Raffaello è stato il primo soprintendente della storia. La lettera a Leone X


Possiamo considerare Raffaello come il primo soprintendente della storia: con lui si produsse una nuova sensibilità nei confronti dei beni culturali, alle origini di quella moderna. Lo scopriamo da un documento fondamentale: la lettera a papa Leone X.

A molti storici dell’arte piace definire il grande Raffaello Sanzio (Urbino, 1483 - Roma, 1520) come il primo soprintendente della storia, e non è un azzardo affermare che la sua figura costituisca uno dei fulcri della storia della tutela dei monumenti in Italia. Occorre tornare al 27 agosto del 1515: quel giorno, papa Leone X (Firenze, 1475 - Roma, 1521), il pontefice che sarebbe stato poi eternato dall’urbinate in un magnifico ritratto oggi agli Uffizi, veniva nominato praefectus marmorum et lapidum omnium. Alla lettera Raffaello era pertanto il “prefetto di tutti i marmi e le lapidi”: nella pratica, il suo compito era quello di cercare a Roma e dintorni marmi da utilizzare nel cantiere della basilica di San Pietro, verificando però che venissero salvati materiali, epigrafi e frammenti antichi rinvenuti nel territorio cittadino. Ogni reperto doveva essere attentamente studiato da un esperto, che ne avrebbe decretato il destino: il papa e Raffaello erano infatti ben consapevoli del valore delle testimonianze del passato, e non si poteva permettere che andassero distrutte o riutilizzate come materiali da costruzione. Tanto più che, all’epoca, il commercio delle antichità era fiorente e la prassi di riutilizzare frammenti di edifici antichi era all’ordine del giorno: ecco dunque che diventa facilmente intuibile quale fosse l’importanza della carica assunta da Raffaello.

Il divin pittore nutriva un grande amore verso l’antichità. Conoscitore dei monumenti della Roma antica, architetto appassionato di Vitruvio (al punto da promuovere la realizzazione di un’edizione in volgare del De architectura, tradotta e curata dall’umanista ravennate Fabio Calvo), studioso appassionato delle strutture degli edifici della Roma degli imperatori, fu incaricato da Leone X di redigere una mappa della città antica e dei suoi monumenti, basata su di una precisa misurazione delle rovine e sulla classificazione delle vestigia della Roma classica, che sarebbe stata a sua volta la base per una ricostruzione filologica di quanto era andato perduto. Il progetto non andò mai in porto, perché la scomparsa prematura a soli trentasette anni privò il mondo di uno dei più grandi artisti di tutti i tempi, ma rimane un documento fondamentale per comprendere le ragioni di quel progetto, per ricavare le idee di Raffaello sull’antichità, per cogliere tutto il suo ardore nella difesa dei monumenti antichi e il suo sdegno per chi si era reso responsabile della loro distruzione e non impediva che anche in epoca moderna venissero danneggiati. Il documento è passato alla storia come la Lettera a Leone X: si tratta di un testo la cui paternità è ancora incerta, dal momento che non abbiamo la stesura originaria del testo, ma possiamo ipotizzare che l’idea di fondo e le parti tecniche siano da attribuire a Raffaello, mentre l’elaborazione in forma letteraria potrebbe essere assegnata all’umanista mantovano Baldassarre Castiglione (Casatico, 1478 - Toledo, 1529), che aiutò Raffaello, a cui va riconosciuta comunque la paternità intellettuale del documento, a scrivere un testo in forma adatta a un interlocutore d’alto livello quale papa Leone X. La missiva risale probabilmente al settembre-novembre 1519: questa la datazione proposta da Francesco Paolo Di Teodoro, studioso noto per il suo lungo impegno nell’analizzare minuziosamente la lettera.

Lo storico dell’arte Valerio Terraroli ne ha curato la più recente edizione per Skira (Raffaello. Lettera a papa Leone X, Skira, 2020): secondo lo studioso, la lettera “rappresenta uno dei momenti più alti della cultura rinascimentale e dell’identificazione nell’antichità classica del modello ideale, sia dal punto di vista formale sia dal punto di vista tecnico-operativo”, e allo stesso tempo rivela tra le righe “l’assunzione di responsabilità da parte di Raffaello e degli umanisti suoi contemporanei, a partire da Leone X, per la salvaguardia di un patrimonio monumentale unico, frammentario e minacciato, in nome della trasmissione della memoria e del passaggio di testimone all’età nuova”. Come detto, non abbiamo il testo originario, ma la lettera si conserva in quattro fonti scritte: una trascrizione già conservata nell’archivio Castiglione di Mantova e acquistata nel 2016 dallo Stato (oggi è custodita presso l’Archivio di Stato di Mantova), un manoscritto di Monaco di Baviera che però deriva dal testo mantovano, una versione stampata a Padova nel Settecento e basata su una copia manoscritta di cui non è dato sapere altro, e una trascrizione conservata in una raccolta di copia di lettere di Castiglione custodita presso una raccolta privata di Mantova.

Raffaello, Autoritratto (1506-1508; olio su tavola di pioppo; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Galleria delle Statue e delle Pitture). Gabinetto fotografico delle Gallerie degli Uffizi - Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e del Turismo
Raffaello, Autoritratto (1506-1508; olio su tavola di pioppo; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Galleria delle Statue e delle Pitture). Gabinetto fotografico delle Gallerie degli Uffizi - Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e del Turismo


Raffaello, Ritratto di Leone X tra i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi (1518-1519; olio su tavola; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Gallerie delle Statue e delle Pitture) /
Raffaello, Ritratto di Leone X tra i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi (1518-1519; olio su tavola; Firenze, Gallerie degli Uffizi, Gallerie delle Statue e delle Pitture)


Raffaello, Ritratto di Baldassare Castiglione (1513; olio su tela; Parigi, Musée du Louvre, Département des Peintures). © Musée du Louvre, Dist. RMN – Grand Palais / Angèle Dequier
Raffaello, Ritratto di Baldassare Castiglione (1513; olio su tela; Parigi, Musée du Louvre, Département des Peintures). © Musée du Louvre, Dist. RMN – Grand Palais / Angèle Dequier

Terraroli, pur ricordando brevemente il dibattito critico attorno alla paternità dell’opera, ha sottolineato come, nel 2010, lo studioso Michel Paoli abbia posto l’accento sulla struttura unitaria della Lettera “che ne fa, dunque, un testo metodologico, con un obiettivo progettuale, quello di acquisire una messe di informazioni per costruire un insieme di regole necessarie al fine di recuperare appieno la capacità realizzativa dell’architettura antica, in linea con quel desiderio di vedere rinascere Roma secondo gli auspici degli umanisti presenti alla corte papale, al ritorno di quella civiltà, innestata nella cultura cristiana, e da essa riformata, come stavano a dimostrare le architetture degne di eguagliare la grandezza antica, quali la basilica di San Pietro e le Logge Vaticane”. Raffaello comincia la sua lettera ricordando “le cose grandissime” che fecero i romani, e rammaricandosi per lo stato in cui all’epoca versavano le tracce dell’illustre passato di Roma: una situazione che gli provocava “grandissimo dolore, vedendo quasi il cadavere di quella nobil patria, che è stata regina del mondo, così miseramente lacerato”. E secondo l’urbinate, non erano stati soltanto i barbari a far strage degli edifici di Roma, e con essi il tempo, i secoli d’incuria e d’abbandono che Roma aveva conosciuto: la colpa dello stato attuale delle cose era anche da imputare ai suoi contemporanei, poco attenti a tutelare i beni dell’antichità.

“Parve che il tempo”, scrive Raffaello, “come invidioso della gloria de’ mortali, non confidatosi pienamente delle sue forze sole, si accordasse con la fortuna e con li profani e scellerati Barbari, li quali alla edace lima e venenato morso di quello aggiunsero l’empio furore e ‘l ferro e il fuoco e tutti quelli modi che bastavano per ruinarla. Onde quelle famose opere che oggidì più che mai sarebbono floride e belle, furono dalla scellerata rabbia e crudele impeto de’ malvagi uomini, anzi fiere, arse e distrutte”. Gli edifici così rovinati erano poco più che scheletri, erano “ossa senza carne”, per usare l’espressione stessa di Raffaello. Ed ecco poi l’attacco ai contemporanei: “Ma perché ci doleremo noi de’ Goti, Vandali e d’altri tali perfidi nemici, se quelli li quali come padri e tutori dovevano difender queste povere reliquie di Roma, essi medesimi hanno lungamente atteso a distruggerle?”. Le accuse sono rivolte ai papi che precedettero Leone X (“Quanti Pontefici, Padre Santissimo, li quali avevano il medesimo officio che ha Vostra Santità, ma non già il medesimo sapere, né il medesimo valore e grandezza d’animo, né quella clemenza che la fa simile a Dio: quanti, dico, Pontefici hanno atteso a ruinare templi antichi, statue, archi e altri edifici gloriosi!”), e a tutti coloro che non si facevano scrupolo di reimpiegare brani e frammenti di monumenti antichi come materiali da costruzione (“Quanti hanno comportato che solamente per pigliar terra pozzolana si sieno scavati dei fondamenti, onde in poco tempo poi gli edifici sono venuti a terra! Quanta calce si è fatta di statue e d’altri ornamenti antichi! che ardirei dire che tutta questa Roma nuova che ora si vede, quanto grande ch’ella si sia, quanto bella, quanto ornata di palagi, chiese e altri edifici che la scopriamo, tutta è fabricata di calce e marmi antichi”).

Segue, poi, un elenco di edifici ammalorati, ma presto arriva anche la pars costruens della lettera di Raffaello: il fatto che gli edifici antichi fossero in rovina non significava che non si potesse cercare di eguagliare e superare i romani d’un tempo. Al papa viene così rivolto l’invito di prendersi cura di ciò che rimane dei tempi antichi, e difendere i monumenti dai “maligni” e dagli “ignoranti”: “Non deve adunque, Padre Santissimo, essere tra gli ultimi pensieri di Vostra Santità lo aver cura che quel poco che resta di questa antica madre della gloria e della grandezza italiana, per testimonio del valore e della virtù di quegli animi divini, che pur talor con la loro memoria eccitano alla virtù gli spiriti che oggidì sono tra noi, non sia estirpato, e guasto dalli maligni e ignoranti”. La difesa della cultura è la base per tutto il resto: “Come dalla calamità della guerra nasce la distruzione e ruina di tutte le discipline ed arti, così dalla pace e concordia nasce la felicità a’ popoli, e il laudabile ozio per lo quale ad esse si può dar opera e farci arrivare al colmo dell’eccellenza, dove per lo divino consiglio di Vostra Santità sperano tutti che si abbia da pervenire al secolo nostro. E questo è lo essere veramente Pastore clementissimo, anzi Padre ottimo di tutto il mondo”: compito del pontefice, scrive Raffaello, è quello di favorire la virtù, risvegliare gli ingegni, premiare le fatiche, seminare pace e concordia. È anche in questo senso che occorre leggere la difesa dell’antichità.

Raffaello, Interno del Pantheon (1506 circa; penna e inchiostro su carta, 277 x 407 mm; Firenze, Galleria degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe)
Raffaello, Interno del Pantheon (1506 circa; penna e inchiostro su carta, 277 x 407 mm; Firenze, Galleria degli Uffizi, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe)

Nella parte che segue, Raffaello traccia una sorta di storia dell’architettura dall’antichità ai suoi tempi, dividendola in tre fasi: quella degli antichi, quella dei “gotti” (un periodo indistinto che va dalla fine dell’impero romano fino ai giorni di Raffaello: è, in sostanza, il nostro Medioevo, ma artisticamente il pittore non ne distingue le diverse fasi). E secondo la mentalità del tempo, Raffaello non lesina gerarchie di merito, ritenendo gli edifici del tempo degl’imperatori “li più eccellenti e fatti con grandissima arte e bella maniera d’architettura”. Peraltro, secondo l’artista, l’architettura fu l’ultima delle arti a conoscere il declino: a suo avviso, le lettere, la scultura e la pittura avevano già subito una specie d’involuzione ben prima della fine dell’impero, e come esempio Raffaello richiama l’arco di Costantino, “il componimento del quale è bello e ben fatto in tutto quello che appartiene all’architettura, ma le sculture del medesimo arco sono sciocchissime, senza arte o bontate alcuna”, e lo stesso varrebbe a suo dire per le Terme di Diocleziano, dove “le sculture sono goffissime e le reliquie di pittura che vi si veggono non hanno a che fare con quelle del tempo di Traiano e Tito: pure, l’architettura è nobile e bene intesa”.

Naturalmente, nella classifica di Raffaello, l’arte dei “gotti” è quella di minor valore (“poi che Roma da’ Barbari in tutto fu ruinata e arsa”, premette l’artista, “parve che quello incendio e misera ruina ardesse e ruinasse, insieme con gli edifici, ancor l’arte dello edificare”). È interessante qui sottolineare come, secondo Raffaello, arte e libertà vadano di pari passo: il pittore infatti attribuisce il declino dell’arte al fatto che la fortuna dei romani era mutata, e che i romani, “soggiogati e fatti servi dalli barbari”, non furono più in grado di produrre un’arte di qualità in quanto non più liberi, e che anzi l’arte “senza misura, senza grazia alcuna” avesse seguito il destino dei romani privati della loro libertà (“parve che gli uomini di quel tempo, insieme con la libertà, perdessero tutto l’ingegno e l’arte”). Lo stesso sarebbe accaduto in Grecia, terra che, nonostante potesse vantare “gl’inventori e perfetti maestri di tutte l’arti”, ridotta a sudditanza si ritrovò a produrre “una maniera di pittura, scultura e architettura pessima e di nessun valore”. E pur riconoscendo un qualche valore all’arte dei “tedeschi” (l’arte romanica, da come viene descritta: “li Tedeschi [...] per ornamento spesso ponevano solamente un qualche figurino rannicchiato e mal fatto per mensola, a sostenere un trave, e animali strani e figure e fogliami goffi e fuori d’ogni ragione naturale”: niente a che vedere, secondo Raffaello, coi romani che edificavano seguendo le proporzioni dell’uomo e della donna), rimaneva comunque una marcata distanza dall’arte dei romani.

Raffaello e Baldassarre Castiglione, Lettera a papa Leone X (s.d. [1519], manoscritto cartaceo, 6 carte di 220 x 290 mm circa ciascuna; Mantova, Archivio di Stato)
Raffaello e Baldassarre Castiglione, Lettera a papa Leone X (s.d. [1519], manoscritto cartaceo, 6 carte di 220 x 290 mm circa ciascuna; Mantova, Archivio di Stato)

Nell’ultima parte della lettera, Raffaello spiega a Leone X la tecnica adoperata per misurare gli edifici antichi: uno strumento creato dal pittore stesso, che possiamo immaginare come una specie di meridiana installata sopra una bussola divisa in otto sezioni corrispondenti agli otto venti, a loro volta suddivise in trentadue gradi. Con una calamita mobile l’artista prendeva dunque le misure degli edifici, ricavando le coordinate spaziali attraverso la bussola. Le misurazioni in scala sarebbero state riportate poi su carta e organizzate in tre parti, “delle quali la prima si è la pianta, o vogliamo dire dissegno piano, la seconda si è la parete di fori con li suoi ornamenti, la terza la parete di dentro con li suoi ornamenti”: Raffaello prescriveva dunque di utilizzare quelli che in termini moderni chiamiamo pianta, prospetto e sezione.

“Questa porzione del testo, per quanto specificatamente tecnica”, scrive Terraroli, “rivela l’impegno e la cura con la quale l’artista affronta il tema di una restituzione filologica e precisa degli edifici antichi, ricostituendo, sebbene virtualmente, le parti andate distrutte nel corso del tempo: solo così potranno risorgere le membra lacere dell’Urbe [...] e solo così potrà essere ricostituito concettualmente, non attraverso una ricostruzione pittorica di tipo prospettico ed evocativo, bensì attraverso una restituzione grafica e filologica delle misurazioni architettoniche, il senso progettuale e tecnico dell’architettura antica”. Come anticipato, la morte prematura di Raffaello stroncò i suoi propositi, e il progetto di creare una mappatura completa degli edifici dell’antica Roma non trovò mai la propria concretizzazione. Eppure, malgrado la lettera non abbia avuto conseguenze pratiche, si tratta di un testo che non rappresenta soltanto una delle più fulgide evidenze della cultura rinascimentale, ma ha anche un portato teorico di valore inestimabile, che varca i secoli, che è considerato all’origine del moderno concetto di tutela, e che alcuni (come Luisa Onesta Tamassia, direttore dell’Archivio di Stato di Mantova) vedono anche come una premonizione dell’articolo 9 della Costituzione Italiana (“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”). E soprattutto, si tratta di un testo che stabilisce che la tutela dei beni antichi non dev’essere un’attività fine a se stessa, ma deve fornire esempi per dar modo di pareggiare e superare quello che le generazioni precedenti hanno fatto. Perché mantenere viva la memoria del passato ci aiuta a vivere meglio il presente.


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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

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