Ormai, il famigerato anatema di Roberto Longhi “Buona notte signor Fattori” lanciato ai macchiaioli e a Giovanni Fattori, è stato messo da parte. Il critico piemontese aveva tacciato l’esperienza toscana di provincialismo, capace di produrre solo opere retoriche e oleografiche, abitate da struggenti vedutine, garibaldini a riposo e l’amena campagna, riconoscendo l’assoluto predominio dell’esperienza parigina moderna. E se ad oggi ancora in pochi si spingerebbero nell’audace e impopolare scelta di preferire la compagine macchiaiola a quella impressionista, ormai più nessuno disconosce i meriti alla compagine toscana. E anzi, il proliferare di mostre dedicate agli artisti macchiaioli indica come questi ultimi incontrino l’apprezzamento di pubblico.
In questa rivalutazione, il ruolo di Giovanni Fattori è noto a qualsiasi appassionato d’arte, mentre non altrettanto si può dire per il fondamentale contributo che egli diede al rinverdimento della tradizione incisoria italiana moderna, che lui più che chiunque altro deve ringraziare. Questa tiepida fortuna critica è probabilmente da imputare a due motivi: il primo è che la produzione grafica di Giovanni Fattori si può ammirare di raro, nonostante collezioni complete si trovino al Gabinetto dei Disegni e delle Stampe di Firenze, all’Università di Pisa, al Museo Fattori di Livorno e l’Accademia Carrara di Bergamo (le opere su carta sono delicate, e spesso esporle richiede espedienti e tecniche museali non a buon mercato, tanto che alla fine si trovano difficilmente in mostra). L’altra motivazione è la condanna che ancora pesa sulla tecnica artistica dell’incisione, che, nonostante innumerevoli proseliti, viene ancora inclusa nel sottoinsieme delle arti minori. Ma la produzione di Fattori con questa tecnica non può certo esser considerata meno delle grandi tele con le battaglie del nostro Risorgimento, e delle più sciolte e libere pitture su tavolette di piccolo formato, in cui la realtà irrompe in un perimetro circoscritto, per cui il livornese è annoverato fra i grandi dell’arte.
In particolare, nel campo della stampa il livornese si confrontò con la tecnica dell’acquaforte, un processo su cui una lastra di metallo (solitamente rame o zinco) viene pulita, preparata e coperta di cera, su cui l’artista incide il suo disegno, e successivamente viene immersa in un mordente acido, per scavarne i solchi. Infine, la lastra viene inchiostrata e grazie ad un torchio il disegno impresso su carta. Una tecnica complessa di cui “altri certo fu più esperto di lui, se per perizia s’intende sfruttamento paziente dei piccoli segreti della vernici e della morsura, ma nessuno del suo tempo disse una parola più definitiva, con una forza così rude e sincera”, commentava l’illuminato studioso e collezionista Lamberto Vitali riguardo alla tecnica di Fattori.
Giovanni Fattori, Bovi al carro (Maremma) (1886 -1887; acquaforte su zinco) |
Giovanni Fattori, Donna del Gabbro (antecedente il 1888; acquaforte su zinco) |
Giovanni Fattori, Palude (primi anni del XX secolo; acquaforte su zinco) |
Giovanni Fattori, Adua (primi anni del XX secolo; acquaforte su zinco) |
Giovanni Fattori, Somarello al sole (primi anni del XX secolo; acquaforte su zinco) |
L’attività incisoria per Fattori non fu un’episodica esperienza, ma fu costante durante tutta la sua parabola creativa e ricostruire cronologicamente questa produzione è un’impresa ancora irrisolta, a causa dei pochi documenti, e delle stampe quasi mai datate e numerate. L’artista toscano doveva aver acquisito una certa confidenza con le tecniche a stampa già nel 1859, quando, ritornato a Livorno, affermava infatti di esser stato “costretto a far disegni sulle pietre litografiche per giornali” per mantenersi. Ma solo in età matura avrebbe sondato con grande esercizio le potenzialità espressive dell’acquaforte. Nel 1880 gli venne commissionata dalla Società delle Belle Arti la traduzione in acquaforte del suo celebre dipinto Carica di cavalleria custodito alla Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti: una ragione sufficiente per credere che a quella data le doti di Fattori come incisore dovevano già essere ampiamente note. Mentre nel 1888, 21 fogli esposti alla Mostra nazionale di Bologna vennero acquistati dal ministero della Pubblica istruzione per la Galleria Nazionale d’arte moderna di Roma. Nel 1900 da Roma, all’insaputa di Fattori, l’acquaforte Bovi al carro (Maremma) venne inviata all’Esposizione Universale di Parigi dove ottenne la Medaglia d’oro. Ed è in quella occasione che, scrivendo a Renato Fucini, il livornese disse: “Scusa non è da ridere vedermi medagliare e d’oro per incisioni all’acquaforte? io incisore, ma chi l’avrebbe mai pensato?! tutti meno che me, e tanto è vero che le mie lastre stavano su un armadio alla polvere a rovinarsi e a macchiarsi”.
Questa dichiarazione è stata in tempi passati interpretata dalla critica come la prova che Fattori tenesse di poco conto questa sua produzione, ma piuttosto sembra rispondere all’immagine di artista disinteressato, poco colto, astratto e lontano dal circuito dell’arte, che Fattori costruì per tutta la vita, tenendosi lontano da riflettori o dalle sirene suadenti delle mode europee. Successivamente, ebbe la nomina a membro della Commissione Artistica della Calcografia Italiana (carica che ricoprì dal 1901 al 1905).
A dimostrazione di come il continuo esercizio incisorio non sia da ritenersi un mero rifugio dell’artista dalla sua produzione pittorica, ma sia anzi pratica fondante della sua creatività, è anche la data di alcune incisioni, come Due Amici del 1907, eseguita quando ormai il pittore era già molto vecchio e stanco. Sono oltre 180 le lastre ad oggi conosciute, che egli incise e produsse lungo tutto il corso della sua vita matura. Tale produzione non fu pertanto un riposo o uno sfogo per il livornese, piuttosto “un bisogno irresistibile”, come scriveva Luigi Servolini, “la necessità di completare il suo mondo, di interpretare la ragione poetica”. Giovanni Fattori fu senz’altro consapevole del valore che quest’arte rivestiva ai fini della sua ricerca artistica, nella volontà di un’espressione intima delle cose, spogliate da tutto ciò che è accessorio.
Giovanni Fattori, Don Chisciotte (primi anni del XX secolo; acquaforte su zinco). Oscar Ghiglia ne possedeva una stampa a cui era molto affezionato. |
Giovanni Fattori, Il ritorno a casa (primi anni del XX secolo; acquaforte su zinco) |
Giovanni Fattori, L’ora della ricreazione (primi anni del XX secolo; acquaforte su zinco) |
L’artista riconsegna dignità al mezzo grafico, riconoscendo un’autonomia propria a questa tecnica, rispetto ad artisti come Fontanesi e Signorini che confrontandosi con le incisioni cercarono sempre effetti pittorici o riferimenti letterari. Talvolta si è voluto credere che il macchiaiolo avesse poca dimestichezza con la tecnica dell’acquaforte, poiché non di rado nei suoi fogli si vedono imprecisioni, distacchi di vernice, puntinature dovute alle difettose applicazioni della vernice, oppure ad un errato controllo della morsura, o infiltrazioni di acido. Ma ciò semmai mostra la sua idiosincrasia per ogni norma e convenzione. Fattori rivoluziona la pratica e intende la piccola lastra di metallo non come si era usi a quel tempo, come un materiale prezioso a cui affidare il lavoro ultimo e studiatissimo, ma alla stregua di un foglio per gli appunti, recante con sé errori, la genesi del gesto e del segno. Si racconta perfino che portasse con sé le lastre quando disegnava le sue impressioni en plein air.
Soprattutto agli esordi, l’artista stampò per conto suo, con l’aiuto di fedeli allievi, utilizzando il piccolo torchio a mano, regalatogli da Cristiano Banti, e che oggi si conserva al Museo Fattori di Livorno. Grazie anche a questa pratica anticonvenzionale, il pittore seppe creare opere originalissime, dove le imprecisioni non danneggiano l’insieme, ma spesso lo esaltano, tanto da chiedersi se talvolta non fossero volute dal maestro.
I soggetti delle sue opere incisorie sono gli stessi che affollano le sue pitture: quelle freschissime e spontanee scene di vita della Toscana prettamente agricola del XIX secolo, che talvolta ripete con entrambi i mezzi, ma con soluzioni sempre diverse. Paesaggi qualche volta spogli e sintetici, costruiti su una successione di piani calibrati, ma anche la vita di fatica, contadini, carbonai, i potenti butteri o gli animali sfiancati dal duro lavoro, o ancora le manovre militari e scene di vita dagli accampamenti. Istantanee che rendono la necessità e l’urgenza espressiva di Fattori, in cui attraverso l’istinto e una propria sensibilità rilegge i suoi soggetti e li evoca con un’energia vitale, frutto di una sua personale rilettura. Affida tutto al segno, rifuggendo certi virtuosismi grafici e sinuosi in voga nell’incisione ottocentesca o i chiaroscuri. Il segno sembra mettere in risalto la struttura primigenia delle cose, scarnificando tutto ciò che è superfluo e asciugando la composizione.
Il suo continuo esercizio grafico e la sua naturale disposizione svelano a Fattori il segreto del segno nudo e pulito, che si reinventa di volta in volta per adattarsi alle necessità comunicative, ma sempre orchestrato da una naturale visione organica. Talvolta le opere mostrano un brulichio di segni, che diventano radi e calcolati, altri graduati di spessori, sempre con andamenti diversi, linee parallele e affilate, o tratti grassi e granulosi, incrociati a spire o risolti in grovigli. Servolini sosteneva che Fattori, non potendo trasporre la macchia in acquaforte, aveva affidato tutto il segreto della sua arte al segno. Un segno che poi nel XX secolo avrebbe aperto la strada a molti artisti, dalle grafiche di Boccioni a Morandi e Viviani, e perfino il giovane Modigliani dovette nutrire una certa fascinazione per un tratto così nitido e costruttivo.
Giovanni Fattori, Bovi (primi anni del XX secolo; acquaforte). Secondo Andrea Baboni “una delle più straordinarie incisioni dell’Ottocento tutto”. |
Giovanni Fattori, Pagliaio (1880 circa; olio su cartone, 24 x 42 cm; Livorno, Museo Civico Giovanni Fattori) |
Giovanni Fattori, Pio bove (primi anni del XX secolo; acquaforte su zinco). Rielabora il paesaggio del dipinto Pagliaio |
Giovanni Fattori, Sulla spiaggia (1893 circa; olio su tela, 69 x 100 cm; Livorno, Museo Civico Giovanni Fattori) |
Giovanni Fattori, Sulla spiaggia livornese (primi anni del XX secolo; acquaforte su zinco). Ripropone la figura del pescatore\marinaio di spalle del dipinto Sulla spiaggia |
Ulvi Liegi, Giovanni Fattori mentre incide (1902; acquaforte) |
L’artista toscano diede vita, grazie alle acqueforti, a riletture di precedenti opere, che però nella disposizione grafica acquisirono nuova vitalità. È il caso della stampa Donna del Gabbro, dove il tema della contadina di spalle viene rielaborato con una maggiore monumentalità, non solo memore del pieno Rinascimento, ma addirittura anticipatrice di certe soluzioni volumetriche del movimento Novecento. Diversissima la risoluzione di un’opera come Contadino e buoi dove la trama sottile e brulicante trascura ogni effetto plastico nella ricerca di un estremo rigore formale, mentre il reticolato complesso in Adua sembra voler sottolineare la drammaticità della scena, con l’animale al centro senza padrone, mentre in basso a sinistra si vedono i relitti di una battaglia, fra cui una mano. Nel foglio Palude, affida alle larghe campiture bianche il segreto di evocare la trasparenza delle acque, in una composizione che sembra memore anche delle stampe giapponesi, mentre in Somarello al sole la superficie bianca apre a una soluzione sorprendente, assolvendo al ruolo di forma e luce. Ne Il ritorno a casa si trova un altro tipico brano di Fattori, con le assolate stradine che l’incisore Lorenzo Bartolini definì “le più belle strade disegnate di tutta l’arte di tutti i tempi”. Altre opere sembrano realmente anticipatrici di ricerche successive dell’avanguardie del XX secolo, come Bovi, dove il soggetto tanto caro viene quasi astratto, divenendo un’idealizzazione di forme primordiali, un significato assoluto, reso attraverso una sfrontata sintesi grafica mediata da una geniale intuizione formale.
Come si augurava il grande critico Matteo Marangoni, ad oggi è stato scritto più di un “capitolo apposta sulle acqueforti di Fattori”, soprattutto grazie all’impegno di Andrea Baboni, e forse i tempi sono maturi per mostrare nuovamente e fare apprezzare al grande pubblico questa straordinaria produzione, fra le più alte del XIX secolo e forse dell’intera storia dell’arte.
L'autore di questo articolo: Jacopo Suggi
Nato a Livorno nel 1989, dopo gli studi in storia dell'arte prima a Pisa e poi a Bologna ho avuto svariate esperienze in musei e mostre, dall'arte contemporanea, alle grandi tele di Fattori, passando per le stampe giapponesi e toccando fossili e minerali, cercando sempre la maniera migliore di comunicare il nostro straordinario patrimonio.