Streghe, fantasmi, demoni e culti esoterici: arte e magia in mostra a Rovigo


Recensione della mostra 'Arte e magia' a Rovigo, Palazzo Roverella, dal 29 settembre 2018 al 27 gennaio 2019

Nelle sue Notti Attiche, lo scrittore romano Aulo Gellio, vissuto nel primo secolo dell’era comune, riportava che tutti i giovani desiderosi d’avvicinarsi agl’insegnamenti di Pitagora erano tenuti a osservare almeno due anni di silenzio: i discepoli che il grande filosofo accettava nella sua scuola, assicura Aulo Gellio, dovevano ascoltare le parole del maestro, e non potevano fare domande se avevano capito poco, né tanto meno commentare. Solo dopo aver appreso tutti gli argomenti, anche i più difficili, era loro concesso d’esprimersi, di pronunciare qualche parola, di chiedere. Quel silenzio che Pitagora imponeva avrebbe poi attraversato i secoli, assurgendo a simbolo di meditazione, di passaggio primario per essere iniziati a una dottrina, a un culto o a una filosofia, oltre che della fatica necessaria per apprendere. “In antico”, ha scritto D’Annunzio nel suo Libro segreto, “religioni e filosofie non vissero se non di silenzio: conobbero e osservarono la necessità del silenzio. Quelle che a tal necessità si sottrassero, quelle furono sempre mal comprese difformate profanate avvilite”. C’è il silenzio dell’anacoreta cristiano, che si mette a tacere per accogliere al meglio il suo dio, e per certi ordini monastici il silenzio fa parte della regola cui obbedire. C’è il silenzio della massoneria, più simile a quello pitagorico, cui sono obbligati gli apprendisti che intendono accedere al grado successivo della gerarchia massonica. C’è il silenzio che pratiche filosofiche o ascetiche richiedono al fine d’estraniarsi dal brusio del mondo esterno e dar voce solo a ciò che viene dal profondo dell’inconscio. C’è il silenzio della poesia.

Il silenzio è dunque allo stesso tempo un dono, un modo per preservare la purezza (o per non rivelare segreti), un mezzo per sondare se stessi o per provare a inoltrarsi in una dimensione altra. Ma il silenzio è anche un primo passaggio, una condizione di partenza: ed è per tal ragione che una mostra come Arte e magia (a Rovigo, Palazzo Roverella) non può che cominciare dall’invito al silenzio per calare il pubblico entro i meandri dell’occultismo e dell’esoterismo. Un invito che prende le forme d’una scultura di Jean Dampt (Venarey-les-Laumes, 1854 - Digione, 1945) e Alexandre Bigot (Mer, 1862 - Parigi, 1927), intitolata Le Silence: un volto emaciato, quasi sofferente, che rivolge all’osservatore il cosiddetto gesto arpocratico (o signum harpocraticum), quello che si fa portando l’indice verso la bocca chiusa e al quale il grande André Chastel ha dedicato alcune pagine del suo fondamentale Il gesto nell’arte. Un gesto che può assumere, scriveva Chastel, un valore semantico passivo (“io mi taccio”) o attivo (“tacete”), e che per tal ragione diviene passibile di molte letture (una caratteristica che lo rende ancor più ammaliante): se nei templi del dio egizio Arpocrate il gesto dell’indice mosso a serrare la bocca aveva la funzione d’esortare gli adepti a non diffondere le sue rivelazioni, nella scultura dall’aspetto funereo di Dampt e Bigot, ideata per decorare un letto e quindi associata alla notte e alle sue inquietudini, il silenzio diviene sinonimo di mistero, e guardando quella figura che c’invita a tacere con quel fare così imperioso, s’è quasi portati a seguirla tra i segreti della notte.

E un invito al silenzio è anche quello che il visitatore accoglie nell’incontrare il Silenzio di Giorgio Kienerk (Firenze, 1869 - Fauglia, 1948), pannello centrale del trittico L’enigma umano: è una straordinaria vanitas che unisce i due pannelli laterali col piacere e il dolore (peccato non siano a Rovigo, benché filologicamente la scelta di separare le tre tavole non sia errata, dacché il Silenzio nacque più di dieci anni prima degli altri due e pertanto fu inizialmente esposto da solo, e addirittura Il Piacere rimase nello studio di Kienerk), congiungendo i motivi del secondo (il teschio, l’atmosfera cupa) con quelli del primo (la procace sensualità della modella) e rimandandoci alla dimensione erotica del silenzio, che trova corrispondenza, per esempio, in un passaggio di À coeur perdu di Joséphin Péladan (“Silence des lèvres, sans paroles et sans baisers, silence des mains sans caresses, silence des nerfs détendus, silence de la peau desélectrisée et froide; et tout ce silence glaçant une vierge enflammée par la douleur de l’amplexion et qui attend le plaisir enfin”: “silenzio delle labbra, senza parole e senza baci, silenzio delle mani senza carezze, silenzio dei nervi distesi, silenzio della pelle priva d’elettricità e fredda; e tutto questo silenzio che ghiaccia una vergine infiammata dal dolore dell’amplesso e che attende infine il piacere”). Una volta accolto l’invito, si può compiere l’iniziazione: a renderla manifesta è L’initiation di Charles Sellier (Nancy, 1830 - 1882), che dipinge una figura condotta verso la luce da due angeli che stanno ai suoi fianchi e la guidano.

Una sala della mostra Arte e Magia a Rovigo
Una sala della mostra Arte e Magia a Rovigo


Una sala della mostra Arte e Magia a Rovigo
Una sala della mostra Arte e Magia a Rovigo


Jean Dampt, Alexandre Bigot, Le silence (1897; gres, 19 x 9 x 8 cm; Parigi, Collezione Jean-David Jumeau-Lafond)
Jean Dampt, Alexandre Bigot, Le silence (1897; gres, 19 x 9 x 8 cm; Parigi, Collezione Jean-David Jumeau-Lafond)


Giorgio Kiener, Il silenzio (1900; olio su tela, 170,5 x 94 cm; Pavia, Musei Civici)
Giorgio Kiener, Il silenzio (1900; olio su tela, 170,5 x 94 cm; Pavia, Musei Civici)


Charles Sellier, L'initiation (1880; olio su tela, 160 x 92 cm; Parigi, Collezione Lucile Audouy)
Charles Sellier, L’initiation (1880; olio su tela, 160 x 92 cm; Parigi, Collezione Lucile Audouy)

Arte e magia, del resto, vuole essa stessa proporsi al pubblico come una metafora d’un rito iniziatico. La rassegna si configura dunque come un vero viaggio a tappe, scandite dalle repentine modifiche degli allestimenti, con colori che assecondano il tema cui la sala è dedicata: il blu, meditativo, profondo e misterioso, è il colore che accompagna le prime sale, ovvero l’introduzione dedicata al silenzio, la seconda che prende in esame i rapporti tra architettura ed esoterismo, la terza che ci riporta al tempo dei Salon della Rose+Croix, e la quarta dedita ad approfondire la comunità di Monte Verità. S’è detto sopra del gesto arpocratico: nei templi dell’antico Egitto era uso trovare statue del dio Arpocrate che rivolgevano il gesto ai fedeli ch’entravano. Un rito che quindi si compiva ancor prima che gl’iniziati al culto del dio facessero il loro ingresso nel tempio: così, il percorso verso il tempio diventava parte integrante del rito, e gli architetti simbolisti di ciò erano ben consci. La mostra offre al pubblico diversi esempî d’architettura esoterica: da un lato si trovano progetti per templi ideali, come il Tempio dell’arte di Benvenuto Benvenuti (Livorno, 1881 - Antignano, 1959), un edificio sacro votato al culto dell’arte elevata a religione, con tanto di simbologia propria derivante dalle pratiche occulte (la croce uncinata, l’archipendolo, il globo), e dall’altro progetti pensati per monumenti reali, come quello a Vittorio Emanuele II ideato da Corinto Corinti (Castiglion Fiorentino, 1841 - Firenze, 1930), una sorta di “Mole Sabauda”, spiega Valeria Pagnini, che “spiccava per l’assenza di riferimenti diretti alla classicità, considerati dall’architetto poco adatti a esprimere l’individualità del nuovo Stato, e prevedeva la costruzione di un’alta torre a gradoni, da collocare al centro di una nuova piazza sull’Esquilino”. Un’opera che “doveva superare i monumenti dell’antica Roma ed ergersi come un simbolico ‘faro del progresso’ significativamente sormontato da una stella a cinque punte, che avrebbe illuminato e guidato la città e tutta la nazione”. Completano la sezione immagini di rituali e d’idoli, come quello, terribile, di František Kupka (Opočno, 1871 - Puteaux, 1957), intitolato Černý idol (“Idolo nero”), statua d’un enorme demone immerso in un paesaggio cupo, simbolo dell’inquietudine (quando non della paura stessa) mossa dall’ignoto, e intriso di quelle convinzioni teosofiche cui Kupka s’era avvicinato.

La rassegna rodigina insiste molto (com’è naturale aspettarsi) sui legami, più o meno labili secondo le disposizioni dei singoli, tra artisti e pratiche occulte o esoteriche, partendo dalla necessaria premessa, messa in evidenza dal curatore Francesco Parisi nel catalogo, che tra esoterismo e occultismo passano decisive differenze. In particolare, l’esoterismo è una cultura, l’occultismo un insieme di pratiche: Parisi cita il sociologo Edward A. Tiryakian che “identificava tre elementi caratteristici e costituenti una ‘cultura esoterica’”, ovvero un nucleo di credenze e dottrine, un nucleo di pratiche votate all’azione concreta, e un’organizzazione sociale all’interno della quale le pratiche trovano una struttura o un compimento. E, sempre seguendo la differenziazione del sociologo statunitense, l’occultismo, al contrario, è identificabile con quelle pratiche, tecniche o procedure che si confrontano con le forze della natura o del cosmo che non possono essere misurate o riconosciute con gli strumenti delle scienze tradizionali, e che si pongono l’obiettivo di giungere a risultati empirici, per esempio raggiungendo una conoscenza altrimenti inaccessibile, o alterando il corso degli eventi. In sostanza, l’occulto è l’oggetto, l’esoterico la base filosofico-religiosa.

Tuttavia molti artisti, pur presentando opere colme di riferimenti esoterici, in realtà non aderirono ad alcun circolo segreto, non si trastullarono con sette o logge massoniche, non nutrirono interesse per i temi dell’occulto. Nel suo saggio in catalogo, Jean-David Jumeau-Lafond ricorda che di ciò era perfettamente consapevole anche il summenzionato Joséphin Péladan (Lione, 1858 - Neuilly-sur-Seine, 1918), membro d’una branca di Tolosa dell’ordine dei rosacrociani e fondatore dell’Ordre kabbalistique de la Rose-Croix, che avrebbe dato vita ai celebri Salons de la Rose+Croix, peraltro negli ultimi anni oggetto d’un rinnovato interesse da parte degli studî storico-artistici. In una lettera del 1907, Péladan scrisse: “non esiste esoterismo nell’arte che abbia come unico oggetto il corpo umano. Ho riunito quelli che ho trovato; non sempre si trattava di quelli che avrei voluto”. Lo stesso Moreau, uno dei suoi artisti preferiti, e assieme a Puvis de Chavannes e Redon al centro di quello che Péladan considerava una sorta di triangolo cabalistico dell’arte, era del tutto insensibile ai misteri esoterici. Altri artisti invece sposarono appieno le convizioni di Péladan, che volle fondare il suo Salon anche come reazione nei confronti tanto dell’arte ufficiale (quella delle Accademie), quanto delle nuove forme d’arte legate al reale (il realismo e l’impressionismo): l’arte, per Péladan (che era solito girare per Parigi agghindato da mago, portare una lunga barba in stile assiro, e farsi appellare “Sâr”, ovvero “re” in lingua assira), costituiva un’opportunità per combattere contro il materialismo della società contemporanea, un mezzo di ribellione ideale contro lo squallore borghese, e a sua volta era ritenuta dallo scrittore esoterico lionese una pratica sacra o, per usare le sue stesse parole, “un rito iniziatico al quale solo i predestinati dovrebbero essere ammessi”. Il Salon de la Rose+Croix fu inaugurato nel 1892, e il successo di pubblico fu straordinario, anche perché si trattava d’un unicum: non esistevano, nella Parigi di fine Ottocento, Salon ai quali prendessero parte artisti tutti animati dagli stessi intenti, e rispondenti a regole precise, dettate da un manifesto. E anche se molti degli artisti (in gran parte giovani) che vi presero parte non erano interessati all’esoterismo (e spesso non avevano neppure conoscenze in materia), il “genio di Péladan”, sottolinea Jumeau-Lafond, “consiste nell’aver capito che la giovane generazione di artisti era alla ricerca di mistero e spiritualità, anche al di là di qualsiasi scienza tradizionale”, e per tal ragione i Salon di Sâr Péladan si configurarono come “un’impresa di risacralizzazione dell’arte”. Ecco quindi che in mostra sfilano alcune opere particolarmente significative, a cominciare dal Manifesto per il primo Salon de la Rose+Croix, ideato dall’allora ventiseienne Carlos Schwabe (Altona, 1866 - Avon, 1926) e che, in un formato esageratamente verticale, simbolo d’ascesa, raffigura due donne, simbolo di purezza e fede, che salgono verso il bagliore dell’illuminazione, osservate dall’allegoria della dissolutezza e della materia, che si dispera nel registro inferiore. Particolarmente intensa è poi la Rêverie en la nuit di Alphonse Osbert (Parigi, 1857 - 1939), presentata al Salon de la Rose+Croix del 1895: è un paesaggio serale colmo di misticismo e spiritualità in cui una figura velata si volge verso la luna, ed è esemplificativo di quell’aura misteriosa e iniziatica che Péladan cercava nelle opere da esporre nel suo Salon. E ancora, ci si sorprende a trovare, nella sala, uno studio per la grande Maternità di Gaetano Previati (Ferrara, 1852 - Lavagna, 1920), il capolavoro del 1891, oggi in Collezione Banco BPM, che l’artista ferrarese presentò alla Triennale del 1891 e che fece scalpore perché rivisitò in chiave profondamente visionaria uno dei temi più tradizionali del repertorio cristiano. Rifiutato da critica e pubblico, il dipinto di Previati trovò tuttavia ottima accoglienza presso artisti e critici vicini alle istanze simboliste, tanto che il pittore fu invitato a esporlo al primo Salon de la Rose+Croix, quello del 1892.

Da un circolo all’altro, l’esposizione di Palazzo Roverella, procedendo ancora nella sua lettura storica dell’esoterismo, lascia i Salon rosacrociani per approdare ad Ascona, in Svizzera, e approfondire la comunità di Monte Verità che, fondata nel 1901 sulle colline attorno alla cittadina del locarnese, propugnava una pedagogia “basata sull’alimentazione vegana e la salubrità della vita all’aria aperta (naturismo, elioterapia, yoga, danza espressiva, amore libero, emancipazione della donna... ), in opposizione a ogni prevaricazione o prerogativa ecclesiastica o statale, per colmare quell’inesorabile frattura tra mondo reale e ideale, tra cultura e natura, tra etica ed esterica” (Mara Folini). Quasi degli hippy ante litteram, i membri della comunità di Monte Verità erano spesso letterati, psicologi, occultisti e, ovviamente, artisti, molti dei quali destinati ad animare per anni la vita della comune svizzera. Tra questi vi era Marianne von Werefkin (Tula, 1860 - Ascona, 1938), che si sarebbe trattenuta ad Ascona per tutta la sua vita: Arte e magia propone i suoi Feux sacrés, eseguiti nel 1919, un anno dopo il suo approdo alla comunità. Nell’opera vediamo un monte la cui cima è illuminata da tre fuochi sacri e al cui centro compare un antro dal quale sgorga un liquido bianco che scende in un lago, mentre due figure vestite di bianco osservano questo bizzarro paesaggio: opera pregna di riferimenti erotici (l’antro come organo femminile, la montagna di forma fallica), potrebbe essere interpretata come l’unione androgina vagheggiata da molti culti esoterici, benché priva di forza vitale, forse perché, nota Tobias Kämpf, la prima guerra mondiale appena conclusa lasciò “in eredità all’artista e all’intera Europa un sentimento di distruzione universale su cui s’infranse ogni speranza d’inizio secolo”. Simbolo della spinta mistica di Monte Verità è Lichtgebet (“preghiera della luce”) di Fidus (pseudonimo di Hugo Höppener, Lubecca, 1868 - Woltersdorf, 1948), dove solitario protagonista è un bellissimo uomo nudo, biondo, sulla vetta d’un monte, che si slancia per ricevere tutta la luce del sole in una rinnovata unione totale e panica con la natura, ma anche con l’infinito, contro ogni tradizione (tant’è che la preghiera avviene in solitaria e all’aperto, al contrario della preghiera della tradizione cristiana). Ispira armonia anche Versunkene Sinne (“Immersi nei propri sogni”) di Walter Helbig (Falkenstein, 1878 - Ascona, 1968), che coi suoi tre personaggi (una coppia stretta in un abbraccio e una donna nuda in un paesaggio boschivo) trova nei monti del Canton Ticino quel paradiso che Gauguin andava cercando in Polinesia.

Benvenuto Benvenuti, Il tempio dell'arte (1906; matita, inchiostro, acquerello oro, 380 x 530 mm; Collezione privata, courtesy Galleria Athena, Livorno)
Benvenuto Benvenuti, Il tempio dell’arte (1906; matita, inchiostro, acquerello oro, 380 x 530 mm; Collezione privata, courtesy Galleria Athena, Livorno)


Corinto Corinti, Progetto per il monumento per Vittorio Emanuele II (1881; disegno a china e acquerello su cartoncino, 1097 x 504 mm; Roma, Biblioteca Nazionale Centrale Vittorio Emanuele II)
Corinto Corinti, Progetto per il monumento per Vittorio Emanuele II (1881; disegno a china e acquerello su cartoncino, 1097 x 504 mm; Roma, Biblioteca Nazionale Centrale Vittorio Emanuele II)


František Kupka, Černý idol (1903; acquatinta a colori, gouache, 348 x 345 mm; Praga, Parrik Šimon's Collection)
František Kupka, Černý idol (1903; acquatinta a colori, gouache, 348 x 345 mm; Praga, Parrik Šimon’s Collection)


Carlos Schwabe, Manifesto per il primo Salon de la Rose+Croix (1892; litografia, 1980 x 805 mm; Collezione privata)
Carlos Schwabe, Manifesto per il primo Salon de la Rose+Croix (1892; litografia, 1980 x 805 mm; Collezione privata)


Alphonse Osbert, Rêverie en la nuit (1895; olio su pannello, 56 x 37,5 cm; Collezione privata)
Alphonse Osbert, Rêverie en la nuit (1895; olio su pannello, 56 x 37,5 cm; Collezione privata)


Gaetano Previati, Studio per Maternità (1889-1890 circa; olio su tela, 56 x 130 cm; Rancate, Pinacoteca Comunale Giovanni Züst)
Gaetano Previati, Studio per Maternità (1889-1890 circa; olio su tela, 56 x 130 cm; Rancate, Pinacoteca Comunale Giovanni Züst)


Marianne von Werefkin, Feux sacrés (1919; tempera su carta incollata su cartone, 75 x 57 cm; Ascona, Fondazione Marianne Werefkin)
Marianne von Werefkin, Feux sacrés (1919; tempera su carta incollata su cartone, 75 x 57 cm; Ascona, Fondazione Marianne Werefkin)


Fidus, Lichtgebet (1913; litografia a colori, 640 x 450 mm; Collezione privata)
Fidus, Lichtgebet (1913; litografia a colori, 640 x 450 mm; Collezione privata)


Walter Helbig, Versunkene Sinne (1921; olio su tela, 95 x 77 cm; Ascona, Museo Comunale d'Arte Moderna)
Walter Helbig, Versunkene Sinne (1921; olio su tela, 95 x 77 cm; Ascona, Museo Comunale d’Arte Moderna)

Sospeso l’inquadramento storico della rassegna, le sale successive procedono con approfondimenti iconografici: si lascia il blu dei primi ambienti, s’oltrepassa una porta e ci si ritrova in una serie di sale rivestite da cupi pannelli viola che introducono il tema della notte e dei suoi abitanti, tra fantasmi, visioni spettrali, apparizioni d’anime di defunti. Se il progresso scientifico era il più evidente prodotto della ragione, ed era però al contempo considerato anche il riflesso d’una società materialista, i miti, specie quelli più foschi, l’ignoto e l’irrazionale diventano una sorta di rifugio contro il dominio della civiltà. La mostra di Rovigo compie una ricognizione che attraversa varî paesi europei, a cominciare dalla Boemia e dalla sua capitale, Praga, che divenne sul finire del secolo XIX una delle città europee più interessate ai culti esoterici (ancora oggi, peraltro, s’avverte il fascino di questa eco), e vide sorgere sette e cerchie occulte d’ogni sorta. È proprio a Praga che si sviluppò l’estro di Jaroslav Panuška (Hořovice, 1872 - Kochánov, 1958), pittore il cui immaginario è tra i più raccapriccianti del tempo, e il cui repertorio abbonda di lugubri fantasticherie orrorifiche. La mostra presenta in rapida successione tre sue opere, Nokturno (“Notturno”), Duch mrtvé matky (“Lo spirito della madre defunta”) e Upir (“Il vampiro”): il primo è la spaventosa raffigurazione d’un interno dove, da una finestra aperta, penetra un alito di fumo che assume le sembianze della mano scheletrica d’uno spettro che sposta un teschio e fa volare i fogli sparsi sul tavolo, il secondo ci presenta l’apparizione della madre dell’artista, scomparsa una decina d’anni prima della realizzazione del dipinto (Panuška aveva ventott’anni e fu terribilmente sconvolto dall’accaduto: anche per questo il tema della morte è una costante nella sua produzione), e che nell’opera è resa come un enorme fantasma che sbircia in quella che fu la sua casa, e il terzo è nient’altro che una scena in cui il vampiro, la mostruosa creatura della mitologia slava, entra in un’abitazione in cerca d’una vittima. È importante sottolineare che a Panuška non interessava fornire una semplice illustrazione d’un mito o d’una scena: voleva inquietare il riguardante. Ed è forse lo stesso obiettivo che si poneva Gabriele Gabrielli (Livorno, 1895 - 1919), pittore tormentatissimo e dimenticato, morto suicida a soli ventisei anni, ma capace di produrre diversi terrificanti dipinti coi quali intendeva riversare sulla tela le proprie ossessioni, spesso alterate dall’alcol: il suo angosciante Gufo, che prende le mosse da uno dei Fiori del male di Baudelaire dedicato proprio al grande rapace, ci fa apparire l’animale come “la creatura notturna per eccellenza, al centro di una composizione in cui egli sovrasta le altre creature della notte” (Chiara Stefani). E tra gli animali in grado di scuotere l’animo non può non comparire il lupo: Eugène Grasset (Losanna, 1845 - Sceaux, 1917) lo rende protagonista del suo Trois femmes et trois loups, dipinto nel quale tre donne in abiti da notte sovrastano altrettanti lupi che le inseguono nel fitto d’una foresta. Stanno volando tra gli alberi, e si deduce che Grasset abbia voluto restituire l’immagine di tre streghe.

Proprio alle streghe e ai diavoli è dedicata la sezione successiva della rassegna. È interessante notare come, più che sulla tradizionale raffigurazione della strega come vecchia orripilante, la mostra rodigina si concentra anzi sulla strega come amante del diavolo, e quindi come bella, seducente e pericolosa ammaliatrice. È l’attrazione tipicamente fin-de-siècle per la femme fatale che si somma al fascino per i miti esoterici: così, nell’immaginario degli artisti di fine Ottocento, la strega somiglia alla provocante Diavolessa di Alberto Martini (Oderzo, 1876 - Milano, 1954), che nuda e lasciva accenna un sorriso beffardo, o alla mitologica Circe di Louis Chalon (Parigi, 1866 - Francia, 1940), che dall’alto del suo trono, anch’ella nuda, fa valere il proprio potere sugli uomini tramutandoli in bestie, o alla Sorcière di Luis Ricardo Faléro (Granada, 1851 - Londra, 1896), la voluttosa incantatrice che vola sulla sua scopa mostrando, senz’alcun velo a celar particolari alla vista, tutte le rotondità del suo corpo sensuale, in una composizione densa d’allusioni erotiche che decora la membrana d’un tamburello basco (ed è pertanto interessante anche come oggetto di per sé).

Si torna a percorrere le sale di Rovigo secondo una prospettiva storica e s’arriva nella Roma d’inizio Novecento interessata dalla moda dello spiritismo: al centro della sala, un Tavolo tripode tondo per sedute spiritiche di Thayaht (pseudonimo di Ernesto Michahelles, Firenze, 1893 - Marina di Pietrasanta, 1959), curioso oggetto quanto mai rivelatore di come l’uso d’organizzare riunioni per evocare spiriti avesse preso piede all’epoca, è attorniato dalle fotografie di Anton Giulio Bragaglia (Frosinone, 1890 - Roma, 1960), che giovanissimo, a soli vent’anni, volle sperimentare una tecnica che, in linea coi dettami dell’arte futurista, gli consentisse di catturare il movimento in un unico scatto. Le immagini risultanti (particolarmente interessante è quella che ritrae Giacomo Balla, dal momento che nell’immagine si nota anche uno dei suoi capolavori, Dinamismo di un cane al guinzaglio, ma anche perché certi dipinti di Balla furono ispirati da questi esperimenti di Bragaglia: in catalogo, un saggio di Mario Finazzi ne dà puntualmente conto) qualche volta furono spacciate per “fotografie spiritiche” che ritraevano spettri, dal momento che i lunghi tempi d’esposizione necessarî per le finalità di Bragaglia facevano sì che i soggetti apparissero sfocati e spesso poco riconoscibili, simili a fantasmi.

Jaroslav Panuška, Nokturno (1897; china su carta, 15 x 300 mm; Praga, Parrik Šimon's Collection)
Jaroslav Panuška, Nokturno (1897; china su carta, 15 x 300 mm; Praga, Parrik Šimon’s Collection)


Jaroslav Panuška, Duch mrtvé matky, Lo spirito della madre defunta (1900 circa; olio su cartone, 68 x 48 cm; Pardubyce, Východočeská galerie v Pardubicích)
Jaroslav Panuška, Duch mrtvé matky, “Lo spirito della madre defunta” (1900 circa; olio su cartone, 68 x 48 cm; Pardubyce, Východočeská galerie v Pardubicích)


Jaroslav Panuška, Upir, Vampiro (1900 circa; olio su cartone, 58 x 64 cm; Praga, Parrik Šimon's Collection)
Jaroslav Panuška, Upir, Vampiro (1900 circa; olio su cartone, 58 x 64 cm; Praga, Parrik Šimon’s Collection)


Gabriele Gabrielli, Gufo (1917 circa; olio su tavola, 35 x 25,5 cm; Collezione privata, courtesy Galleria Athena, Livorno)
Gabriele Gabrielli, Gufo (1917 circa; olio su tavola, 35 x 25,5 cm; Collezione privata, courtesy Galleria Athena, Livorno)


Eugène Grasset, Trois femmes et trois loups (1892 circa; acquerello e oro su carta, 315 x 240 mm; Parigi, Musée des Arts Decoratifs)
Eugène Grasset, Trois femmes et trois loups (1892 circa; acquerello e oro su carta, 315 x 240 mm; Parigi, Musée des Arts Decoratifs)


Alberto Martini, Diavolessa (1906; olio su tela, 67 x 90 cm; Collezione privata)
Alberto Martini, Diavolessa (1906; olio su tela, 67 x 90 cm; Collezione privata)


Louis Chalon, Circe (1888; olio su tela, 172,5 x 132 cm; Collezione privata, Courtesy ED Gallery, Piacenza)
Louis Chalon, Circe (1888; olio su tela, 172,5 x 132 cm; Collezione privata, Courtesy ED Gallery, Piacenza)


Luis Ricardo Falero, La Sorcière (1882; olio su pergamena, diametro 29 cm; Collezione privata, courtesy Galerie Talabardon)
Luis Ricardo Falero, La Sorcière (1882; olio su pergamena, diametro 29 cm; Collezione privata, courtesy Galerie Talabardon)


La Sorcière di Luis Ricardo Falero in mostra
La Sorcière di Luis Ricardo Falero in mostra


Thayaht, Tavolo tripode tondo per sedute spiritiche (1930 circa; piano in legno intarsiato, gambe rastremate in legno tornito a tortiglioni, altezza 80,5 cm, diametro 90 cm; Roma, Collezione Seeber Michahelles)
Thayaht, Tavolo tripode tondo per sedute spiritiche (1930 circa; piano in legno intarsiato, gambe rastremate in legno tornito a tortiglioni, altezza 80,5 cm, diametro 90 cm; Roma, Collezione Seeber Michahelles)


Antonio Giulio Bragaglia, Il pittore futurista G. Balla (1912 circa; fotoincisione da lastra di zinco, 425 x 590 mm; Roma, Collezione Privata)
Antonio Giulio Bragaglia, Il pittore futurista G. Balla (1912 circa; fotoincisione da lastra di zinco, 425 x 590 mm; Roma, Collezione Privata)

Luce e colori sono i protagonisti delle ultime tre sale di Arte e magia, le cui pareti s’illuminano di colori accesi. Si comincia l’itinerario verso la luce approfondendo le suggestioni che le discipline orientali fornirono ai culti esoterici europei: l’espressione latina Ex Oriente lux (“la luce proviene dall’oriente”) era adoperata per indicare la profonda spiritualità delle discipline orientali e trovò uno dei massimi sostenitori in Arthur Schopenhauer, fortemente interessato ai sistemi filosofici induisti e buddhisti. La sezione è forse la più scarna e meno organica della rassegna, ma vi si trovano comunque opere degne di nota: su tutte lo studio per Les Kumaras di Jean Delville (Leuven, 1867 - Bruxelles, 1953), prima opera in assoluto a prefiggersi l’obiettivo di rappresentare i Kumara, quattro saggi della tradizione induista, figli del dio Brahma, dediti a una vita di studio e castità, oltre che simbolo delle quattro intelligenze umane secondo le convinzioni della Società Teosofica, l’organizzazione fondata nel 1875 da Madame Blavatsky (Eléna Petróvna Blaváckij, Dnipro, 1831 - Londra, 1891), alla quale aderirono molti artisti dell’epoca (tra i quali lo stesso Delville).

Scendendo al piano inferiore, la penultima sala della rassegna mira a ricostruire i rapporti tra i primi interpreti dell’astrattismo e i culti esoterici. Al tema è peraltro dedicato un breve ma denso saggio di Jolanda Nigro Covre in catalogo: molte delle ricerche astratte trovarono le loro scaturigini nel rifiuto della razionalità dei pittori moderni alimentato dalla passione per “l’irrazionale, il sincretismo religioso, il fascino (e non propriamente l’indagine) dell’inconscio, l’attrazione per l’occulto, il sovrasensibile, i fenomeni medianici, la ripresa della tradizione ermetica, l’attitudine magica dei popoli primitivi, la missione dell’artista che prefigura un’armonia universale, nonché la filosofia neoplatonica e neopitagorica”. Nelle opere di Vasilij Kandinskij (Mosca, 1866 - Neuilly-sur-Seine, 1944), per esempio, le forme geometriche che dominano le composizioni rispondono spesso a sollecitazioni derivanti dai suoi studî filosofici e dalla sua passione per l’esoterismo: l’artista russo riteneva che forme e colori avessero un “suono interiore” in grado di comunicare al riguardante sensazioni diverse secondo le loro diverse combinazioni (un dato colore, per esempio, è esaltato da una certa forma e, viceversa, indebolito da un’altra). In Rot in Spitzform (“Rosso in una forma appuntita”), la forma a cuneo protagonista del quadro, triangolare, esalta il rosso squillante facendo assumere a quest’immagine un tono particolarmente aggressivo, bilanciato solamente dal cerchio blu a sinistra (Kandinskij era convinto che l’intensità dei colori profondi, come il blu, fosse vivificata dalle forme tonde). Occorre evidenziare come molti pionieri dell’astrattismo attribuissero significati simbolici agli elementi che componevano le loro opere: è il caso di Julius Evola (Giulio Cesare Andrea Evola, Roma, 1898 - 1974), di cui è esposta in mostra l’unica ceramica nota, il Vasetto Athanor, interamente decorato con una teoria di forme astratte, che prendono le sembianze delle nubi “magiche” tipiche della sua produzione, e che alludono alle pratiche alchemiche a cui il celebre artista-filosofo era interessato (la presenza del giallo che avanza sopra i colori cupi evoca l’oro in cui l’alchimista trasforma la materia). Anche un importante futurista come Giacomo Balla (Torino, 1871 - Roma, 1958) non si sottrasse al tentativo d’usare la forma astratta per rappresentare ciò che non si può vedere con gli occhi (del resto, nel Manifesto tecnico della pittura futurista s’affermava che la potenza visiva dell’artista è analoga a quella dei raggi X, e il tentativo di dare “scheletro e carne all’invisibile, all’impalpabile, all’imponderabile, all’impercettibile” era un punto programmatico che lo stesso Balla sottoscrisse nel manifesto Ricostruzione futurista dell’Universo): ecco quindi che un dipinto come Primaveriris intende alludere alla fecondità della primavera, e Pessimismo e ottimismo n. 4 si propone di comunicare, col solo uso delle forme, le due contrapposte attitudini dell’animo umano di fronte a un’eventualità.

L’ultima sala (“Psyche, Cosmo, Aura”) è una sorta d’estensione di quella riservata agli astrattisti: lo scopo dichiarato è permettere al pubblico di cogliere gli sviluppi che portarono al passaggio dal simbolismo alle avanguardie. In effetti, è una specie di riassunto che invero poco aggiunge al discorso complessivo della mostra: passiamo dunque dai singolari ritratti di Enrico “Chin” Castello (Rivarolo Ligure, 1890 - Genova, 1966), con la loro commistione d’estetica simbolista e pulsioni futuriste, alle misticheggianti composizioni d’un giovane Piet Mondrian (Amersfoort, 1872 - New York, 1944) che coi suoi alberi cercava una tensione spirituale all’interno della natura e già lasciava presagire gli sviluppi futuri della sua arte, fino a giungere alle ricerche di Paul Klee (Münchenbuchsee, 1879 - Muralto, 1940), intenzionato a scavare nel profondo dell’animo (la sua Cascata, per esempio, è una sorta d’immagine mentale, di proiezione interiore d’una vera cascata che scaturisce dall’inconscio dell’artista per poi riapparire all’esterno nelle sue linee essenziali). È l’arte che “non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile”, alla base di molte future ricerche del Novecento.

Jean Delville, Studio per Les Kumaras (s.d.; matita e pastello su carta, 1080 x 560 mm; Collezione privata)
Jean Delville, Studio per Les Kumaras (s.d.; matita e pastello su carta, 1080 x 560 mm; Collezione privata)


Vasilij Kandinskij, Rot in Spitzform, Rosso in una forma appuntita (1925; acquerello e china su carta, 485 x 325 mm; Rovereto, MART - Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto)
Vasilij Kandinskij, Rot in Spitzform, “Rosso in una forma appuntita” (1925; acquerello e china su carta, 485 x 325 mm; Rovereto, MART - Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto)


Julius Evola, Vasetto Athanor (1920-1921; ceramica decorata e smaltata, altezza 18 cm, diametro 12 cm; Roma, Fondazione Evola)
Julius Evola, Vasetto Athanor (1920-1921; ceramica decorata e smaltata, altezza 18 cm, diametro 12 cm; Roma, Fondazione Evola)


Giacomo Balla, Primaveriris (1920; olio su tela applicato su cartone, 26 x 30,7 cm; Collezione privata)
Giacomo Balla, Primaveriris (1920; olio su tela applicato su cartone, 26 x 30,7 cm; Collezione privata)


Giacomo Balla, Pessimismo e ottimismo n. 4 (1923; olio su tavola, 28 x 40 cm; Collezione privata)
Giacomo Balla, Pessimismo e ottimismo n. 4 (1923; olio su tavola, 28 x 40 cm; Collezione privata)


Enrico Chin Castellani, Aviatore di guerra (1916; matita su carta pergamenata, 345 x 250 mm; Collezione privata)
Enrico Chin Castellani, Aviatore di guerra (1916; matita su carta pergamenata, 345 x 250 mm; Collezione privata)


Piet Mondrian, Rij van elf populieren in rood, geel, baluw en groen, Fila di undici pioppi in rosso, giallo, blu e verde (1908; olio su tela, 60 x 112 cm)
Piet Mondrian, Rij van elf populieren in rood, geel, baluw en groen, “Fila di undici pioppi in rosso, giallo, blu e verde” (1908; olio su tela, 60 x 112 cm)


Paul Klee, Cascata (1927; acquerello, parzialmente spruzzato, e inchiostro e penna su carta montata su cartone, 248 x 300 mm; Collezione privata, courtesy VitArt, Lugano)
Paul Klee, Cascata (1927; acquerello, parzialmente spruzzato, e inchiostro e penna su carta montata su cartone, 248 x 300 mm; Collezione privata, courtesy VitArt, Lugano)

Il pubblico è accompagnato verso l’uscita da una sala che, a mo’ d’epilogo, raduna diverse produzioni grafiche di molti dei protagonisti della mostra, che spesso illustrarono libri, romanzi, trattati che contribuirono a diffondere l’interesse per l’esoterismo (i racconti di Edgar Allan Poe, i romanzi di Joris-Karl Huysmans, i poemi di Jules Bois: scritti in grado di svolgere una forte azione propulsiva) e nei quali spesso gli artisti stessi si riconobbero. Una conclusione che contribuisce a garantire un maggior peso, nell’ambito del racconto imbastito dalla mostra, al rapporto tra arti e lettere che, nel percorso espositivo, emerge a tratti, ma mai con forza dirompente (è semmai il catalogo che si fa carico d’esplicitare le strette connessioni che intercorsero tra le immagini e la parola scritta, soprattutto in ambito francese). Per il resto, s’ha l’impressione d’aver assistito a una rassegna che probabilmente, nell’ambito degli studî sui rapporti tra arte ed esoterismo a fine Ottocento, farà ancora parlare di sé negli anni a venire, date la sua completezza, la sua prospettiva d’importante mostra di ricognizione (che però non manca di presentare al pubblico e agli studiosi anche alcuni inediti), la capacità d’allargare il discorso anche ad altre discipline come la musica (in questo contributo non se n’è fatta menzione, ma si tratta d’una presenza ch’è costante per buona parte del percorso) o la letteratura. È comunque necessario considerare che le ricerche sul tema “arte e magia” sono relativamente recenti, dal momento che tentativi di studiare in maniera strutturata tale legame rimontano a non prima d’una trentina d’anni fa (la prima grande mostra sul tema dello spirituale nell’arte è considerata Spiritual in Art tenutasi al County Museum di Los Angeles nel 1986, e ancor più tarde sono rassegne che si sono dedicate all’occulto e all’esoterico) e che hanno sperimentato un certo impulso solo nell’ultimo decennio.

Ricerche, dunque, ancora germinali, ma che spronano sempre più l’interesse degli studiosi e del pubblico, anche in virtù del fatto che molti dei protagonisti della mostra di Rovigo sono ancora poco noti e molti aspetti delle loro produzioni ancora in attesa d’essere approfonditi. Un’esposizione ricca e coinvolgente (gli allestimenti, di cui s’è detto, sono uno dei principali punti di forza, così come oltremodo interessante è la presentazione di certi aspetti poco noti al pubblico della produzione d’alcuni grandi nomi della storia dell’arte), che si presta a diversi livelli di lettura spaziando tra storia e iconografia, dotata d’un costrutto valido e coerente, sostenuta da un buon catalogo e che ben s’inserisce nel solco delle mostre sull’arte di fine Ottocento diventate ormai una tradizione e un tratto caratterizzante del programma espositivo di Palazzo Roverella, che sicuramente con Arte e magia ha toccato uno dei suoi apici.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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