Il Monumento equestre a Giovanni Acuto di Paolo Uccello, un simbolo del Rinascimento


Tutta la storia del Monumento equestre a Giovanni Acuto di Paolo Uccello, conservato nel Duomo di Firenze.

Percorrendo verso nord la strada che collega Cortona a Castiglion Fiorentino, si noterà sulla destra il Castello di Montecchio Vesponi: fino alla fine del Trecento, questa fortezza appartenne al condottiero inglese John Hawkwood (Sible Hedingham, 1320 circa – Firenze, 1394), il cui nome fu italianizzato in Giovanni Acuto, e che oggi è celebre soprattutto per essere stato dipinto da Paolo Uccello (Paolo di Dono; Pratovecchio, 1397 – Firenze, 1475) in uno degli affreschi più celebri del Rinascimento, il Monumento equestre a Giovanni Acuto che si trova nella navata sinistra della Cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze. Giovanni Acuto aveva occupato negli anni Ottanta del XIV secolo il castello di Montecchio Vesponi, che si erge solitario sopra un colle che domina la strada sottostante, con il benestare della Repubblica di Firenze, per la quale il capitano di ventura avrebbe in seguito prestato servizio fino alla fine dei suoi giorni: scomparve infatti a Firenze il 14 marzo del 1394, e fu sepolto con grandi onori nel duomo cittadino, anche se poi, a seguito di una richiesta del re Riccardo II d’Inghilterra, le spoglie furono traslate nella natia Sible Hedingham, cittadina dell’Essex non lontana da Londra. Fu proprio per onorare la memoria del guerriero che la Repubblica di Firenze commissionò a Paolo Uccello il grande ritratto equestre, da collocare nella cattedrale.

Hawkwood si distinse da giovane durante la guerra dei cent’anni, sotto il regno di Edoardo III (anche se si sa poco delle sue imprese militari di questo periodo): a seguito della pace di Brétigny, che sancì la fine della prima parte della guerra, Hawkwood si trasferì in Francia dove, nel 1362, fondò la sua compagnia di ventura (le compagnie di ventura erano piccoli eserciti privati che combattevano per gli Stati che li ingaggiavano dietro compenso), la “Compagnia Bianca”. Il condottiero inglese lavorò dapprima per Giovanni II Paleologo, marchese del Monferrato, nella sua guerra contro Amedeo VI di Savoia, dopodiché, nel 1363, fu assunto da Pisa (era al comando dell’esercito pisano sconfitto dai fiorentini nella battaglia di Cascina divenuta celeberrima in quanto tema che Michelangelo avrebbe dovuto affrescare in Palazzo Vecchio nel Cinquecento), e quindi da Bernabò Visconti, signore di Milano. Nel 1372 combatté contro Firenze per papa Gregorio XI, sotto il quale rimase fino al 1377: durante questo periodo, fu attivo soprattutto nelle campagne in Romagna (ancora oggi, a Cotignola, si trova la torre che da lui fu fatta costruire nel 1376: distrutta dai tedeschi nel 1944, fu poi ricostruita nel 1972). Una volta scaduta la condotta (il contratto stipulato tra il capitano di ventura, per questo definito “condottiero”, e il datore di lavoro) che lo legava al pontefice, Hawkwood tornò in Inghilterra, salvo prestare i suoi servigi ancora in qualche occasione: per esempio, fu assunto dai signori di Padova per i quali combatté la battaglia di Castagnaro contro Verona nel 1387, ritenuta la sua più grande vittoria. A seguito di questo evento, il guerriero inglese cominciò a combattere per i fiorentini: prestò il suo servizio durante la guerra tra Firenze e Milano a partire dal 1390, conducendo una campagna in Lombardia nella primavera-estate del 1391 (in quest’occasione si distinse per un’abile ritirata che garantì ai fiorentini di evitare lo scontro coi milanesi) ed ebbe anche un certo peso nelle vicende politiche locali, fino alla sua scomparsa avvenuta, come ricordato, nel 1394.

La storia ricorda Giovanni Acuto come un capitano di ventura spesso fin troppo zelante (come quando nel 1375, inviato da Gregorio XI a Città di Castello per reprimere una ribellione, finì per occupare la città, contro il volere del suo datore di lavoro), e come condottiero che si comportava spesso “come una scheggia impazzita, cosa che fa regolarmente quando non ha alcun ingaggio da onorare” (così lo storico Duccio Balestracci, autore di un approfondito studio sulla sua figura), rigidissimo quando si trattava di riscuotere i compensi, dotato di grandi abilità di stratega ma con la carriera macchiata da alcuni episodi turpi. Le sue truppe in alcune occasioni si abbandonarono a stupri, uccisioni immotivate e saccheggi: è tristemente ricordato, in questo senso, un episodio poco noto della storia d’Italia (oltre che il più buio della carriera di Hawkwood), il massacro della popolazione inerme di Cesena nel 1377 (noto anche come “Sacco dei Bretoni” o “Massacro dei Bretoni”, per via dell’origine di una parte dei soldati della compagine di Hawkwood, composta per lo più da uomini bretoni e inglesi), quando le truppe di Giovanni Acuto misero a ferro e fuoco la città dopo che era scoppiata una rissa tra gli abitanti e alcuni suoi soldati, che pure non avrebbero avuto motivo di attaccare Cesena, essendo una città pontificia e dal momento che la Compagnia Bianca a quel tempo lavorava per il papa. All’epoca dei fatti, i soldati britannici si erano acquartierati a Cesena in quanto impegnati nell’assedio della vicina e ribelle Bologna: per fermare il tumulto scoppiato dopo la rissa, il legato pontificio dell’Italia settentrionale, Roberto di Ginevra, chiese ad Hawkwood di inviare rinforzi, che puntualmente arrivarono, e nonostante la resa degli abitanti, la soldataglia del condottiero inglese sottopose la popolazione a continue violenze (esistono agghiaccianti resoconti dell’epoca, come la lettera inviata dal cancelliere di Firenze, Coluccio Salutati, ai sovrani europei per denunciare l’accaduto), saccheggiò il più possibile, e massacrò migliaia di persone (forse tra le 2.500 e le 5.000: non furono risparmiati vecchi, donne e bambini, e fu uno dei peggiori eccidi dell’Italia medievale), tanto che, racconta un cronista riminese del tempo, “tucte le piaze de Cesena erano piene de omini e femene morte”. Molte fonti dell’epoca sono tuttavia concordi nell’attribuire la responsabilità della mattanza a Roberto di Ginevra e nel dipingere Giovanni Acuto come inizialmente titubante dinnanzi agli ordini del legato pontificio, e come poco propenso a scatenare un massacro (secondo alcuni avrebbe anche messo in salvo un migliaio di donne, facendole fuggire verso Rimini, risparmiandole così a una sorte nefasta: le donne che non venivano uccise avevano altissima probabilità di essere violentate).

Paolo Uccello, Monumento equestre a Giovanni Acuto (1436; affresco trasportato su tela, 855 x 527 cm; Firenze, Cattedrale di Santa Maria del Fiore)
Paolo Uccello, Monumento equestre a Giovanni Acuto (1436; affresco trasportato su tela, 855 x 527 cm; Firenze, Cattedrale di Santa Maria del Fiore)
Paolo Uccello, il Monumento equestre a Giovanni Acuto nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore vicino al Monumento equestre a Niccolò da Tolentino di Andrea del Castagno
Paolo Uccello, il Monumento equestre a Giovanni Acuto nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore vicino al Monumento equestre a Niccolò da Tolentino di Andrea del Castagno
Il Castello di Montecchio Vesponi (Arezzo) appartenuto a Giovanni Acuto
Il Castello di Montecchio Vesponi (Arezzo) appartenuto a Giovanni Acuto. Foto di Francesco Bini
Il Castello di Montecchio Vesponi
Il Castello di Montecchio Vesponi. Foto Visit Tuscany

A Firenze, malgrado la condotta spesso tutt’altro che esemplare, e malgrado il suo comportamento col fisco quanto meno disinvolto (oggi lo inseriremmo tra gli evasori fiscali: nei documenti che lo riguardano abbondano le contestazioni da parte del Comune di Firenze e i condoni che dimostrano il trattamento di favore dei fiorentini nei suoi riguardi), Giovanni Acuto fu sempre trattato in modo benevolo, tanto che la città pensò di onorarlo con un monumento quando era ancora in vita: già nel 1392, a Firenze passò una delibera nella quale si stabiliva di costruire un cenotafio per non perdere il ricordo del condottiero dopo la sua dipartita, e si prescriveva l’utilizzo della pietra, con ornamenti in marmo. Celebrare con un monumento un condottiero che aveva reso buoni servigi alla città era, tra il Tre e il Quattrocento, prassi comune. L’eccezionalità del provvedimento stava semmai nel fatto che veniva preso con il condottiero ancora in vita.

Ad ogni modo, la delibera fiorentina giunse con macabro tempismo perché solo pochi mesi dopo Giovanni Acuto moriva, ma il progetto di costruire un monumento scolpito non andò in porto, perché contestualmente, nel 1395, partirono anche lavori di ristrutturazione all’interno del Duomo, e si risolse per un monumento dipinto, affidato ad Agnolo Gaddi e Giuliano d’Arrigo.

Per quali ragioni la figura di Giovanni Acuto era ritenuta talmente importante da meritare un monumento nella Cattedrale? Quando passò definitivamente al soldo dei fiorentini nel 1387 (già percepiva da Firenze un vitalizio, che gli venne concesso a patto che non impugnasse le armi contro la città), Giovanni Acuto, scrive Balestracci, rappresentava intanto “il prototipo di quello che sarà il nuovo rapporto fra un condottiero e i suoi committenti […], non più costituito da prestazioni passeggere ma da un legame esclusivo e duraturo fra un capitano e uno Stato”. La figura di Hawkwood era dunque percepita come molto legata alla città di Firenze. Inoltre, la Repubblica aveva stima di un condottiero che si era comunque distinto anche per la sua lealtà, oltre che per gli episodi della campagna del 1391. E ancora, negli anni Trenta del Quattrocento si erano aggiunti motivi propagandistici che portarono Firenze a decidere di commissionare il nuovo monumento a Paolo Uccello: “l’oligarchia fiorentina che fa capo ai Medici”, spiega ancora Balestracci, “sta cominciando a costruire la soffice trasformazione delle forme istituzionali cittadine piegandole sempre di più nella direzione già assunta dopo le chiusure degli anni Ottanta del Trecento. In questo quadro, le figure dei condottieri, fiorentini o che hanno combattuto per Firenze, subiscono un ritorno di popolarità proprio perché in grado di trasmettere il messaggio della grandezza e della plurisecolare gloria militare della città, virtù delle quali l’élite politica in ascesa si propone come erede, garante e continuatrice”.

Fu dunque nel maggio del 1436 che il Comune, ricordando il progetto di quarant’anni prima, deliberò affinché “si rifaccia la figura del signor Giovanni Hauto nel modo e forma che lu altre volle dipinta”. Si optò di nuovo per la forma dipinta perché un monumento in marmo sarebbe costato troppo e l’incarico venne affidato a Paolo Uccello che era visto come pittore particolarmente adatto a raffigurare un uomo d’arme (di lì a poco, l’artista avrebbe del resto dipinto la celeberrima Battaglia di San Romano). L’artista impiegò appena un mese per terminare il lavoro, completato a fine giugno: il Comune tuttavia impose all’artista di rifarla, per ragioni che ancora non sono state chiarite. Il secondo monumento equestre a Giovanni Acuto, quello che ancor oggi possiamo vedere, venne infine consegnato il 31 agosto.

Paolo Uccello raffigurò Giovanni Acuto, in armatura, con la berretta del condottiero tipica del tempo (simile, per esempio, a quella del Federico da Montefeltro di Piero della Francesca: Paolo Uccello è il primo a fornirne una rappresentazione pittorica), e con un mantello, in sella al suo cavallo bianco, di profilo, e dipingendo anche la figura del condottiero in un monocromo in terra verde sapientemente declinato in un suggestivo chiaroscuro per dare all’osservatore la sensazione di ammirare un monumento di marmo: le uniche note di colore sono date dal rosso che Paolo Uccello utilizzò per il bastone del comando di Giovanni Acuto e per le leggere bardature del cavallo, oltre che per la sella e le staffe. Il cavallo, che avanza all’andatura dell’ambio, e quindi solleva le zampe della parte destra del corpo, con quella anteriore piegata, sta sopra un basamento dov’è possibile leggere la firma dell’artista (“Pauli Ugielli Opus”, “opera di Paolo Uccello”) e l’iscrizione che rammenta le qualità del condottiero: “Ioannes Acutus eques britannicus dux aetatis suae cautissimus et rei militaris peritissimus habitus est” (“Giovanni Acuto, cavaliere britannico, che fu uno dei più accorti comandanti della sua epoca ed espertissimo di cose militari”: la scritta fu dettata, con delibera del 17 dicembre 1436, dall’umanista Bartolomeo di ser Benedetto Fortini). Sotto, una mensola accoglie, ripetuto due volte, lo stemma del condottiero.

Dettaglio del cavallo e del cavaliere
Dettaglio del cavallo e del cavaliere
L'iscrizione sul sarcofago
L’iscrizione sul sarcofago
Il basamento
Il basamento

Una delle particolarità di questo dipinto, oltre al monocromo, sta nell’adozione di due diverse strutture prospettiche: si nota infatti che il basamento è fortemente scorciato dal basso, immaginando il punto di vista di chi osservava il Monumento equestre a Giovanni Acuto all’interno della chiesa, mentre la figura del cavallo e del cavaliere sono rigidamente frontali, con tutta probabilità perché insistere su uno scorcio ribassato avrebbe posto enfasi sul corpo del cavallo togliendo dignità alla figura. Non dobbiamo immaginare che il ritratto riproduca fedelmente l’aspetto di Giovanni Acuto: intanto, Paolo Uccello lavorò più di quarant’anni dopo la scomparsa dell’uomo d’arme e non poteva dunque avere una sua conoscenza diretta, e si trovò pertanto a doversi basare sull’immagine dipinta nel 1395 da Agnolo Gaddi e Giuliano d’Arrigo. Inoltre, il problema principale non era quello di restituire una raffigurazione fedele del condottiero, quanto di trasmettere un’immagine del suo valore: per questo la sua figura appare astratta, e in certi punti addirittura geometrizzante (si veda, per esempio, la curva descritta dal collo del cavallo, o quella della giornea, ovvero la sopravveste militare, dello stesso Giovanni Acuto, per non parlare della ginocchiera dell’armatura di cui Paolo Uccello esalta la perfezione delle forme circolari).

L’immagine che il pittore fiorentino si trovò a dipingere costituiva un qualcosa di decisamente innovativo per l’epoca. È stato suggerito che Paolo Uccello dovette guardare ai rarissimi modelli provenienti dall’antichità, come il monumento equestre di Marco Aurelio a Roma, o al perduto Regisole di Pavia, o ancora ai cavalli della basilica di San Marco a Venezia. Certo, nelle capitali del tempo abbondavano i monumenti funebri che celebravano condottieri che si erano particolarmente distinti, ma non erano molti i monumenti equestri: viene alla mente, pensando non soltanto ai condottieri, il monumento di Bernabò Visconti eseguito da Bonino da Campione nel 1363 o i monumenti equestri dei signori di Verona sulle sommità delle arche scaligere, oppure, per quanto riguarda le immagini dipinte, il Guidoriccio da Fogliano nel Palazzo Pubblico di Siena. Negli stessi anni, a Lucca veniva dipinto, sulla facciata dell’attuale via Pozzotorelli, un monumento equestre a Niccolò Piccinino, poi distrutto e oggi noto soltanto da una tarsia lignea di Ambrogio e Nicolao Pucci, che in antico decorava gli stalli della cappella del Palazzo degli Anziani della città toscana e oggi invece conservata presso il Museo Nazionale di Villa Guinigi. Il condottiero Niccolò Piccinino, celebre per esser stato protagonista (in negativo) della perduta Battaglia di Anghiari di Leonardo da Vinci, era nemico dei fiorentini ma era invece figura alla quale i lucchesi erano riconoscenti, dal momento che la città, sotto il suo comando, riuscì a respingere l’assedio fiorentino del 1430, e per tale impresa meritò un’immagine pubblica. Non sappiamo a quando risalga con esattezza l’immagine lucchese, ma è altamente probabile che sia stata dipinta poco dopo l’evento bellico del 1430: in tal caso, non soltanto Paolo Uccello potrebbe essersi ispirato all’opera di Lucca (della quale non conosciamo l’autore), ma il Comune di Firenze potrebbe anche aver concepito, seguendo una teoria espressa da Tiziana Barbavara di Gravellona nel suo studio Sepolcri in honorem, pitture ad infamiam e moente “a maggiore dispetto e vituperio”, il monumento equestre a Giovanni Acuto anche come risposta a quello dipinto dalla città rivale in onore di un acerrimo nemico di Firenze.

Quanto a ulteriori, possibili fonti figurative, per il monumento a Giovanni Acuto potrebbe essere più stringente il confronto non con le opere antiche (cavalli di San Marco a parte, come si vedrà tra poco) o con il dipinto lucchese, bensì con il Monumento equestre a Cortesia Serego, opera scultorea attribuita al fiorentino Pietro di Niccolò Lamberti (Firenze, 1393 circa – 1435), che si trova nella chiesa di Sant’Anastasia a Verona: lo scultore, che si avvalse dell’aiuto del lapicida Antonio da Firenze, terminò con tutta probabilità nel 1432 l’opera commissionatagli da Cortesia II, discendente del condottiero raffigurato, che ricoprì l’incarico di capitano generale dell’esercito scaligero, e raffigurò Cortesia Serego in una posa pressoché identica a quella che, pochi anni dopo, Paolo Uccello avrebbe scelto per il suo Giovanni Acuto. Ovvero di profilo, con il bastone del comando saldamente appoggiato alla coscia, col mantello lungo la schiena, con il cavallo all’ambio (anche se nel monumento veronese le zampe sollevate sono quelle della parte sinistra del corpo), e con bardature del tutto simili. Naturalmente non sappiamo se possa esserci un legame tra il Cortesia Serego di Pietro di Niccolò Lamberti e il Giovanni Acuto di Paolo Uccello, né se effettivamente Paolo abbia avuto modo di conoscere il progetto del collega e concittadino (entrambi i cavalieri appaiono comunque in pose tutt’altro che inconsuete), ma esistono comunque affinità tra le due immagini. Esisteva poi, nella stessa cattedrale di Firenze, un altro monumento equestre, quello al condottiero Piero Farnese, di cui conserviamo oggi soltanto il basamento, al Museo del Duomo (il gruppo equestre, perduto, è noto solo da un’incisione settecentesca).

Arte romana, Monumento equestre a Marco Aurelio (161-180 d.C.; bronzo, altezza 424 cm; Roma, Musei Capitolini)
Arte romana, Monumento equestre a Marco Aurelio (161-180 d.C.; bronzo, altezza 424 cm; Roma, Musei Capitolini)
Basilio Pampuri su disegno di Cesare Augusto Bonacina, Statua del Regisole (1840 circa; stampa, 140 x 230 mm; Milano, Civiche Raccolte Grafiche e Fotografiche, Civica Raccolta delle Stampe Achille Bertarelli)
Basilio Pampuri su disegno di Cesare Augusto Bonacina, Statua del Regisole (1840 circa; stampa, 140 x 230 mm; Milano, Civiche Raccolte Grafiche e Fotografiche, Civica Raccolta delle Stampe Achille Bertarelli)
Arte greca (Lisippo?) o romana, Cavalli di San Marco (IV secolo a.C. o IV secolo d.C.; bronzo dorato, 238 x 252 cm; Venezia, Basilica di San Marco)
Arte greca (Lisippo?) o romana, Cavalli di San Marco (IV secolo a.C. o IV secolo d.C.; bronzo dorato, 238 x 252 cm; Venezia, Basilica di San Marco)
Bonino da Campione, Monumento equestre a Bernabò Visconti (1363; marmo con tracce di policromia, 586,5 x 157,5 x 271,5; Milano, Castello Sforzesco, Museo di Arte Antica)
Bonino da Campione, Monumento equestre a Bernabò Visconti (1360 circa-1385; marmo con tracce di policromia, 586,5 x 157,5 x 271,5; Milano, Castello Sforzesco, Museo di Arte Antica)
Ambrogio e Nicolao Pucci, Canto di Pozzotorelli (1522; tarsia lignea; Lucca, Museo Nazionale di Villa Guinigi)
Ambrogio e Nicolao Pucci, Canto di Pozzotorelli (1522; tarsia lignea; Lucca, Museo Nazionale di Villa Guinigi)
Pietro di Niccolò Lamberti, Monumento equestre a Cortesia Serego (1432; pietra tenera e marmo rosso; Verona, Sant'Anastasia)
Pietro di Niccolò Lamberti, Monumento equestre a Cortesia Serego (1432; pietra tenera e marmo rosso; Verona, Sant’Anastasia)
Paolo Uccello, Cartonetto per il monumento equestre a Giovanni Acuto (1436; disegno a punta d'argento e tempera con lumeggiature di biacca, su carta preparata, quadrettata, 460 x 330 mm; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe, inv. 31F)
Paolo Uccello, Cartonetto per il monumento equestre a Giovanni Acuto (1436; disegno a punta d’argento e tempera con lumeggiature di biacca, su carta preparata, quadrettata, 460 x 330 mm; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe, inv. 31F)
Ricostruzione grafica del disegno sottostante al cartonetto degli Uffizi, con la prima versione del monumento, realizzato sulla fluorescenza UV (elaborazione di Lorenza Melli)
Ricostruzione grafica del disegno sottostante al cartonetto degli Uffizi, con la prima versione del monumento, realizzato sulla fluorescenza UV (elaborazione di Lorenza Melli)

Potrebbe essere affascinante chiedersi come fosse in origine la prima versione del monumento, quella che venne fatta rifare. A questa domanda ha risposto la storica dell’arte Lorenza Melli studiando attentamente il disegno preparatorio del monumento conservato presso il Gabinetto dei Disegni e delle Stampte degli Uffizi: si tratta di un cartonetto con la parte superiore del monumento, e si ritiene si tratti del modello per il rifacimento della prima immagine che l’artista presentò al Comune dopo che gli fu chiesto di rifare l’affresco. Dalle indagini diagnostiche effettuate sul foglio si è scoperto che Paolo Uccello lo eseguì apportando numerose modifiche a un disegno precedente, che le analisi hanno rivelato essere stato portato a compimento. Non si tratterebbe, dunque, di pentimenti fatti su di un abbozzo iniziale: “il disegno sottostante”, ha spiegato Melli, “era organico e rifinito nei dettagli a penna, come sul volto del cavaliere”. Inoltre, il cartonetto oggi agli Uffizi è il risultato del taglio e dell’assemblaggio di frammenti: per esempio, il fatto che manchi del tutto la base è stato interpretato come espediente per non ritoccare una parte di monumento che poteva essere lasciata com’era. Da ciò, insomma, è stato dedotto che il disegno sottostante a quello oggi visibile rappresenti la prima versione del progetto: in questa versione, Giovanni Acuto era più alto, indossava un’armatura completa di elmo, che lasciava scoperti soltanto gli occhi (oggi invece lo vediamo a volto scoperto), aveva guanti metallici, non indossava la giornea bensì la corazza dell’armatura, aveva la gamba più distesa in avanti, e il cavallo aveva bardature più semplici e dimensioni diverse. In particolare, ha notato Melli, la posa dell’equino richiamava in maniera precisa quella dei cavalli in bronzo di San Marco, che Paolo Uccello ebbe modo di studiare attentamente in quanto, durante il suo soggiorno a Venezia, ricoprì l’incarico di mosaicista per la facciata della basilica di San Marco.

Non conosciamo il motivo per cui fu chiesto all’artista di rifare l’opera, anche se sono state formulate varie ipotesi: può essere che il gruppo equestre risultasse troppo scorciato dal basso, o ancora che la pittura non abbia tenuto, o ancora che non avesse incontrato il gusto o, più probabilmente, le aspettative della committenza. Quel che è certo, è che con le sue modifiche, ha scritto ancora Melli, “l’artista ha […] apportato alla rappresentazione un carattere ‘civile’ e introdotto un tono umanistico. Egli infatti, sostituendo l’elmetto con il berrettone capitanesco e ricoprendo la corazza con la giornea, ha trasformato l’uomo d’arme, che per certi versi rispettava la tipologia del Monumento a Piero Farnese nella stessa cattedrale fiorentina, in un condottiere rinascimentale”. Il Monumento equestre a Giovanni Acuto è in sostanza il primo monumento equestre “moderno”, dipinto sia nella forma sia nella sostanza secondo le nuove idee che circolavano nella Firenze del Quattrocento, e che sarebbe stato poi senz’altro studiato da Andrea del Castagno, per il suo Monumento equestre a Niccolò da Tolentino che oggi vediamo affiancato al dipinto di Paolo Uccello, sia da Donatello, quando si trovò a dover progettare il monumento al Gattamelata a Padova.

L’opera di Paolo Uccello fu molto apprezzata da Giorgio Vasari, che la descrisse nelle sue Vite, nel capitolo dedicato al pittore fiorentino, senza però risparmiare una critica: “Fece in Santa Maria del Fiore, per la memoria di Giovanni Acuto inglese, capitano de’ Fiorentini, che era morto l’anno 1393, un cavallo di terra verde tenuto bellissimo e di grandezza straordinaria, e sopra quello l’immagine di esso capitano di chiaro scuro di color di verde terra, in un quadro alto braccia dieci nel mezzo d’una facciata della chiesa, dove tirò Paulo in prospettiva una gran cassa da morti, fingendo che ’l corpo vi fusse dentro; e sopra vi pose l’immagine di lui armato da capitano, a cavallo. La quale opera fu tenuta et è ancora cosa bellissima per pittura di quella sorte; e se Paulo non avesse fatto che quel cavallo muove le gambe da una banda sola, il che naturalmente i cavagli non fanno perché cascherebbano (il che forse gli avenne perché non era avvezzo a cavalcare, né praticò con cavalli come con gl’altri animali) sarebbe questa opera perfettissima perché la proporzione di quel cavallo, che è grandissimo, è molto bella”. Vasari, tuttavia, non vedeva l’opera esattamente come noi la vediamo oggi: il monumento equestre di Giovanni Acuto, nonostante le sue dimensioni imponenti (è un affresco di otto metri d’altezza), ha subito diverse vicissitudini nel tempo. Fu dapprima restaurato, nel 1524, da Lorenzo di Credi, mentre data al 1688 un altro intervento di Filippo Baldinucci. Poi, nel 1842, l’affresco fu trasportato su tela dal restauratore Giovanni Rizzoli da Cento, in seguito un sopralluogo in cui furono riscontrate pessime condizioni di conservazione, con numerose perdite di pittura (del restauro pittorico si occupò il pittore Antonio Marini). In quell’occasione, l’affresco fu sistemato in controfacciata, dove rimase fino al 1946. Ancora, nel 1947, è stato nuovamente spostato, là dove si trovava in origine, anche se in posizione leggermente ribassata, sulla parete ovest del Duomo, dove ancor oggi lo ammiriamo.

La storia dei restauri continua nel 1953, quando Dino Dini intervenne sull’affresco perché era sempre in cattive condizioni: “Le ragioni che hanno determinato un nuovo pronto intervento”, si può leggere nella sua relazione, “sono state date da certe ben visibili gonfiature di vaste proporzioni, in particolare nell’Andrea del Castagno nella parte alta del dipinto, nella zona comprendente il collo del cavallo ed il busto del cavaliere, oltre ad un più minuto, ma generale raggrinzimento della pittura, ed al sollevamento di tante piccole particelle di colore a guisa di croste a scodellino”, e questo per via della “forte contrazione della tela a seconda delle variazioni termiche e di umidità dell’aria, oltre all’azione di contrasto e di comportamento dei componenti le materie trovate e usate”. Si trattò di un intervento complesso: fu necessario rimuovere velature e rifacimenti lasciati dai restauri precedenti, sistemare il supporto che dopo l’intelaggio aveva avuto problemi, e passare al ritocco pittorico completo. Poi, nel 2000, l’intervento di Daniela Dini per sistemare gli offuscamenti provocati dalla polvere e dal particellato atmosferico. Infine, nel 2022, ancora Daniela Dini ha eseguito un ultimo intervento, sempre per risolvere lo stesso problema: eliminare le patine dovute all’inquinamento atmosferico. Un intervento che si è concluso a dicembre 2022 e che ha consegnato un Giovanni Acuto di nuovo libero dalla polvere.


Se ti è piaciuto questo articolo abbonati a Finestre sull'Arte.
al prezzo di 12,00 euro all'anno avrai accesso illimitato agli articoli pubblicati sul sito di Finestre sull'Arte e ci aiuterai a crescere e a mantenere la nostra informazione libera e indipendente.
ABBONATI A
FINESTRE SULL'ARTE

Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo



Bia de' Medici: storia del ritratto del Bronzino che ancora incanta il pubblico
Bia de' Medici: storia del ritratto del Bronzino che ancora incanta il pubblico
L'eleganza del potere. Il ritratto di Eleonora di Toledo del Bronzino
L'eleganza del potere. Il ritratto di Eleonora di Toledo del Bronzino
Ecco perché il divino Michelangelo fu chiamato così. Una suggestione col trittico di Giuliano Amidei
Ecco perché il divino Michelangelo fu chiamato così. Una suggestione col trittico di Giuliano Amidei
Il concorso del 1401 che ha cambiato la storia dell'arte: la sfida tra Ghiberti e Brunelleschi
Il concorso del 1401 che ha cambiato la storia dell'arte: la sfida tra Ghiberti e Brunelleschi
Giotto, il Crocifisso di Santa Maria Novella: il primo Cristo in croce vero della pittura italiana
Giotto, il Crocifisso di Santa Maria Novella: il primo Cristo in croce vero della pittura italiana
La Madonna Rucellai di Duccio di Buoninsegna, la più grande tavola del Duecento
La Madonna Rucellai di Duccio di Buoninsegna, la più grande tavola del Duecento


Commenta l'articolo che hai appena letto



Commenta come:      
Spunta questa casella se vuoi essere avvisato via mail di nuovi commenti





Torna indietro



MAGAZINE
primo numero
NUMERO 1

SFOGLIA ONLINE

MAR-APR-MAG 2019
secondo numero
NUMERO 2

SFOGLIA ONLINE

GIU-LUG-AGO 2019
terzo numero
NUMERO 3

SFOGLIA ONLINE

SET-OTT-NOV 2019
quarto numero
NUMERO 4

SFOGLIA ONLINE

DIC-GEN-FEB 2019/2020
Finestre sull'Arte