La natura ha creato nel mondo animale veri capolavori. Uno degli esempi più strabilianti è il pavone: è come se un pittore venuto da chissà quale parte dell’universo si sia divertito a dipingere con straordinaria minuzia un numero infinito di occhi sulla sua coda, dopo aver intinto il suo corpo in un blu brillante. Quando un pavone ci delizia e ci privilegia facendoci ammirare la sua variopinta ruota rimaniamo tuttora affascinati, stupiti, pensiamo a come sia possibile che una tale opera d’arte sia stata realizzata sulle piume di quell’animale. Per lui, la ruota è un gesto di corteggiamento verso l’esemplare femmina, si mostra in tutta la sua bellezza per cercare in lei l’ammirazione: è per questo motivo che si è appiccicato addosso l’etichetta di uccello vanitoso, tanto d’aver fatto derivare dal suo atteggiamento il termine “pavoneggiarsi” anche in riferimento a una persona.
Secondo la mitologia, attraverso cui gli antichi cercavano di dare una spiegazione a tutto, a colorare di quelle forme la coda del pavone non sarebbe stato un pittore, bensì la regina degli dei, Giunone, la sposa di Giove, costantemente alle prese con le infedeltà del dio del pantheon romano. Nelle Metamorfosi di Ovidio si racconta infatti che Giove si era invaghito della giovane ninfa Io, ma era ben consapevole della gelosia e della diffidenza della moglie Giunone. Per cercare dunque di celare la vera identità della ninfa, decide di trasformarla in una bianca giovenca. Giunone, tuttavia, non si lascia facilmente ingannare: insospettita da quell’improvvisa comparsa e già sospettando che dietro ci fosse l’ennesimo inganno del marito, chiede in dono la giovenca proprio a Giove. Il re degli dei, pur restio, non osa opporsi apertamente alla moglie e, per non destare ulteriore sospetto, accetta la sua richiesta. La dea, che conosceva bene le abitudini ingannevoli del suo sposo, decide allora di mettere la giovenca sotto sorveglianza del fedele Argo, il quale possedeva cento occhi distribuiti su tutta la testa. Proprio questa caratteristica rendeva Argo quasi invincibile nella sua vigilanza, poiché anche quando si concedeva un momento di riposo non chiudeva mai tutti gli occhi, ma solo una parte, lasciando sempre gli altri ben aperti. Giove, tormentato dal pensiero di Io prigioniera e desideroso di restituirle la libertà, inizia a riflettere su come ingannare il guardiano dai cento occhi. Sceglie quindi di affidarsi al messaggero divino, Mercurio, che sapeva unire alla sua intelligenza il potere della parola e il fascino della musica. Giove lo incarica di travestirsi da semplice pastore e di avvicinarsi con naturalezza ad Argo, portando con sé uno strumento musicale, la siringa. Mercurio esegue fedelmente l’ordine: si presenta come un umile pastore e comincia a suonare una melodia che affascina subito Argo, il quale come previsto nei piani invita il giovane a sedersi accanto a lui. Mercurio, con grande abilità, alterna la musica al racconto: narra infatti la vicenda di Pan e della ninfa Siringa, intrecciando parole e note in un’armonia tanto piacevole da rendere la veglia di Argo sempre più faticosa. Uno dopo l’altro, gli occhi del guardiano iniziano a chiudersi, finché anche gli ultimi cedono al sonno. A quel punto Mercurio, cogliendo l’attimo propizio, gli taglia la testa. La giovane ninfa, ancora sotto forma di giovenca, è ora libera. Giunone, però, appena appresa la tragica fine del suo fedele servitore, si rattrista profondamente e, per onorarne la memoria, decide di conservare almeno una parte della sua essenza. Raccoglie infatti tutti i suoi occhi, simbolo della sua instancabile vigilanza, e li applica sulle piume della coda del pavone, animale a lei sacro. Da allora il pavone porta sulla sua coda quei magnifici occhi, memoria eterna della devozione e della sorte di Argo.
L’episodio mitologico è raffigurato in modo solenne nel dipinto Giunone e Argo realizzato da Peter Paul Rubens nel 1610 circa e conservato al Wallraf-Richartz Museum di Colonia. La figura di Giunone risulta qui immediatamente riconoscibile, maestosa, avvolta in un abito rosso, con un mantello ricamato d’oro che ne sottolinea l’identità di regina degli dei, ulteriormente esplicitata dalla preziosa corona che le cinge il capo. Nelle sue mani ha gli occhi di Argo, pronti per essere applicati alle piume della coda del pavone che si vede in mezzo a lei e a una fanciulla bionda, vestita di un abito blu, che la sta aiutando nella delicata operazione, probabilmente Iride. La testa di Argo è infatti appoggiata sulla veste di quest’ultima, mentre il corpo del guardiano giace a terra, in primo piano, ormai privo di vita. Dietro al mantello dorato di Giunone vi è un’altra fanciulla, dal viso delicato e raffinato, che osserva la scena.
Tre putti giocosi animano poi la scena trastullandosi con le piume dei pavoni (oltre a quello al centro della scena con la coda chiusa perché ancora completamente da impreziosire con gli occhi di Argo, fa bella mostra di sé un altro pavone, che sta già facendo la ruota), introducendo così quella vitalità barocca che stempera la drammaticità del mito. La composizione, tipica del linguaggio rubensiano, alterna solennità e sensualità: i corpi pieni e dinamici (straordinaria la dinamicità che trasmette pur essendo senza vita il corpo disteso di Argo), la tavolozza sontuosa dominata da rossi, ori e blu, il contrasto tra la grazia decorativa dei pavoni e la drammaticità del corpo esanime del guardiano dai cento occhi. Il gesto di Giunone risulta tuttavia sia solenne che tenero, mentre tutt’attorno esplode la magnificenza barocca: i putti che giocano, la ruota del pavone che si dispiega, il cielo rischiarato da un arcobaleno che suggella la scena con un’aura di meraviglia e trascendenza, in riferimento alla presenza di Iride. La morte di Argo non appare qui come un evento tragico, ma come una metamorfosi: un atto destinato a sopravvivere oltre la vita.
Con potenza narrativa e visiva, Rubens intreccia in un’unica immagine sensualità, ricchezza cromatica e intensità drammatica, trasformando il mito in uno spettacolo barocco.
“La predominanza del giallo, del rosso e del blu nelle opere di Rubens di questo periodo è stata ampiamente attribuita all’interesse dell’artista per la teoria del colore, in particolare quella di Aristotele e D’Aguilon”, scrive Marcia Pointon nel suo saggio Colour and Tactility: Lithic Influences during Rubens’s Period in Italy. “Il giallo oro così prevalente in questo dipinto, tuttavia, riflette anche i gialli dominanti della veste di san Gregorio nella pala d’altare di Vallicella e del rivestimento marmoreo della Cappella Cesi, mentre l’elaborato motivo sia del mantello regale di Giunone che delle code dei pavoni richiama le preziose pietre dure nella Cappella di San Filippo Neri. In effetti, l’atto stesso di incastonare gli occhi nelle code dei pavoni è quello di un artigiano, che trasforma gli occhi nella ‘gemmis stellantibus’ descritta da Ovidio, mentre la ‘mescolanza percettiva’ di colori che è stata notata in questo dipinto richiama la mescolanza di colori così caratteristica del marmo. Il colore degli occhi è determinato dall’iride, che prende il nome dalla dea dell’arcobaleno che assiste Giunone”.
Molto teatrale è un’altra opera sullo stesso tema realizzata qualche anno più tardi, nel 1617 circa, da Orazio Riminaldi, oggi conservata alla Galleria Doria Pamphilj di Roma. In una suggestiva composizione costruita sul chiaroscuro, si staglia al centro la dea Giunone, in una posa dinamica e potente al tempo stesso, mentre è intenta a mettere gli occhi di Argo sulla coda del pavone che ha accanto, in penombra. Sulla sua candida pelle e sugli ampi panneggi delle vesti che indossa, di un colore rosso brillante, si posa invece una luce scenografica, che invade anche il torso nudo di Argo, disteso a terra. Dalla veste spunta la gamba sinistra di Giunone: il corpo della dea è in torsione; con la mano sinistra stringe a sé la coda dell’animale a lei sacro, mentre con la destra toglie gli occhi dalla testa del fidato guardiano. Mercurio è in volo tra le nubi e si sta allontanando dopo aver obbedito alle volontà di Giove. È una “tela che, al di là degli indubbi elementi manfrediani”, scrive Pierluigi Carofano nel saggio Orazio Riminaldi, un artista pisano tra caravaggismo e classicismo, “tradisce lo studio della Santa Marta di Francesco Mochi della cappella Barberini in Sant’Andrea della Valle per la postura falcata, di statuaria eleganza, della protagonista. Ma i profili sfuggenti, gli occhi allungati e bistrati, i panni avvolgenti scanditi da ampie pieghe stereometricamente disposte nello spazio parlano di attenzione nei confronti della pittura del francese Régnier. Certo, Riminaldi non riesce ad abbandonare del tutto il suo imprinting idealistico-toscano, manifesto nello svolazzo innaturale alle spalle di Giunone; ma il disporsi realisticamente del panno rosso è tra le cose più belle della pittura post-caravaggesca, così come lo è il lento voltare della camicia candida sul braccio della protagonista. Per queste ragioni è opportuno considerare la Giunone tra le primizie di Riminaldi a Roma, densa com’è di meditati riferimenti alla pittura corrente, misti a retaggi tardo cinquecenteschi specie nella disegnatissima anatomia di Argo”.
Anche Gregorio De Ferrari, tra i maggiori esponenti del barocco genovese, raffigura tra il 1685 e il 1695 l’episodio tratto dalle Metamorfosi di Ovidio, in un dipinto oggi custodito al Louvre di Parigi. L’opera si inserisce pienamente nello stile barocco genovese della seconda metà del Seicento e, osservandola, si percepisce subito il senso di movimento continuo che attraversa le figure: i corpi non sono rigidi, ma sembrano ondeggiare, piegarsi e intrecciarsi in una danza di linee sinuose. Una fluidità che è una cifra tipica di De Ferrari, artista che predilige pose eleganti, capaci di dare grazia anche a una scena che, per soggetto, è tragica. Giunone, come da iconografia, sta applicando gli occhi di Argo sulle piume del pavone. Accanto a lei compaiono due putti: uno tiene tra le mani un pavone, l’altro la testa del guardiano, ed entrambi volgono lo sguardo verso la dea. In primo piano è steso a terra il corpo senza vita di Argo. La luce gioca un ruolo fondamentale: non è diffusa in modo uniforme, ma si concentra su volti e corpi, facendoli emergere da uno sfondo più cupo e atmosferico. Il risultato è un effetto teatrale che ricorda una scenografia, con forti contrasti tra chiarori caldi e ombre. Anche il colore contribuisce a questa sensazione, con incarnati morbidi e luminosi che risaltano rispetto ai toni più scuri del paesaggio. I due alberi dai tronchi tortuosi che appaiono sullo sfondo richiamano Giovanni Benedetto Castiglione. Il panneggio svolazzante dell’abito di Giunone è stato invece messo in relazione con quello di un angelo raffigurato nella Piscina Probatica di De Ferrari, mentre la presenza del pavone rimanda alla volta di Palazzo Durazzo-Brignole a Genova.
La mitologia ha talvolta la straordinaria capacità di farci vedere il mondo con uno sguardo diverso. Così, davanti a un pavone che dispiega la sua ruota, non vedremo soltanto piume straordinariamente decorate, ma gli occhi vigili di Argo, resi immortali dal gesto divino di Giunone.
L'autrice di questo articolo: Ilaria Baratta
Giornalista, è co-fondatrice di Finestre sull'Arte con Federico Giannini. È nata a Carrara nel 1987 e si è laureata a Pisa. È responsabile della redazione di Finestre sull'Arte.
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