È stato scoperto un nuovo Caravaggio? Questa la domanda che ci si fa dopo aver letto le parole di Gianni Papi, uno dei più noti esperti del grande artista lombardo, intervistato per il Corriere della Sera da Edoardo Sassi. Il quotidiano dà conto per la prima volta del ritrovamento di un dipinto, il Ragazzo che monda un frutto, che ripete un soggetto ben noto della produzione caravaggesca: una delle diverse versioni, che appartiene ai reali d’Inghilterra, si trova a Roma, esposta alla mostra su Caravaggio di Palazzo Barberini. Papi è tuttavia convinto di aver trovato l’originale.
Il Mondafrutto, come è noto anche questo soggetto, è considerato il primo soggetto noto dell’attività di Caravaggio (ne parlò per primo il biografo Giulio Mancini intorno al 1618-1619). Papi afferma di essere stato contattato dal proprietario di quello che lui ritiene l’originale per fargli appunto studiare la tela. L’opera era andata in asta lo scorso anno, ed era considerata “copia da Caravaggio”: il proprietario lo acquistò proprio in quell’occasione. Non si conosce tuttavia la provenienza antica. Papi sostiene di aver avuto delle perplessità quando è stato chiamato a esaminare l’opera: riteneva fosse infatti una delle tante versioni del Mondafrutto. Tuttavia dice anche che le sue perplessità si sono dissolte dopo la visione dal vivo: l’opera è stata infatti restaurata e sottoposta ad analisi tecniche (radiografia, riflettografia). “Contrariamente alle titubanze iniziali, approfondendo la mia analisi”, ha detto, “sono ormai dell’avviso che quella appena riemersa sia un’opera autografa di Merisi e in essa debba essere riconosciuta la prima versione a cui si adeguano le altre note”. Tra queste, secondo Papi, se ne può contare almeno un’altra autografa: “ritengo che in un momento così complicato della sua vita – i primi tempi romani, 1596 circa, in cui Caravaggio aveva estreme difficoltà, anche alimentari – egli possa aver ripetuto, su richiesta, o per vendere, una sua precedente composizione. È il caso, credo, della redazione di Hampton Court, che già dal 2009 ho proposto essere una versione autografa, appunto quella che adesso si può vedere alla mostra su Caravaggio tuttora in corso a Roma”.
A favore dell’autografia del dipinto appena scoperto gioca, secondo Papi, la qualità delle parti meglio conservate, in particolare la camicia, la natura morta di frutta (“nella quale mi pare avvertibile una matrice di origine lombarda”, dice lo studioso, “più accentuata rispetto ad esempio allo stesso brano nel quadro di Hampton Court, che ha un aspetto prossimo al tipo di frutta elaborato nell’ambiente del Cavalier d’Arpino”. È dunque possibile, secondo lo storico dell’arte, “che la nuova tela sia stata realizzata prima dell’arrivo di Merisi a Roma e che questi la portasse con sé, magari non era nemmeno l’unica, come un biglietto da visita. Prima ancora, insomma, di quella che il biografo Giulio Mancini afferma eseguita in casa di Pandolfo Pucci”.
L’elemento decisivo sarebbe però soprattutto uno, che Papi ha notato dalla radiografia dell’opera: “un inserto scuro in basso nella zona che si insinua fra le mani del ragazzo, il frutto, e arriva fino alla camicia. In questa forma scura si può riconoscere un animale, quasi sicuramente un cane di piccola taglia col muso rivolto verso l’alto, verso il volto del ragazzo, con la bocca semiaperta. La tela usata per la pittura è sicuramente una tela riciclata, fatto che potrebbe essere una conferma della precarietà economica di Caravaggio nel momento in cui realizzò il quadro. Dalla radiografia si scorgono in più parti brani che sembrano quelli di un sottostante paesaggio ed è chiaro come il supporto sia stato ampiamente tagliato almeno su tre lati per adeguarlo all’uso che il pittore ne voleva fare in base alla nuova immagine. Non è detto che il cane facesse parte della precedente composizione; altresì potrebbe essere il frutto di una prima idea di Caravaggio, in tal caso una prima immagine forse allegorica della Fedeltà, e viene in mente il cane Cornacchia, nero, che il biografo Baglione affermava essere inseparabile da Merisi”.
“Quello che soprattutto interessa per decidere sulla priorità di questa tela”, prosegue Papi,”è la parte finale del muso dell’animale che appare sotto l’attuale camicia. Evidentemente il pittore ha pensato di utilizzare parzialmente quella zona scura dipinta in precedenza per realizzare le due piccole aree d’ombra sulla camicia, che secondo il suo intento dovevano essere le ombre della mano e del frutto, le quali paiono comunque un po’ forzate, forse frutto di un’esperienza pittorica ancora un po’ acerba”. Tutte le versioni note, spiega Papi, ripetono le due macchie scure sulla camicia, e questo elemento si può spiegare a suo avviso in un modo solo: i copisti le hanno riproposte perché presenti nel prototipo, dove forse il pittore aveva “fatto di necessità virtù, magari non riuscendo a coprire del tutto la zona nera sottostante”.
Al momento non sono chiare, dice Papi, le ragioni di una così ampia diffusione di questo soggetto, che è il più replicato delle sue opere databili alla fine del Cinquecento. “Si può ipotizzare”, sostiene, “che ciò sia dovuto alla novità dell’immagine, che a Roma non trovava facilmente paragoni, e che una versione – originale, ma potrebbe essere stata anche una copia – fosse conservata in un luogo dove poteva essere replicata senza problemi”.
Adesso, Gianni Papi ha intenzione di pubblicare il ritrovamento in sede scientifica, rendendo noti i dettagli. Non è escluso che un intervento sia già in programma per il convegno che verrà organizzato a giugno dalle Gallerie Nazionali d’Arte Antica a margine della mostra. Papi parteciperà, con un intervento sul Ritratto di Maffeo Barberini, ma ha già anticipato che potrebbe esserci spazio per parlare del dipinto appena scoperto. E anticipa inoltre che a breve uscirà un libro dedicato al soggetto del Mondafrutto.