La Galatea di Elisabetta Sirani, la “pittrice eroina” che stupì i suoi contemporanei


La Galatea del Museo Civico di Modena è uno dei capolavori di Elisabetta Sirani, definita “pittrice eroina” da Carlo Cesare Malvasia, e autrice di una piccola rivoluzione nella storia dell'arte.

Elisabetta Sirani, perla preziosa della pittura secentesca, aveva l’eccentrica e raffinata consuetudine d’apporre la sua firma nei dettagli più insoliti e impensabili dei suoi garbati dipinti: una fila di bottoni, il polsino d’una camicia, lo schienale d’una sedia. Nella Galatea, l’ultima tela che Elisabetta eseguì per il marchese Ferdinando Cospi, uno dei suoi primi mecenati, il suo nome è cucito in oro sul bordo del cuscino dove la Nereide adolescente s’è adagiata. Indugiare su questa firma non è però solo una curiosità per richiamar l’attenzione d’un osservatore svagato: significa, intanto, concentrarsi sulla maniera matura della giovanissima artista. Non ci son dubbî sul fatto che si possa parlare di piena maturità parlare per quest’artista prematuramente scomparsa a soli ventisette anni: nonostante la verde età, in questa Galatea Elisabetta si palesa già come un’artista non solo indipendente, ma anche pienamente consapevole dei proprî mezzi. La sua pennellata è piena, pastosa, sensuale, dà corpo a un disegno libero e spontaneo, che cerca l’effetto di chiaroscuro per render le figure più espressive e movimentate: e in questa sua ricerca dell’appagamento dei sensi tramite unione di disegno e colore, la giovane bolognese non si discostava dai suoi maestri, ovvero Guido Reni e il Guercino, in una linea di diretta discendenza che rimonta al Correggio. Maestri ideali, ovviamente: Guido Reni, ad esempio, scomparve quando Elisabetta aveva solo quattro anni, ma la sua lezione le arrivò per tramite del padre, Giovanni Andrea Sirani, che fu scolaro di Guido nonché suo assistente più prossimo e la cui fama, si può dire senza tema di smentita, è stata aduggiata dal talento della figlia.

Un talento che le era riconosciuto anche dai suoi contemporanei, sbalorditi dalla sapienza compositiva della ragazza, dalla maestria del suo disegno, da quella folgorante prontezza che i suoi colleghi ammiravano quasi increduli mentre la osservavano al lavoro. Per Baldassarre Franceschini, che l’aveva veduta all’opera nel suo studio, Elisabetta era “il meglio pennello che fusse a Bologna”. E si riprenda poi la Felsina pittrice di Carlo Cesare Malvasia, si rileggano le parole che lo storiografo riservò a Elisabetta Sirani. Anzitutto, il brano in cui Malvasia condensa la perizia tecnica della giovane: “presa ben tosto la matita, e giù postone speditamente in duo segni su carta bianca il pensiero (era questo il suo solito modo di disegnare da gran maestro appunto, e da pochi praticato, né meno dal Padre istesso, che non me ne lascerà mentire), intinto il picciol pennello in acquerella d’inchiostro, ne faceva apparire ben presto la spiritosa invenzione, che si poteva dire senza segni disegnata, ombrata, ed insiem lumeggiata tutto in tempo”. E si riveda quale profusione d’aggettivi e di complimenti Malvasia riserva all’artista: “amabile fuor di misura”, “degna d’una fama eterna”, “prodigio nell’arte”, “gemma d’Italia”, “sole della Europa”, e quel “pittrice eroina” che potremmo prendere a base per comprendere il portato storico dell’arte di Elisabetta Sirani.

I contemporanei apprezzavano la sua rapidità d’ingegno, l’originalità delle sue interpretazioni, la felicità delle sue invenzioni. E lei rivendicava con orgoglio il suo talento: ed ecco che si torna alla rilevanza delle sue firme, dacché è in questo senso che occorre leggere le numerose occorrenze del suo nome nei suoi lavori, caso decisamente strano per un’epoca in cui i dipinti non si firmavano di frequente. Per Elisabetta Sirani, poi, era anche un’esigenza, un espediente assertivo a cui l’artista ricorreva per affermare la propria autorità, qualora a qualcuno fosse venuto in mente di sospettare dell’autografia dei suoi lavori. E purtroppo non si trattò solo d’un modo per prevenire: si può solo immaginare quanto la giovane dovesse esser frustrata per quelle maldicenze cui il marchese Cospi alludeva in una lettera inviata nel 1662 a Leopoldo de’ Medici, nella quale il nobile si trovava costretto a difendere la bontà del lavoro di Elisabetta.

Elisabetta Sirani, Galatea (1664; olio su tela, 43 x 58,5 cm; Modena, Museo Civico d’Arte)
Elisabetta Sirani, Galatea (1664; olio su tela, 43 x 58,5 cm; Modena, Museo Civico d’Arte)


Elisabetta Sirani, Galatea, dettaglio della firma
Elisabetta Sirani, Galatea, dettaglio della firma

Cospi, legato ai Medici da vincoli di parentela, ebbe il merito d’aver presentato la pittura di Elisabetta Sirani alla corte fiorentina, oltre che quello d’averle commissionato sei dipinti: la Galatea, oggi al Museo Civico di Modena (al quale pervenne nel 2008 col legato del commercialista Carlo Sernicoli, che volle donare all’istituto due importanti nuclei collezionistici), è, come s’è anticipato, l’ultima tela che la ragazza eseguì per il marchese: negl’inventarî antichi del “Museo Cospiano” figura come “una galatea con varii amorini”. L’artista eseguì il quadro, che peraltro ancora conserva la sua cornice originale ricca di conchiglie e delfini per sottolineare il tema marino, un anno prima della sua scomparsa. Lo sappiamo perché Elisabetta era anche estremamente meticolosa nella vita quotidiana e teneva un diario, di cui abbiam perduto l’originale ma del quale conserviamo la riproduzione di Malvasia, in cui annotava gli accadimenti delle sue giornate, opere d’arte incluse: così, nel diario, anch’esso un unicum per una donna del tempo, il quadro viene minuziosamente descritto come “una Galatea picciola in mare, guidata da duoi delfini, con duoi amoretti, uno de’ quali urta in certe cappe, dove è stesa la detta Galatea, e l’altro le presenta una madreperla aperta con varie perle, dove ella sta in atto di levarne una, per l’illustriss. sig. marchese Senatore, e Balì Ferdinando Cospi”.

È un dipinto oltremodo significativo, dacché se ne possono desumere molti caratteri dell’arte di Elisabetta Sirani. Si diceva che i contemporanei si mostravano ammirati per l’originalità delle sue invenzioni: e qui, anziché ripetere la consueta iconografia della Galatea in trionfo o in compagnia del suo amato Aci, oppure in rapporto dialettico con l’amante non corrisposto, il ciclope Polifemo, la pittrice restituisce una Galatea (minuta, dai lineamenti dolci, col cerchietto in capo a fermare un’acconciatura alla moda) che si lascia semplicemente trasportare dalle onde, assieme a due amorini, sullo sfondo d’un cielo cupo e sui flutti d’un mare ancor più fosco. Il vigore del suo disegno, un vigore che ai contemporanei poteva financo apparire mascolino, emerge con manifesta chiarezza non solo dal fortissimo chiaroscuro che modella gli amorini e la ninfa stessa, ma anche dai segni e dalle pieghe di quell’irreale panno rosso svolazzante, una specie di vela gonfiata dal vento, desunta da omologhe idee d’un Francesco Albani, che porterà lontana la conchiglia, sulla quale, per non esser troppo scomoda nel viaggio, la nereide ha sistemato il fine cuscino di raso vermiglione con le impunture dorate. E con quale leziosa grazia la ninfa adolescente sceglie una perla dal piattino che le viene offerto dal putto alato, prendendola delicatamente con indice e pollice e sollevando le altre dita: si potrebbe scorgere, in questo movimento, così come nella figura della ninfa dai tratti quasi infantili, una sorta di sunto dei soggetti di Elisabetta. Fiorella Frisoni ha scritto che la Galatea, con quel “gesto affettato di scegliere la perla”, con “il busto esile e le gambe tornite”, “ben rappresenta l’umanità cara a Elisabetta, un po’ fanciulla, ma anche mondana”.

È questo il suo ideale femminile, si potrebbe dire: una donna giovane, delicata, femminile, orgogliosa. Esattamente come lo era lei: si diceva, sopra, del portato storico della sua arte. Nel 2001, Adelina Modesti ha scritto che il principale significato della figura di Elisabetta sta nella “professionalizzazione della pratica artistica femminile, attraverso lo sviluppo d’un metodo di formazione professionale per le donne, al di fuori del tradizionale modello dell’uomo mentore (le artiste donne imparavano infatti il loro mestiere col tramite di colleghi uomini: padri, mariti, fratelli), e quindi nell’aver creato ampie strade per la produzione culturale femminile e per la trasmissione femminile della conoscenza, essendo stata educatrice e modello per la successiva generazione di donne artiste”. Ecco dunque la novità: una maestra donna, peraltro pienamente riconosciuta dacché Elisabetta figura come professore nei registri dell’Accademia di San Luca, che insegnava ad altre donne. Si possono anche tralasciare le mitografie che potrebbero scaturire dall’effluvio di lusinghe che scorre tra le pagine di Malvasia, ma quando si considera Elisabetta Sirani nel suo ruolo di capofamiglia e di capomaestra della bottega, assunto per necessità indotta dalla seria infermità che colpì il padre nel 1662, quando si considera il successo di cui i lavori godettero, diviene impossibile ridimensionare il suo significato storico. “Il suo lascito”, ha ricordato ancora di recente Modesti, “consiste nell’aver dischiuso vie alternative all’istruzione destinata alle donne, aprendo la sua bottega a fanciulle che (nate spesso in famiglie di artisti, ma talora anche in ambienti nobiliari), intendevano avventurarsi nel campo delle arti figurative”. Una donna che ottiene successo in un mestiere riservato tipicamente agli uomini arrivando persino a insegnarlo, una nuova alternativa al “modello del mentore maschile” allora imperante germogliata nel terreno fecondo della Bologna colta nella seconda metà del Seicento.

Se ti è piaciuto questo articolo, leggi i precedenti della stessa serie: il Concerto di Gabriele Bella; la Ninfa rossa di Plinio Nomellini; l’Apparizione di Cristo alla madre del Guercino; la Maddalena di Tiziano; le Mille e una notte di Vittorio Zecchin; la Trasfigurazione di Lorenzo Lotto; il Tobia e l’angelo di Jacopo Vignali; il Profumo di Luigi Russolo; Novembre di Antonio Fontanesi; i tondi di san Maurelio di Cosmè Tura, la Madonna col Bambino e Angeli di Simone dei Crocifissi, le Bilance a bocca d’Arno di Francesco Gioli, lo Specchio della vita di Pellizza da Volpedo.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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