Quando Roma dei papi guidava la... globalizzazione: com'è la mostra “Barocco globale”


Fino al 13 luglio, le Scuderie del Quirinale ospitano l’ambiziosa mostra Barocco globale che si pone l’obiettivo di sondare, attraverso l’arte, il ruolo che Roma s’è ritagliata nei processi di proto-globalizzazione del Seicento, epoca di collegamenti commerciali e scambi culturali in cui Roma fu epicentro di un continuo confronto tra culture e mondi diversi e spesso lontani. Ci è riuscita? La recensione di Silvia Mazza.

Globale. L’accostamento dell’aggettivo alla stagione artistica del Barocco a Roma nel titolo della mostra alle Scuderie del Quirinale, fino al 13 luglio, comunica con la forza di sintesi il senso del progetto scientifico curato da Francesca Cappelletti e Francesco Freddolini, organizzata insieme alla Galleria Borghese, con la collaborazione istituzionale di ViVE Vittoriano e Palazzo Venezia e Gallerie Nazionali d’Arte Antica Barberini Corsini, con la partecipazione straordinaria della Basilica Papale di Santa Maria Maggiore. “Globale” evoca immediatamente il fenomeno moderno della globalizzazione. Intesa come interconnessione a livello mondiale, nel Seicento era già in atto, soprattutto grazie all’espansione del commercio e delle esplorazioni geografiche. Per cui possiamo anche dire che la mostra Barocco globale. Il mondo a Roma nel secolo di Bernini è la messa in scena di una “proto-globalizzazione”, per dirla con A.G. Hopkins e Christopher Bayly. I due storici usarono per primi questo termine per indicare quella fase caratterizzata da crescenti collegamenti commerciali e scambio culturale che caratterizzò il periodo, tra il XVI e il XVII secolo, immediatamente antecedente l’avvento della “globalizzazione moderna”, nel tardo XIX secolo. Siamo nell’epoca dell’ascesa degli imperi marittimi europei, prima l’impero portoghese e quello spagnolo, in seguito quello olandese e poi quello britannico. Nel XVII secolo il commercio mondiale si sviluppa ulteriormente quando entrarono in scena organizzazioni commerciali come la compagnia britannica delle Indie orientali.

È sullo sfondo di questo primo orizzonte moderno interconnesso che si impianta la dimensione della globalizzazione culturale di cui la mostra individua come epicentro Roma, “avvezza più di ogni altra al confronto con mondi diversi e lontani”: le Americhe, Africa e Asia. E ancora, recita il comunicato stampa, “Roma del Seicento è nodo di sinergie artistiche come nessun’altra capitale del mondo di allora”; “snodo cruciale di una complessa rete di rapporti che abbracciavano l’intero mondo allora conosciuto; è “centro-cardine del canone artistico occidentale” in rapporto con “gli universi culturali esterni ed estranei a quel canone”. Un romacentrismo nel Seicento, dunque, che non lascia posto, però, nella lettura proposta nel percorso espositivo, ad altre città campioni del Barocco, su tutte Napoli, all’epoca seconda città d’Europa, ma anche Firenze, Venezia e Genova. Per cui sarebbe interessante sapere cosa ne pensa un analista della cultura della Modernità, Michele Rak, che a questa temperie storica, culturale e artistica ha dedicato importanti pubblicazioni (L’occhio barocco; A dismisura d’uomo).

Allestimenti della mostra Barocco globale
Allestimenti della mostra Barocco globale
Allestimenti della mostra Barocco globale
Allestimenti della mostra Barocco globale
Allestimenti della mostra Barocco globale
Allestimenti della mostra Barocco globale
Allestimenti della mostra Barocco globale
Allestimenti della mostra Barocco globale
Allestimenti della mostra Barocco globale
Allestimenti della mostra Barocco globale

Il primato di Roma è celebrato nelle nove sezioni, su due piani, coprendo un arco temporale che va dal tempo di Paolo V Borghese fino all’intero Seicento, attraverso cento opere: dipinti e sculture dei grandi maestri del Barocco (Bernini, Van Dyck, Poussin, Pietro da Cortona, Lavinia Fontana, Nicolas Cordier, Pier Francesco Mola ed altri), affiancati da disegni, incisioni, arazzi, parati sacri e altri preziosi manufatti di provenienza europea e non europea, in prestito dai più importanti musei del mondo, tra cui il Musée du Louvre, il Rijksmuseum, il Museo del Prado, la National Gallery of Ireland, il Victoria and Albert Museum.

Sono collegate, inoltre, alla mostra una serie di visite speciali dedicate a uno degli ambienti più importanti del Palazzo del Quirinale, il Salone dei Corazzieri (già Sala Regia), con lo straordinario ciclo di affreschi del 1616 nel quale furono immortalati, da Agostino Tassi, Giovanni Lanfranco, Carlo Saraceni ed altri, gli ambasciatori provenienti dall’Africa, Asia e Vicino ed Estremo Oriente, ricevuti a Roma da papa Paolo V nei primi anni del Seicento.

La mostra alle Scuderie si apre sullo scenografico allestimento dell’opera-manifesto dell’esposizione, il busto in marmi colorati di Antonio Manuel Ne Vunda, del maestro scultore Francesco Caporale, capofila della scultura policroma protobarocca a Roma. Ne Vunda, ambasciatore del Regno del Congo (1608), fu il primo diplomatico africano a raggiungere la Santa Sede e primo uomo di origine africana tributato dell’onore di un monumento funebre in un luogo sacro, pari per prestigio e dignità a quelli dell’aristocrazia locale. Custodito nella Basilica Papale di Santa Maria Maggiore, il busto è stato eccezionalmente concesso in prestito nell’anno del Giubileo su espressa volontà di papa Francesco. Per l’occasione è stato restaurato con fondi di Ales SpA, sotto la sovrintendenza della Direzione dei Musei e dei Beni Culturali del Governatorato della Città del Vaticano. Insieme al busto, bene introduce il tema dell’intera esposizione e delle sezioni successive Il Carosello nel cortile di palazzo Barberini in onore di Cristina di Svezia il 28 febbraio 1656 (Roma, Museo di Roma), opera di Filippo Lauri e Filippo Gagliardi, dove si fa notare la diversità etnica degli spettatori.

Si procede, quindi, nella seconda sezione della mostra, “L’Africa, l’Egitto, l’Antico”, articolata in due spazi da un tramezzo. Nel primo l’interesse verso la dimensione etnografica sub-sahariana si segue attraverso l’introduzione frequente nella pittura e scultura di genere di figure di pelle scura, come si vede nella statua di Giovane africano (1607-1612, dal Musée du Louvre) di Nicolas Cordier, realizzato integrando frammenti antichi per dare origine a una nuova creazione, come per il busto di Ne Vunda; ne La buona ventura (1616–1617 circa, Detroit, Detroit Institute of Arts ) di Bartolomeo Manfredi; o ancora nell’Allegra compagnia con cartomante (1631, dalle collezioni principesche del Lichtenstein), di Valentin de Boulogne, dove il colore della pelle della Rom si deve all’errata riconnessione di queste comunità a una provenienza egiziana, una credenza confermata nel verso del dipinto della La Buona Ventura (1617, Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica – Palazzo Barberini), di Simon Vouet, dove il soggetto è definito “Aegiptia, vulgo zingara” (“Egiziana, comunemente detta zingara”). Non a caso l’Egitto era la regione che per via degli strettissimi rapporti con l’antica Roma, serviva a reimmaginare l’Africa attraverso l’antico e dove verosimilmente ambientare Cesare che rimette Cleopatra sul trono (circa 1637, dal Musée des Beaux-Arts di Lione), di Pietro da Cortona, esposto nel secondo spazio della sezione.

Quella successiva, “Bernini, l’Africa, l’America” si concentra sul campione del Barocco Gian Lorenzo Bernini, e sulla commissione della Fontana dei Fiumi a piazza Navona, “il più celebre soggetto ‘globale’ di tutta l’iconografia barocca”, con cui l’artista seppe dare forma concreta ai rapporti che legavano Europa, Africa, Asia e America. Al centro della sala il monumentale bozzetto (modello di presentazione in terracotta, legno intagliato, ardesia, oro e argento, 1647-50, proveniente dalla collezione Forti Bernini – Eredi Bernini), consente un interessante confronto con la versione finale. Mentre in quest’ultima, infatti,

la figura corrispondente al Rio della Plata, personificazione allegorica del continente africano, mostra tratti somatici inconfondibilmente africani subsahariani, il bozzetto dimostra essere stata originariamente concepita da Bernini secondo l’iconografia tradizionale degli indigeni del Nuovo Mondo, a dimostrazione di una precoce consapevolezza da parte dell’artista della diffusione nelle Americhe di popolazioni deportate dall’Africa.

La quarta sezione, “La Chiesa e il Mondo”, esplora il contributo che gli ordini religiosi e in generale l’attività missionaria hanno dato nella tessitura di rapporti transculturali centrati su Roma. Anche questa articolata in due spazi, nel primo presenta il Ritratto di Nicolas Trigault (1617 circa), celebre missionario gesuita seguace di Matteo Ricci, effigiato in abiti cinesi nell’atelier di Rubens e conservato a Douai, Musée de la Chartreuse; oltre alla pala d’altare del Collegio de Propaganda Fide dipinta da Giacinto Gimignani raffigurante l’Adorazione dei Magi (1634-35) e il Bozzetto per la volta di Sant’Ignazio (XVII sec, Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica – Palazzo Barberini), di Andrea Pozzo. Alcune copie esposte pure in sala documentano la circolazione globale di immagini sacre, come quelle della Salus Populi Romani, la più antica e celebre icona sacra presente a Roma, in Santa Maria Maggiore, realizzate in Cina da artisti cinesi, e della Santa Cecilia di Carlo Maderno realizzata dall’artista indiana Nini, attiva alla corte Mughal (1610 circa). Chiude il percorso al piano terra la sezione “Un natura in espansione”, incentrata sul collezionismo di piante ed animali rari.

Francesco Caporale, Busto di Antonio Manuel Ne Vunda (1608; marmi policromi; Roma, Basilica papale di Santa Maria Maggiore)
Francesco Caporale, Busto di Antonio Manuel Ne Vunda (1608; marmi policromi; Roma, Basilica papale di Santa Maria Maggiore)
Filippo Gagliardi e Filippo Lauri, Carosello nel cortile di Palazzo Barberini in onore di Cristina di Svezia (1656; olio su tela, Roma, Sovrintendenza Capitolina – Museo di Roma)
Filippo Gagliardi e Filippo Lauri, Carosello nel cortile di Palazzo Barberini in onore di Cristina di Svezia (1656; olio su tela, Roma, Sovrintendenza Capitolina – Museo di Roma)
Simon Vouet, La Buona Ventura (1617; olio su tela; Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica – Palazzo Barberini)
Simon Vouet, La Buona Ventura (1617; olio su tela; Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica – Palazzo Barberini)
Valentin de Boulogne, Joyeuse compagnie avec diseuse de bonne aventure (1631; olio su tela; Vaduz–Vienna, Collezione del principe del Liechtenstein)
Valentin de Boulogne, Joyeuse compagnie avec diseuse de bonne aventure (1631; olio su tela; Vaduz–Vienna, Collezione del principe del Liechtenstein)
Bartolomeo Manfredi, La buona ventura (1616–1617 circa; olio su tela; Detroit, Detroit Institute of Arts)
Bartolomeo Manfredi, La buona ventura (1616–1617 circa; olio su tela; Detroit, Detroit Institute of Arts)
Pietro da Cortona, Cesare rimette Cleopatra sul trono del Regno d'Egitto (1637, circa olio su tela; Lione, Musée des Beaux-Arts)
Pietro da Cortona, Cesare rimette Cleopatra sul trono del Regno d’Egitto (1637, circa olio su tela; Lione, Musée des Beaux-Arts)

Prima di salire al secondo, il visitatore è invitato a una sosta in una “saletta di decompressione”, pausa per un dietro le quinte con un monitor su cui scorrono le diverse fasi dell’allestimento. E proprio quest’ultimo merita una nota. Coinvolgente grazie alle contropareti avvolgenti, che mutano colore al cambiare delle sezioni, con vetrine ben dimensionate rispetto agli oggetti esposti in dialogo con i dipinti da presso.

Al secondo piano si riprende in ideale collegamento con l’inizio della mostra dedicato a Ne Vunda che fu ambasciatore e quindi rientra anche nella storia delineata nella sesta sezione “Roma diplomazia globale”, incentrata sui rapporti con culture islamiche, dalla Persia, all’Impero Ottomano, fino a spingersi alle relazioni con le comunità cristiane nel Giappone di primo Seicento. In posizione centrale campeggia un capolavoro solo recentemente riscoperto, e presentato al pubblico per la prima volta: il Ritratto dell’ambasciatore persiano di Ali-qoli Beg (1609, Parigi, collezione Pinci), di Lavinia Fontana. Pittrice del tardo manierismo, la si potrebbe definire l’artista dei primati: unica artista donna presente in mostra, viene ricordata per essere stata la prima donna a dipingere una pala d’altare e per aver dipinto il primo nudo femminile ad opera di una donna, Minerva in atto di abbigliarsi (1613, Galleria Borghese).

Sulla parete di fianco corre una teoria di lunghe pale con la Cavalcata del Gran Turco e le Esequie del Gran Turco (1628, Roma, Gallerie Nazionali di Arte Antica – Palazzo Barberini) di Giovanni Ferri detto Giovanni Senese, mentre sull’altra una gigantografia riproduce e incornicia un progetto per l’apparato iconografico del catafalco di Sitti Maani (1627, Londra, Collezione Jennifer Montagu), moglie persiana del viaggiatore romano Pietro della Valle alla quale fu dedicato un funerale solenne nel 1627 in Santa Maria in Aracoeli. Come già per Antonio Manuel Ne Vunda, ulteriore testimonianza della propensione di Roma ad accogliere stranieri.

L’accostamento di materiali diversi, oltre le pitture e sculture, provenienti da mondi lontani si apprezza nella sezione “Collezionare il Mondo”, dove si ammirano alcuni rari (per la fragilità dei materiali) parati liturgici in piume di manifattura centro-americana. Efficaci alcuni accostamenti con manoscritti e disegni, come quello in un’unica elegante vetrina, di una maschera lignea di una divinità messicana insieme a un volume in cui è riprodotta. “La presenza di questi oggetti nel contesto della Curia papale a partire dal primo Cinquecento mostra quanto lunga e sedimentata fosse la storia di un collezionismo che crebbe nel secolo successivo e che si intrecciò con gli studi di antiquaria”, spiegano i curatori.

Al contrario, nella sezione che segue si avverte la mancanza di questi confronti, tanto più attesi dato che s’intitola “Alterità tra immaginazione e letteratura” ed il romando alla fonte letteraria è esplicito nei dipinti esposti, come per il Ritratto di Maria Mancini Colonna travestita da Armida (1669 circa, Roma, Fondazione Palazzo Colonna), la maga musulmana della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso, in dialogo con il Guerriero Orientale dipinto da Pier Francesco Mola (1625–1650, Parigi, Musée du Louvre) e con altri dipinti tratti pure dalla Gerusalemme Liberata. L’Andromeda liberata da Perseo (1611–1612 circa, Roma, Galleria Borghese), di Rutilio Manetti, dalla pelle diafana, invece che scura come si conviene a una principessa etiope, asseconda canoni estetici del contesto in cui operava l’artista, in contraddizione però con quell’interesse verso la dimensione etnografica che abbiamo osservato nelle opere della prima sezione.

Il percorso si conclude con i due ritratti dipinti da Anton van Dyck a Roma nel 1622 e mai tornati in Italia prima d’ora, prestito eccezionale del National Trust inglese. Sono raffigurati, Sir Robert Shirley, cattolico inglese Ambasciatore di Persia, e di sua moglie, Teresia Sampsonia, una donna circassa, anche lei cattolica,

sposata da Shirley in Persia. Dopo aver attraversato l’Asia e l’Europa, I’Islam e il Cristianesimo, i due si legarono indissolubilmente a “Roma crocevia di culture”, come recita il titolo di quest’ultima sezione. Sul piano dell’allestimento, elegante la scelta dei distanziatori minimali a terra (una striscia e un sensore) per i due ritratti che partecipano all’inquadramento prospettico del dipinto che chiude la mostra: Annibale che attraversa le Alpi (1630 circa, Collezione del Principe di Monaco), di Nicolas Poussin. Seppur mascherato da pittura di storia, anche quest’ultimo è un ritratto, dell’elefante Don Diego che, nato in India, attraversò due continenti per giungere a Roma.

Cultura Nahua, Maschera raffigurante la divinità Yacateuctli (America Centrale, Puebla, Messico, Periodo postclassico tardo, XV sec. – inizi XVI sec.; legno, resina, cinabro, bianco di piombo, tessere di mosaico in turchese, malachite, lignite, Spondylus princeps, Spondylus calcifer, Strombus, madreperla, ottone, vetro; Roma, Museo delle Civiltà)
Cultura Nahua, Maschera raffigurante la divinità Yacateuctli (America Centrale, Puebla, Messico, Periodo postclassico tardo, XV sec. – inizi XVI sec.; legno, resina, cinabro, bianco di piombo, tessere di mosaico in turchese, malachite, lignite, Spondylus princeps, Spondylus calcifer, Strombus, madreperla, ottone, vetro; Roma, Museo delle Civiltà)
Rutilio Manetti, Andromeda liberata da Perseo (1611–1612 circa; olio su tela; Roma, Galleria Borghese)
Rutilio Manetti, Andromeda liberata da Perseo (1611–1612 circa; olio su tela; Roma, Galleria Borghese)
Anton van Dyck, Sir Robert Shirley (1622; olio su tela; Petworth House, National Trust Collections, The Egremont Collection)
Anton van Dyck, Sir Robert Shirley (1622; olio su tela; Petworth House, National Trust Collections, The Egremont Collection)
Anton van Dyck, Teresa, o Teresia Sampsonia, Lady Shirley (1622; olio su tela; Petworth House, National Trust Collections, The Egremont Collection)
Anton van Dyck, Teresa, o Teresia Sampsonia, Lady Shirley (1622; olio su tela; Petworth House, National Trust Collections, The Egremont Collection)

Il limite del progetto scientifico, che rivendica il primato di essere la “prima mostra che esplora le relazioni tra Roma e il mondo globale nel XVII secolo”, si misura nel tentativo, tutt’altro che facile sia detto, di rendere tangibile “l’impatto che la vocazione universale e cosmopolita della città dei papi” ha avuto sulle arti nel corso del Seicento attraverso una selezione di beni e opere, ma anche di contenuti, troppo esigua. Sebbene, infatti, il racconto si dipani attraverso felici accostamenti dal sapore enciclopedico, sarebbe servito meno ordine e più “horror vacui” per stemperare quella sensazione di eccessiva diradazione dei materiali, specialmente nel secondo piano della mostra, che si fa sensibile in particolare in chiusura, nell’ultima sala con l’elefante di Poussin che campeggia da solo nel vasto ambiente, guadagnando un rilievo che si ha difficoltà a comprendere e finendo per lasciare in bocca quel senso da finale di film brusco e non risolto. Venendo ai contenuti, invece, si insiste nelle diverse sezioni sulla componente esotica, come se in quest’ultima dovesse risolversi quasi interamente il concetto di Barocco “globale”, che non può essere solo un concetto geografico.

A una dimensione davvero “globale” mancano troppe parole chiavi del Barocco: i teatri viventi e meccanici, le camere delle meraviglie, i trionfi da tavola, le nuove macchine della visione (lo specchio, le camere ottiche, il microscopio, il cannocchiale), la ricaduta dei modelli cosmologici sull’arte, l’indagine sulla definizione dei procedimenti retorici e, per dirla col già citato Rak, l’universo simbolico del prezioso tulipano, del teschio allusivo, della clessidra implacabile. Si travalicano i confini europei, si guarda al mondo, a realtà geopolitiche e culturali molto distanti, ma si perde di vista ciò che è più vicino, le altre capitali del Barocco in Italia e le loro interconnessioni con Roma, che fu nodo di una rete di rapporti non solo oltreconfine; manca anche la connessione con la particolare declinazione che di questa stagione si ebbero in regioni come la Puglia e la Sicilia. Una pagina di storia dell’arte globale, ma senza il resto d’Italia.


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Silvia Mazza

L'autrice di questo articolo: Silvia Mazza

Storica dell’arte e giornalista, scrive su “Il Giornale dell’Arte”, “Il Giornale dell’Architettura” e “The Art Newspaper”. Le sue inchieste sono state citate dal “Corriere della Sera” e  dal compianto Folco Quilici  nel suo ultimo libro Tutt'attorno la Sicilia: Un'avventura di mare (Utet, Torino 2017). Come opinionista specializzata interviene spesso sulla stampa siciliana (“Gazzetta del Sud”, “Il Giornale di Sicilia”, “La Sicilia”, etc.). Dal 2006 al 2012 è stata corrispondente per il quotidiano “America Oggi” (New Jersey), titolare della rubrica di “Arte e Cultura” del magazine domenicale “Oggi 7”. Con un diploma di Specializzazione in Storia dell’Arte Medievale e Moderna, ha una formazione specifica nel campo della conservazione del patrimonio culturale (Carta del Rischio).



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