifica attività musicale che attirò in città, da tutta Europa, i più talentuosi musicisti del tempo. Era la Ferrara delle donne, dei cavalieri, dell’arme e degli amori che il mal tollerante Ludovico Ariosto cantava nel suo Orlando Furioso, era la Ferrara che, già da Boiardo, aveva cominciato a rileggere i classici dell’antichità non per esigenze critiche o pedagogiche ma, più semplicemente, per soddisfare le curiosità d’un pubblico che, per quanto ristretto (dacché dobbiamo figurarcelo esclusivamente limitato all’ambiente cortigiano), amava crogiolarsi tra dilettevoli poesie e storie divertenti, era la Ferrara del lusso signorile che si cercava di mantenere e d’alzare costantemente di livello. Era una Ferrara certo non scevra di contraddizioni, dal momento che fortissimi erano gli squilibrî tra le classi agiate e le fasce più basse della popolazione, condizione d’altronde tipica delle corti rinascimentali, tanto da indurre Gramsci a domandarsi retoricamente se, nel Cinquecento, le regole della cortesia cavalleresca fossero forse applicate alle donne del popolo. Ed era, ovviamente, una Ferrara dove il pubblico dell’arte non era, per composizione, tanto distante dai pubblici delle altre corti del Rinascimento: colto (o pseudocolto), sparuto, esclusivo.

Nel catalogo della grande mostra su Dosso Dossi che s’è tenuta, in tre tappe tra il 1998 e il 1999, a Ferrara, New York e Los Angeles, lo storico dell’arte Mauro Lucco, per introdurre l’immaginifico mondo di Dosso Dossi, richiamava un passo di Paolo Pino, che nel 1548, nel suo Dialogo di pittura, affermava che “la pittura è propria poesia, cioè inventione, la qual fa apparere quello che non è”: e dal momento che il pittore è come il poeta, è da questi ultimi che deve prendere esempio, osservando come “nelle loro comedie et altre compositioni vi introducono la brevità”. E allo stesso modo, l’artista dovrà evitare di “restrignere tutte le fatture del mondo in un quadro, né ancho disegnare le tavole con tanta istrema diligenza”. Paolo Pino scriveva qualche anno dopo la scomparsa di Dosso Dossi, ma le sue prescrizioni erano riflesso della cultura cortigiana, ed è anche per tal ragione che i dipinti di Dosso ci appaiono spesso indecifrabili, impenetrabili, misteriosi: perché la ricerca d’una trama era del tutto aliena al suo sentire. Si prenda quella che ormai gli viene riconosciuta come la sua prima opera, la Ninfa e il satiro della raccolta di Palazzo Pitti a Firenze, di cui niente sappiamo: né quando fu eseguita, né per chi, né in quali circostanze, né in quale luogo. Sappiamo solo che figura nelle collezioni medicee dal 1675, e fu variamente assegnata a pittori d’area veneta fino a che l’intuito di Adolfo Venturi non vi riconobbe la mano di Dosso. Una tela delicata, che richiama il miglior Giorgione (la similitudine più evidente è tra la ninfa di Dosso e la Laura del Kunsthistorisches Museum di Vienna), specie nella finezza con cui l’artista tratta fondo e incarnati, nel sapiente uso dello sfumato e d’un impasto tenue. Protagoniste, due figure a mezzo busto: una giovane col capo cinto d’alloro, una pelliccia sulla spalla, l’altra scoperta fino a lasciar vedere il seno, e dietro un fauno dall’aspetto scimmiesco, colto in una smorfia che trasuda smania e violenza allo stesso tempo, tanto che questo dipinto è stato letto come la descrizione d’un inseguimento, ma vano è ogni tentativo di cavar fuori una storia, o d’identificare con certezza i due enigmatici personaggi.

Dosso Dossi, Ninfa e satiro (1508-1510 circa; olio su tela, 57,8 x 83,2 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Galleria Palatina di Palazzo Pitti)
Dosso Dossi (Giovanni Francesco di Niccolò Luteri; San Giovanni del Dosso, 1486? - Ferrara, 1542), Ninfa e satiro (1508-1510 circa; olio su tela, 57,8 x 83,2 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Galleria Palatina di Palazzo Pitti)


Giorgione (Giorgio Barbarelli?; Castelfranco Veneto, 1478 - Venezia, 1510), Laura (1506; olio su tela incollata su tavola, 41 x 33,5 cm; Vienna, Kunsthistorisches Museum)
Giorgione (Giorgio Barbarelli?; Castelfranco Veneto, 1478 - Venezia, 1510), Laura (1506; olio su tela incollata su tavola, 41 x 33,5 cm; Vienna, Kunsthistorisches Museum)

Il punto è che Dosso non è un pittore di narrazioni. Non è artista che ci racconta storie: tutt’al più ce le suggerisce, evocando un’atmosfera più ch’esponendo un fatto, omettendo dei dettagli (spesso anche quelli che, normalmente, sarebbero dirimenti per riconoscere una data iconografia) e concentrandosi viceversa sull’apparentemente futile, sull’incidentale, sui relativi. “Con un’abilità che ha del magico, dello stregonesco”, scriveva Lucco. Ché poi altro non è che quel touch of magic di cui parlava Edmund Garrett Gardner, più affine al genio dell’Inghilterra elisabettiana che a quello dell’Italia rinascimentale. Una magia che rendeva Dosso Dossi l’alter ego dell’Ariosto in pittura. O viceversa. E il riferimento ariostesco, del resto, vien chiamato spesso in causa per spiegare i suoi dipinti: è accaduto anche per la Ninfa e il satiro. Scenetta mitologica o frammento dell’Orlando furioso? Si noterà che il satiro non ha proprio l’aspetto del satiro: ha sì la barbetta caprina, ma gli mancano le corna. E, generalmente, quando a quel tempo un pittore voleva dipingere un satiro, lo attrezzava di tutti gli elementi atti a far sì che, quanto meno, la sua natura fosse riconoscibile. Altrettanti interrogativi solleva la figura della ninfa, specie se si guarda com’è abbigliata, o se si notano gl’inusuali gioielli, l’altrettanta strana pelliccia e la corona d’alloro (tutti elementi che mal s’attagliano alla raffigurazione d’una ninfa). Così, negli anni Ottanta, Maria Matilde Simari, riprendendo uno spunto del 1911 del summenzionato Gardner, che aveva letto le due figure interpretandole come Angelica e Medoro, propose d’identificarle piuttosto come Angelica e Orlando: l’anello che la giovane tiene al collo potrebbe essere “l’annel che ripara ad ogni incanto”, quello che, nel poema di Ariosto, rendeva chi lo indossava immune dagl’incantesimi (e questo elemento potrebbe anche spiegare il perché dell’espressione imperturbabile della donna), mentre il volto sfigurato del protagonista maschile sarebbe sufficiente a far sì che vi si possa scorgere un Orlando abbrutito dalla sua follia. Una lettura plausibile, sebbene accolta freddamente dalla critica posteriore, che preferì attenersi alla tradizionale esegesi della ninfa inseguita da un satiro. E sul perché i personaggi si discostano così tanto dalle abituali iconografie, sarebbe presto detto: occorre leggere il dipinto non già come un qualcosa di fedele a un testo antico da parte di Dosso, ma come una “libera interpretazione da”.

E questa libertà era del tutto congeniale al pittore, se si pensa al quadro della National Gallery di Washington che rivisita con nuova freschezza e con la tipica, magica originalità di Dosso la storia della maga Circe, qui attorniata da un gruppuscolo d’animali (un cervo, un cerbiatto, due cani, alcuni volatili) e immersa nel solito paesaggio giorgionesco, mirabile saggio di prospettiva tonale, con l’albero al centro a far da quinta come nei Tre filosofi, col bosco che digrada verso le colline sullo sfondo, col cielo che s’incupisce e le fronde che vengono come mosse da una leggera brezza. L’incantatrice è al centro, nuda, mentre con le braccia, in atteggiamento simile a quello della Leda leonardesca (ma anche a quello del giovane che compare nel Tramonto del Giorgione, a sua volta rielaborato da Giulio Campagnola nel suo Giovane pastore, che fu forse il più immediato tramite di Dosso), abbraccia una tavola con alcune iscrizioni (presumibilmente le sue formule magiche), e col piede sfiora un libro su cui è riportato un pentacolo, a lasciar pochi dubbî circa le sue attività. Eppure, anche qui Dosso s’allontana da qualsiasi tradizione: manca la verga che, stando al poema omerico, Circe usava per colpire gli uomini onde trasformarli in animali, così come mancano i maiali in cui la maga aveva tramutato i compagni d’Ulisse. Calvesi, già negli anni Sessanta, aveva suggerito che la giovane nuda fosse in realtà la ninfa Canente, capace d’eccellere nel canto e d’attirare a sé financo gli animali, una sorta d’Orfeo al femminile insomma, di cui Ovidio narra nelle sue Metamorfosi: s’eliminerebbe così l’aura moralizzatrice che, nel Rinascimento, accompagnava spesso le rappresentazioni di Circe (specialmente in ambito fiorentino: Pico della Mirandola, per esempio, in un passaggio contro la pratica del meretricio nel suo Commento sopra una canzona de amore, scriveva che le donne facili “non solo non inducono l’uomo a grado alcuno di spirituale perfezione, ma, come Circe, al tutto lo trasformano in bestia”), ma che sarebbe stata così poco adatta per un ambiente votato all’edonismo come la corte estense. La lettura di Calvesi renderebbe però superflui il libro col pentacolo e la tavola con le formule. È quindi più probabile che Dosso Dossi abbia attinto alla fonte dell’Orlando innamorato di Matteo Boiardo, dove la vicenda della maga omerica non è data come il racconto d’una perfida fattucchiera che distrae l’eroe dalla sua meta, ma assume piuttosto i contorni struggenti della storia d’amore finita male (“Era una giovinetta in ripa al mare, / sì vivamente in viso colorita, / che, chi la vede, par che oda parlare [...] / Vedevasi arivar quivi una nave, / e un cavalliero uscir di quella fuore / che con bel viso e con parlar suave / quella donzella accende del suo amore. / Essa pareva donarli la chiave, / sotto la qual si guarda quel liquore, / col quale più fiate quella dama altera / tanti baron avea mutati in fera. / Poi si vedeva lei tanto accecata / del grande amor che portava al barone, / che dalla sua stessa aerte era ingannata, / bevendo al napo della incantasone; / Ed era in bianca cerva tramutata, / e da poi presa in una cacciasione / (Circella era chiamata quella dama): / Dolesi quel baron che lei tanto ama”). Altri studiosi si son spinti a cercare ancora elementi ariosteschi per mutare l’identità della maga in quella della malvagia Alcina dell’Orlando furioso, ma anche in questo caso avremmo un personaggio negativo: per la Circe, parrebbe più credibile pensare che Dosso abbia voluto dar forma (con tanto di “bianca cerva”) alla donzella dalla triste sorte cantata da Boiardo, e certo familiare all’ambiente curtense di Ferrara, oltre che più in grado di soddisfarne l’aspettative. Di sicuro, possiamo escludere che la maga dell’Odissea sia la donna che attira gli sguardi, le attenzioni e l’ammirazione di quanti, con meraviglia, la guardano emergere dal capolavoro di Dosso appeso nella Sala dell’Apollo e Dafne della Galleria Borghese, giusto di fronte al gruppo berniniano.

Dosso Dossi, Circe (1511-1512 circa; olio su tela, 100,8 x 136,1 cm; Washington, National Gallery of Art)
Dosso Dossi (Giovanni Francesco di Niccolò Luteri; San Giovanni del Dosso, 1486? - Ferrara, 1542), Circe (1511-1512 circa; olio su tela, 100,8 x 136,1 cm; Washington, National Gallery of Art)


Giorgione (Giorgio Barbarelli?; Castelfranco Veneto, 1478 - Venezia, 1510), I tre filosofi (1506-1508 circa; olio su tela, 123,5 x 144,5 cm; Vienna, Kunsthistorisches Museum)
Giorgione (Giorgio Barbarelli?; Castelfranco Veneto, 1478 - Venezia, 1510), I tre filosofi (1506-1508 circa; olio su tela, 123,5 x 144,5 cm; Vienna, Kunsthistorisches Museum)


Pittore leonardesco, Leda e il cigno (1505-1507 circa; olio su tavola, 130 x 77,5 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi)
Pittore leonardesco, Leda e il cigno (1505-1507 circa; olio su tavola, 130 x 77,5 cm; Firenze, Gallerie degli Uffizi)


Giorgione, il Tramonto
Giorgione (Giorgio Barbarelli?; Castelfranco Veneto, 1478 - Venezia, 1510), Il Tramonto (1506-1508 circa; olio su tela, 73,3 x 91,5 cm; Londra, National Gallery)


Giulio Campagnola (Padova, 1482 - dopo il 1515), Giovane pastore (1509-1512 circa; stampa, 138 x 83 mm; New York, The Metropolitan Museum)
Giulio Campagnola (Padova, 1482 - dopo il 1515), Giovane pastore (1509-1512 circa; stampa, 138 x 83 mm; New York, The Metropolitan Museum)

La donna della Galleria Borghese, secondo la calzante lettura che già nel 1900 ne diede Julius von Schlosser, è Melissa, la maga buona dell’Orlando furioso, che con le sue formule libera i cavalieri dai sortilegi di Alcina, che usava trasformarli in piante, in fiere, “in liquido fonte”, e secondo Dosso forse anche in bambolotti, se così dobbiamo interpretare i pupazzi che scorgiamo nell’angolo in alto a sinistra, appesi a un albero. Imponente come una sibilla michelangiolesca, ma più nobile e delicata, la fata Melissa siede nel folto d’un bosco, al centro d’un cerchio magico: è coperta da abiti sontuosi, con una veste di seta blu, colorata con azzurrite, coperta da una corazzetta scarlatta a ricami dorati e con un manto di broccato dorato, e con sul capo un prezioso turbante, anch’esso dorato. Senza incrociare gli occhi del riguardante, rivolge la sua attenzione ai piccoli fantocci, mentre con una mano regge una tavola di formule, e con l’altra muove una torcia con cui accende un braciere. A farle compagnia, sono un molosso che guarda verso di noi, un piccione appollaiato su di un’armatura, un altro uccelletto che sta seduto per terra, e anche una rosa: sono quattro, corrispondono in numero ai bambocci che stanno sull’albero, e con tutta evidenza sono i cavalieri in attesa d’esser liberati dal maleficio dell’avversaria di Melissa (la corazza su cui riposa il colombo è indizio piuttosto palese). Il paesaggio retrostante, abitato da tre presenze (tre gentiluomini che conversano tra gli arbusti, forse tra i salvati dalle fatture di Alcina), si perde in lontananza fino a incontrare una fortezza turrita che lo chiude sul fondo (il castello di Alcina, volendo continuare nella lettura).

Le evidenti suggestioni giorgionesche (il cielo, il paesaggio, la forma degli alberi richiamano la Tempesta, e nel gruppo dei cavalieri seduti si potranno ravvisare rimandi ai concerti del grande pittore di Castelfranco) s’arricchiscono qui del contatto con Tiziano, non solo per le tonalità calde che caratterizzano il dipinto (e che si scontrano con quelle fredde dando luogo a sorprendenti contrasti) e per la ricchezza delle vesti, simili a quelle che s’incontrano nell’opere del cadorino, ma anche per il tipo femminile, che fa tornare alla mente l’Amor sacro e l’Amor profano della Galleria Borghese, opera precedente ma dipinta nello stesso torno d’anni della Melissa. E c’è poi, come suggerito, l’incontro con Michelangelo, avvenuto in occasione d’un probabile viaggio a Roma, e quello con Raffaello (si noteranno somiglianze con la Madonna d’Alba, in particolare nella posa, con la gamba che avanza e un piede che fuoriesce dalla veste: anche il sandaletto è simile). David Alan Brown ci ha voluto vedere anche una citazione dalla Visione di sant’Eustachio di Dürer (che già potrebbe aver fatto da modello per la Circe): il cane.

Melissa è figura centrale nell’Orlando furioso soprattutto in relazione alla sua importanza per Ferrara: è lei che salva Ruggiero da Alcina, è lei che aiuta il cavaliere e la sua amata Bradamante a congiungersi, ed è lei a prevedere il loro futuro, a far sapere ai due innamorati che dalla loro unione sarebbe nata la casa degli Este. Aspetto, abbigliamento e atteggiamento della fata di Dosso parrebbero quasi dar forma ai versi con cui Ariosto descrive Melissa: “una donzella di viso giocondo, / ch’a’ bei sembianti et alla ricca vesta / esser parea di non ignobil grado; / ma, quanto più potea, turbata e mesta, / mostrava esservi chiusa suo mal grado”. Gli strumenti di cui la maga si circonda sono quelli di cui Ariosto dà conto nel canto III dell’Orlando furioso: c’è il cerchio magico, tracciato in terra come protezione dagli spiriti maligni (“poi la donzella a sé richiama in chiesa, / là dove prima avea tirato un cerchio / che la potea capir tutta distesa, / et avea un palmo ancor di superchio. / E perché da li spirti non sia offesa, / le fa d’un gran pentacolo coperchio; e le dice che taccia e stia a mirarla”), e ci sono anche le fiamme (“o che natura sia d’alcuni marmi / che muovin l’ombre a guisa di facille, / o forza pur di suffumigi e carmi / e segni impressi all’osservate stelle [...]”): il momento narrato nel terzo canto è uno degli episodî fondamentali del poema, poiché qui Melissa predice a Bradamante, arrivata da lei in armatura maschile, il suo futuro e la sua discendenza (“L’antiquo sangue che venne da Troia, / per li duo miglior rivi in te commisto, / produrrà l’ornamento, il fior, la gioia / d’ogni lignaggio ch’abbi il sol mai visto / tra l’Indo e ’l Tago e ’l Nilo e la Danoia, / tra quanto è ’n mezzo Antartico e Calisto. / Ne la progenie tua con sommi onorisaran marchesi, duci e imperatori”). Un momento tanto importante, che per qualche tempo Dosso, con tutta probabilità, dovette aver deciso di raffigurare secondo intenti più spiccatamente narrativi di quelli che gli erano soliti: la radiografia eseguita in occasione della rassegna del 1998 ha infatti rivelato che, sotto la pittura, si cela la figura d’un cavaliere in armatura, dal volto effeminato, che accompagnava la figura di Melissa, guardandola. È del tutto lecito supporre che, in un primo momento, Dosso abbia voluto rappresentare un preciso frangente, e si sia dunque risolto a esprimere in colori l’incontro tra Melissa e Bradamante. Una sorta d’illustrazione, in breve: anche perché l’opera è contemporanea alla pubblicazione dell’Orlando furioso, dato alle stampe nel 1516 (la Melissa di Dosso potrebbe invece esser riferita al 1518). Ma, dopo aver riflettuto sul risultato, dovette averci ripensato.

Dosso Dossi, Melissa (1518 circa; olio su tela, 170 x 172 cm; Roma, Galleria Borghese)
Dosso Dossi (Giovanni Francesco di Niccolò Luteri; San Giovanni del Dosso, 1486? - Ferrara, 1542), Melissa (1518 circa; olio su tela, 170 x 172 cm; Roma, Galleria Borghese)


Tiziano, Amor sacro e Amor profano
Tiziano Vecellio (Pieve di Cadore, 1488 circa - Venezia, 1576), Amor sacro e Amor profano (1515; olio su tela, 118 x 278 cm; Roma, Galleria Borghese)


Raffaello Sanzio (Urbino, 1483 - Roma, 1520), Madonna d'Alba (1511 circa; olio su tavola trasportata su tela, diametro 98 cm; Washington, National Gallery)
Raffaello Sanzio, Madonna d’Alba (1511 circa; olio su tavola trasportata su tela, diametro 98 cm; Washington, National Gallery)


 Albrecht Dürer (Norimberga, 1471 - 1528), Visione di sant'Eustachio (1501 circa; incisione, 350 x 259 mm; New York, Metropolitan Museum)
Albrecht Dürer (Norimberga, 1471 - 1528), Visione di sant’Eustachio (1501 circa; incisione, 350 x 259 mm; New York, Metropolitan Museum)

Perché a Dosso poco interessava fornire un esatto resoconto dei versi dell’Ariosto. L’operazione che infine compì è dunque d’un altro tipo: sommò varî momenti della storia (la descrizione della maga nel canto II, l’incontro del canto III rievocato dal cerchio magico e dalla torcia, la liberazione dei cavalieri del canto X) in una sola immagine. Un’immagine visionaria, onirica, al contempo potente e raffinata. Per un’operazione più conforme al suo estro, all’ambiente in cui Dosso coltivò il suo talento, e probabilmente più in accordo con l’esigenze del committente, chiunque egli fosse. Com’è per la Circe, anche per la Melissa, infatti, non abbiamo informazioni che possano aiutarci a comprendere quale fosse la sua iniziale destinazione. Ma se per la Circe è stata ipotizzata una committenza mantovana in virtù di successivi riscontri documentarî che potrebbero suffragare tale pensiero, per la Melissa gli scarsi elementi in nostro possesso potrebbero condurre, al contrario, a Ferrara. Sappiamo che era già a Villa Borghese nel 1650, quand’è citata nella guida di Jacopo Manilli che ne parla come di un quadro “di una maga che sta facendo incantesimi”: successivamente verrà registrata in maniera più particolareggiata, nell’inventario del 1693, come “un quadro grande in tela con una Donna che rappresenta una Maga con una torcia che accende el foco con un cane e altre figure a sedere”. E niente vieta di pensare che committente dell’opera possa essere stato lo stesso duca Alfonso I d’Este, e che il dipinto abbia conosciuto una sorte simile a quella di diverse opere ferraresi di Dosso poi finite a Roma perché cedute dai discendenti di Alfonso ai cardinali romani desiderosi d’arricchire le loro collezioni (Scipione Borghese acquistò varî dipinti dagli Este, tra cui il fregio dell’Eneide, e l’Apollo nel 1623 è attestato nella raccolta del cardinale Ludovisi).

La Melissa è il primo dipinto a tema ariostesco dell’arte italiana che si conosca, ma non solo per tale motivo rappresenta uno spartiacque nella carriera di Dosso. È l’apice del suo percorso giovanile, assieme al polittico Costabili è il punto più alto della sua personalissima fusione tra Giorgione e Tiziano, è forse anche la vetta della sua magia. Di lì in avanti la sua arte avrebbe accolto in maniera più marcata quel michelangiolismo che nella Melissa è appena in nuce, e che in seguito lo avrebbe condotto a un impasto più denso, a un più acceso vigore, a esiti più eroici, più monumentali, che avrebbero poi conosciuto ulteriori mutazioni al successivo contatto con l’arte di Giulio Romano. Un elemento rimaneva però invariato: la libertà estrema d’un artista lirico, fantasioso, spesso virtuoso, sempre animato dalla volontà di affrancarsi dalle fonti e d’interpretare i suoi modelli attraverso il suo sconfinato ingegno. Una libertà che ancor oggi ci consente d’assegnare a Dosso un ruolo trasversale rispetto ai canoni nei quali siamo soliti incasellare gli artisti del suo tempo. E lui è, effettivamente, un artista difficile da riassumere. Ma ci basti pensare che, nel canto XXXIII dell’Orlando Furioso, lui e suo fratello Battista sono citati dall’Ariosto (che probabilmente li conosceva di persona) nel novero dei grandi: “e quei che furo ai nostri di’, o sono ora / Leonardo, Andrea Mantegna, Gian Bellino, / duo Dossi, e quel che par sculpe e colora / Michel, più che mortale, Angel divino: / Bastiano, Rafael, Tizian, ch’onora / non men Cador che quei Venezia e Urbino”. Un artista tra i maggiori del suo tempo, che col suo gusto per il “trasmutare personaggi, dettagli e simboli”, usava “il pennello come una bacchetta magica”, secondo l’efficace immagine di Grazia Agostini. Un artista che, in sostanza, somigliava più a un poeta o a un mago, che a un pittore.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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