I curatori della mostra di Felice Casorati a Palazzo Reale, fino al 29 giugno, sono gli stessi che trent’anni fa seguirono l’edizione del catalogo generale dell’artista piemontese: Giorgina Bertolino e Francesco Poli. Vi si aggiunge Fernando Mazzocca che nel ripercorrere la fortuna critica di Casorati dimentica Edoardo Persico che invece conobbe bene l’artista, assegnandogli anche un ruolo nello sviluppo del gruppo dei Sei di Torino (saggio su “Le Arti Plastiche” estate del 1929) tenuto a battesimo dal critico napoletano quando si trovò nel capoluogo piemontese, dove era approdato nel 1927 dopo aver cercato di collaborare più da vicino con Piero Gobetti (che nel frattempo era morto) e patendo gli stenti di una vita scarsa di remunerazioni e di soddisfazioni (svolse opera di uomo delle pulizie alla Fiat), nonostante avesse la stima di figure come Lionello Venturi, che aveva conosciuto grazie alla madre di Mario Soldati la quale lo aiutò anche facendo in modo che venisse assunto come redattore dalla rivista “Motor Italia”. Trasferendosi nel 1929 a Milano e cominciando a lavorare per “Casabella” affiancando Giuseppe Pagano che ne era direttore, Persico fu il primo, credo, a sottolineare il contributo di Casorati alle arti decorative italiane e all’architettura, il medesimo – scrisse – che all’estero svolsero Picasso e Léger. Su “L’Italia letteraria” nel 1934 Persico sottolineò appunto “il contributo che Casorati e Chessa hanno dato alla formazione del razionalismo italiano: l’uno col teatro di Casa Gualino, l’altro col padiglione della Comunità Artigiana dei Fotografi alla mostra di Torino nel 1928”.
Il critico si era rivisto con Casorati a Milano per parlare di una mostra che si sarebbe dovuta tenere nel novembre del 1934 a Torino, che non si fece per varie ragioni, tra cui l’ostilità di qualcuno (“una città dove tutti vivono da nemici”). La mostra venne sostituita dalla conferenza che è oggi considerata uno dei testi fondamentali di Persico: Profezia dell’architettura, tenuta a Torino il 21 gennaio 1935, che inizialmente doveva intitolarsi Dalla parte dell’Europa. Alfonso Gatto, nel 1945, ricordava l’emozione di quella sera: “Le sue parole aprivano spazi, elevavano paesi e architetture, liberavano l’aria felice e vitale della tittura dei grandi impressionisti… ”. Un rapporto, quello con Casorati, che durava già da qualche anno, fin dal 1928 quando il critico fondò La Biblioteca Italiana di Edoardo Persico, editrice di un solo libro, la riedizione del Sarto spirituale di Prezzolini; il secondo, già pronto per la tipografia, dovevano essere i Pretesti di critica di Lionello Venturi, che non vide la luce, uscendo poi da Hoepli; mentre era annunciata anche una monografia su Casorati, mai uscita. Tutto bruciò quasi in un lampo, compresi i sogni di editore di Persico.
Messo in evidenza che Persico non fu una conoscenza occasionale per Casorati, ma uno tra i critici che intuì per primo la sua grandezza, entrando nel merito della mostra di Milano, visitandola ho provato uno strano senso di catatonia, credo dovuto a un allestimento privo di tensioni interne e da una illuminazione “grigia”, che ha il singolare effetto di far sembrare i quadri di Casorati più belli in fotografia che dal vero. Eppure, se c’è un pittore che sa ottenere dal colore quella spinta interna che proietta il quadro in uno spazio irreale e metafisico questo è proprio Casorati. Non per caso è considerato un protagonista e un ispiratore di quella pittura che passa sotto il nome di “Realismo magico”.
Il primo a usare questa definizione fu nel 1925 il critico Franz Roh, ma sarà Massimo Bontempelli nel 1927 a farne una sorta di “movimento” interno alle arti e alla letteratura dell’epoca, un sentire diverso rispetto alla prima metafisica di De Chirico, Carrà, Savinio, Morandi, de Pisis, di Sironi e Martini; ma, soprattutto, lontano dal De Chirico che nasce da una sorta di congestione della realtà, una cristallizzazione o un immanentismo delle forme; dove le forme chiuse, anche quando prigioniere di un sogno, sono una manifestazione del nichilismo che sigilla ogni cosa sotto una resina indurendo e rendendo fossile l’apparenza del mondo dandole una parvenza di eternità hic et nunc, ma con una esplicita attrazione per tutto ciò che porta al nulla e al pensiero mortifero della realtà, quasi un museo delle rovine.
Il Realismo magico esce dalle paludi della post-avanguardia aderendo a un “richiamo all’ordine” che è in primis un ritorno alla forza trasfiguratrice della realtà. Su Casorati agirà sempre l’incanto perenne per la pittura di Klimt. Ma se vogliamo dargli uno spessore teorico, allora bisogna dire che, sul piano delle idee, quel realismo ferma il tempo e il mondo dentro una epochè, direbbero i fenomenologi, che ne mette alla prova la durevolezza senza ridurre tutto alla stasi; è magico perché ravviva ciò che sarebbe, in sé, “oggetto di ferma”..
Dopo mezzo secolo che non se ne parlava più, fu alla Galleria dello Scudo di Verona che nel 1988 Maurizio Fagiolo dell’Arco riesumò le testimonianze del Realismo magico mostrandone la potenza espressiva. Il ritorno alla pittura degli anni Ottanta e Novanta del Novecento restituì linfa vitale anche al Realismo magico aumentando le sue possibilità sul mercato. Era ancora lontana la svolta improvvisa che avrebbe ricacciato il Realismo magico nel silenzio da cui Jean Clair l’aveva riscattato con la mostra Les Realismes al Pompidou. Quella mostra, inaugurata poco prima di Natale del 1980, fu l’atto di battesimo del “ritorno alla pittura”. Ma, ecco, vent’anni dopo, il traumatico ribaltamento di scena prodotto dall’attentato del 2001 alle Torri Gemelle, che inibì tante energie positive nella ricerca pittorica e scultorea, aprendo l’orizzonte a un tipo di arte che trovava nelle disperate performance del mondo finanziario la sua unica aura,vincolata a una risposta che corrisponde alle subdole logiche del real estate che ha trasformato il mondo in un unico e demenziale lunapark estetico, i cui parametri sono quelli individuati da Rem Koolhaas per l’architettura di fine millennio: Bigness e il Junk space. Il Realismo magico era ricaduto in una sorta di letargo da cui alla fine del 2021 Gabriella Belli e Vario Terraroli hanno cercato di risvegliarne quantomeno il potere suggestivo. Il problema, a mio parere, fu proprio che quella mostra ripropose il discorso riducendo quella esperienza degli anni Venti e Trenta del Novecento al suo effetto incantevole. Il fatto è che non c’è niente, nella storia dell’arte italiana del Novecento, che più del Realismo magico risuona come slogan suggestivo ma, sostanzialmente, privo di tenuta teorica.
In ogni caso, anche nel 2021 i curatori inserirono Casorati fra le teste di serie di quella poetica, accanto a Cagnaccio di San Pietro e Antonio Donghi. Saltando ogni passaggio critico, si potrebbe dire che un po’ di Realismo magico fra anni Venti e Trenta lo trovi se non in tutti, certo in una buona parte degli autori figurativi più in vista in Italia in un’epoca piena di conflitti interiori ma sostanzialmente mossa da sentimenti che nel pensiero del classico trovano la loro pace e rendono il “richiamo all’ordine” non una volontà totalitaria, ma l’unica via d’uscita dalla frantumazione irredenta che hanno lasciato le avanguardie con il loro tentativo di tabula rasa.
Che cosa sia il Realismo magico, dunque, anche adesso non mi è chiaro se non come ampio e articolato sentire trascendente condito di tradizione e classicità, che fonde i valori plastici e le geometrie dello spazio, temi che le avanguardie e un certo positivismo avevano negato al discorso artistico. La metafisica mediterranea di Picasso è un eventuale termine di paragone, così come il De Chirico già postmetafisico, ma tutto sta in piedi solo sul valore critico che s’intende dare a tale espressione. All’epoca ebbi l’impressione che per teorizzare quest’ossimoro si cercasse di spiegare l’aggettivo (magico) con una tale perseveranza da renderlo il vero sostantivo, come un sinonimo riassuntivo di classicità, metafisica, arcaismo, mediterraneità, visione onirica, mistica del corpo, luce interiore ecc. Qualche anno prima della mostra di Belli e Terraroli, Renata Colorni aveva ritradotto il capolavoro incompiuto di Thomas Mann, modificando il titolo in La montagna magica dopo decenni nei quali aveva retto una traduzione forse meno fedele al vocabolario tedesco ma più pregnante, La montagna incantata, laddove sotto questo titolo agiva ancora la coscienza Das Unheimliche freudiano, il perturbante che fa emergere le ombre spaventose che si trinceravano dietro i retaggi familiari profondi. Possiamo pensare, ribaltando il discorso, che quel Realismo magico, che suona in questo caso molto meglio di quanto non potrebbe il nuovo battesimo del nome in Realismo incantato, sotto la pelle della classicità, riletta attraverso le cose che si mostrano in tutta la loro perfida e ammaliante pienezza di forme, oltre la turgida chiarezza degli impianti compositivi, in cui Casorati è maestro, ecco, possiamo svelare o presentire un grado di terrore governato soltanto grazie all’immobilità del reale trasfigurato?
Soffici parlò anche di “realismo sintetico” (1928). E questo allarga il campo a una varietà di stili ed esperienze che contrastano tanto il positivismo quanto il materialismo, lo scientismo, ovvero il razionalismo, generando una sorta di “incanto” che rimette in gioco lo stesso lavoro psicoanalitico che negli anni Trenta poteva già essere un presentimento dell’apocalisse prossima eveniente dell’Europa. Ma il gioco forse non valeva la candela se De Chirico ci vide le “cose che risplendono di luce interna” e Bontempelli, evocando Dante, una “profezia di cose future”. La profezia del domani poco aveva a che spartire con la “sostanza di cose sperate” con cui Persico concluse la sua conferenza. O meglio, se così doveva essere, era meglio non provocare gli dèi e le loro nemesi.
Falsa partenza, perché il Realismo magico rimane una “chimera critica” – non è un movimento, per così dire, tutt’al più, è un’aria, un’atmosfera della sensibilità, del gusto per così dire –, dove l’apparenza copre la verità profonda: la distanza poetica fra Felice Casorati e Cagnaccio di San Pietro, li rende inconciliabili al di là di un semplice approccio fenomenologico: il sogno metafisico e neorinascimentale del primo niente ha che fare col “teatro della crudeltà” del secondo. Con tutta la buona volontà, sarà difficile vedere una qualche relazione fra il disgusto antiborghese a cui Cagnaccio nel 1928 dà forma in Dopo l’orgia col velenoso iperrealismo che riduce i corpi delle donne a oggetti d’uso per maschi plasmati dal virilismo fascista (che vituperava); e la seduzione metafisica del gineceo borghese in dipinti casoratiani come Le signorine (1912), L’Attesa (1919), La donna e l’armatura (1921), Raja (1924), Meriggio (1923), Concerto (1924). Per non parlare della Conversazione platonica dove l’intenzione di Casorati è lontanissima dall’impulso, la rabbia se vogliamo, del moralizzatore e anarchico Cagnaccio. La seduzione della forma è per Casorati qualcosa che discende dalla matrice femminile del suo pensiero sulla pittura, tanto che se ne potrebbe ritrovare l’ombra in qualcosa di lontanissimo dalle forme muliebri, ma sostanzialmente vicino nell’essenza della perfezione, la grazia celata nel femminile, come le nature morte che hanno come soggetto le uova, scelta come omaggio all’ispirazione pierfrancescana, ma in realtà anche nella pittura del grande toscano legate a una idea di perfezione che si rispecchia nel discorso sul femminile.
Lo stile di Casorati resta intonso nei decenni, pur con tante variazioni interne: si ammanta di eleganze simboliste, incide le forme con un bisturi che esalta il senso dell’arcaico, il pensiero “non eloquente” degli anni torinesi, e approda alla forma diamantina del ritratto di Silvana Cenni (1922); dopo l’incontro con Riccardo Gualino, che gli commissiona i ritratti familiari, fra cui quello del figlio Renato, che esprime un particolare sentimento dell’androgino nel tema dell’infanzia, ecco che Casorati approda a quel sentimento della forma dove il magico e l’incantesimo sono due forze che rendono la sua pittura una manifestazione del contrasto fra apollineo e dionisiaco, non a caso seguita negli anni Trenta da un senso della melanconia, ma con un ritorno alla legnosità delle forme che abbandonano la pienezza di luce esplosa nei dipinti degli anni Venti, per ritrovare l’arcaismo del primo periodo torinese. Su di lui agisce poi anche la vorace metamorfosi di Picasso, che Casorati rilegge in opere come Donna con manto (1935), Nudo verde (1941), Due donne (1944).
Al nostro artista non piaceva fare teoria sulla pittura, nota Mazzocca nel saggio introduttivo del catalogo edito da Marsilio arte. L’artista si dichiara indifferente alle “rumorose teorie alla moda” come dirà in una conferenza del 1943, quando il suo nome appartiene già alla storia dei maestri della prima metà del Novecento. Ancora Mazzocca, che è oggi anche fra i curatori della rassegna forlivese dedicata all’Autoritratto, cita la dichiarazione di “estraneità” di Casorati rispetto ai personaggi che ritrae: “Non ho mai dipinto un autoritratto e non mi sembra che le figure dei miei quadri mi rassomiglino”. Il commento del critico è anche una contraddizione in termini: “L’autore non è dunque presente nell’opera, da cui dichiara la sua estraneità”. Sappiamo che non può essere vero: l’autore, come nei romanzi, è sempre la maschera dello scrittore che vi si nasconde per poter essere libero di dire senza essere preso alla lettera (o così vorrebbe, ma il gioco di società genera proprio questa indagine del lettore alla ricerca del quoziente di verità e sulla possibile menzogna, dichiarata, dello scrittore che ci offre invece il verosimile). L’ego di un artista ha molte facce. Nel momento in cui il pittore dice di non essersi mai ritratto, cosa sta confessando?
Era considerato anche un artista “solitario”. Nella giovinezza, negli anni trascorsi a Napoli, tra il 1907 e il 1910, visse come un orso. La sua storia sembra rispecchiarsi nel dipinto di Bruegel sulla Parabola dei ciechi. A Capodimonte è assiduo nello studio degli antichi maestri. Sono anni dove però, nonostante sia ancora abbastanza giovane, partecipa alla Biennale di Venezia. Non è diplomato in accademia e ha una mentalità che mentre non segue percorsi accademici, tuttavia non si separa mai dalla lezione dei classici. Mazzocca parla, a proposito del dipinto Le vecchie del 1909, di “naturalismo e tensione interiore”. La verità allora quale potrebbe essere? Se ribaltassimo la dichiarazione del pittore, ne verrebbe che tutta la sua opera è un solo, ineffabile autoritratto che si cela dietro le forme, le luci, i colori e, soprattutto, la composizione del quadro.
L'autore di questo articolo: Maurizio Cecchetti
Maurizio Cecchetti è nato a Cesena il 13 ottobre 1960. Critico d'arte, scrittore ed editore. Per molti anni è stato critico d'arte del quotidiano "Avvenire". Ora collabora con "Tuttolibri" della "Stampa". Tra i suoi libri si ricordano: Edgar Degas. La vita e l'opera (1998), Le valigie di Ingres (2003), I cerchi delle betulle (2007). Tra i suoi libri recenti: Pedinamenti. Esercizi di critica d'arte (2018), Fuori servizio. Note per la manutenzione di Marcel Duchamp (2019) e Gli anni di Fancello. Una meteora nell'arte italiana tra le due guerre (2023).