C’è chi lo chiama Kundalini, chi lo identifica con il Drago, chi lo considera un principio cosmico. In alcune tradizioni religiose assume le sembianze dell’Uroboro, simbolo dell’eterno ritorno. All’interno del nostro immaginario, il serpente ha sempre esercitato un ruolo centrale. Animale ambivalente per eccellenza, incarna allo stesso tempo attrazione e repulsione, minaccia e sapienza. Il suo morso, potenzialmente letale, lo rende emblema di potere, ma anche di dualità: allude tanto alla tentazione quanto alla possibilità di metamorfosi. Nel corso dei millenni, il serpente si è trasformato in una figura mitologica e religiosa e ha assunto ruoli sempre diversi, ma costantemente contraddittori: a volte è demone, a volte custode, una guida, o portatore di peccato.
Ma ogni volta, rimane un segno di contraddizione. E quando si parla di serpente e tentazione, è quasi inevitabile che il pensiero corra a Eva, sedotta dal demonio e bandita dall’Eden insieme ad Adamo. In verità, prima di lei, nei testi antichi esiste un’altra figura femminile, spesso dimenticata: Lilith. Considerata la prima donna, demone della notte e ribelle primordiale, la donna rappresenta un archetipo potente e scomodo. Per comprenderne davvero il legame con il serpente, è necessario tornare alle sue origini.
Il suo nome appare già nei testi religiosi mesopotamici del III millennio a.C. In seguito, la sua leggenda viene ripresa e reinterpretata dalla tradizione ebraica, in particolare nel periodo dell’esilio babilonese, quando il contatto tra culture diverse ha dato vita a nuove visioni del mondo e del divino. In Mesopotamia, Lilith era vista come uno spirito femminile legato agli elementi naturali più violenti, in particolare alle tempeste e ai venti tempestosi. Era infatti considerata una presenza pericolosa, responsabile di malattie e sventure.
A partire dal VI secolo d.C., la tradizione ebraica iniziò a menzionare Lilith in testi rabbinici e su oggetti rituali. Nel pensiero popolare ebraico, la figura divenne un demone notturno temuto per la sua capacità di arrecare danni, in particolare ai bambini maschi. Inoltre, veniva associata a qualità considerate negative nella femminilità, quali la magia oscura e la lussuria. Ebbene, tutti questi aspetti hanno ispirato numerosi artisti nel rappresentare Lilith, tra cui Dante Gabriel Rossetti e John Collier nel suo dipinto del 1892.
Nell’opera di quest’ultimo, il serpente avvolge la figura femminile come un’estensione del suo stesso corpo, suggerendo una simbiosi tra la donna e l’animale. Collier, pittore britannico preraffaellita, attinge dunque alla figura arcaica e ambigua: Lilith è l’incarnazione della seduzione e dell’indipendenza femminile, associata all’origine del peccato e a una sessualità non regolata da vincoli sociali o religiosi. Nell’immaginario ebraico medievale, in particolare nell’Alfabeto di Ben Sira, un testo del VIII-X secolo, Lilith appare invece come la prima moglie di Adamo, creata dalla stessa terra e dunque sua pari, ma rifiutata perché non intende sottomettersi. Fuggita dall’Eden, diventa una creatura demoniaca e simbolo quindi del desiderio incontrollabile. Il dipinto di Collier, oggi conservato al Royal Albert Memorial Museum di Exeter (Regno Unito), traduce dunque la nudità della donna che non è vulnerabile, ma ieratica e distante. Lilith è algida. Nel suo caso, il serpente non è il simbolo della tentazione: è una figura complice, una creatura alleata.
Sappiamo quindi che Lilith incarna un archetipo che si ritrova nella narrazione biblica della Genesi. Dopo la sua esclusione dal racconto canonico, è Eva a diventare la figura paradigmatica del peccato. Secondo Genesi 2–3, Dio vieta ad Adamo ed Eva di mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. “Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio” (Gen 3:1), ed è lui che insinua il dubbio e suggerisce la trasgressione. Eva raccoglie il frutto e lo porge ad Adamo. Il testo, se letto con attenzione, non assegna un peso maggiore alla colpa della donna, ma l’interpretazione teologica, soprattutto a partire da sant’Agostino, ha costruito sull’episodio l’idea del peccato originale come evento fondativo della condizione umana.
Nelle Confessioni, Agostino sostiene che l’umanità eredita da Adamo non solo la disobbedienza, ma anche una vera e propria colpa trasmessa biologicamente. Il concetto influenzerà profondamente la teologia medievale e la visione antropologica dell’Occidente. Eva diventa la prima responsabile della caduta, e con lei si inaugura una lunga serie di rappresentazioni del femminile come causa della perdita dell’innocenza e della rovina dell’uomo. La disobbedienza femminile, intesa come desiderio di conoscenza o di autonomia, si cristallizza nel serpente che sussurra, raggira al fine di ingannare. Una delle rappresentazioni più conosciute della scena è l’affresco che Michelangelo realizzò sulla volta della Cappella Sistina, intorno al 1510. Nell’episodio del Peccato originale e cacciata dal paradiso terrestre, l’artista concentra tutta la tensione dell’atto proibito in una sola drammatica immagine.
Al centro della composizione, l’albero della conoscenza divide la scena in due momenti distinti ma contigui: a sinistra Eva coglie il frutto e lo riceve direttamente dal serpente; a destra, Adamo ed Eva vengono espulsi dal giardino da un angelo armato di spada. Il serpente che Michelangelo dipinge è notevole. La motivazione? Non ha l’aspetto consueto di un rettile strisciante, possiede piuttosto il corpo avvolto attorno al tronco è femminile nella parte superiore, con volto e busto umano. È una creatura sibillina, androgina e tentatrice, che fonde in sé seduzione, intelligenza e trasgressione, rendendo ancora più sottile e insidiosa la dinamica della colpa. Potrebbe trattarsi di Lilith? Senza dubbio. Una lettura più mistica e visionaria emerge ne La tentazione e la caduta di Eva del 1808 di William Blake, realizzata per le illustrazioni di Paradiso Perduto di John Milton. Nell’opera del pittore inglese, Eva appare come figura consapevole, rapita da un senso di mistero più che di trasgressione. Il serpente, illustrato con eleganza contorta, diventa messaggero di un sapere proibito ma necessario. Blake non condanna, piuttosto mostra la caduta come passaggio verso la coscienza.
Tiziano nel suo Adamo ed Eva nel Paradiso terrestre, 1550, raffigura i due progenitori in un momento cristallizzato. Eva tende il frutto ad Adamo. Il serpente, attorcigliato all’albero, ha un corpo infantile, si tratta infatti di un bambino. In ogni caso il dipinto suscita impressioni contrastanti: la vivacità dei colori, soprattutto nel paesaggio, si scontra con una certa rigidità nell’esecuzione delle figure. Il gesto di Eva risulta poco naturale, mentre il corpo filiforme di Adamo, modellato con eccessiva aderenza a un prototipo scultoreo, appare innaturale. Tale precisione anatomica costrinse l’artista ad aggiungere foglie di fico per coprirne i genitali, compromettendo l’armonia complessiva della composizione. Conscio dei limiti, Rubens modificò sensibilmente la scena nella sua versione Adamo ed Eva nel Paradiso terrestre (Peccato originale): la posa di Adamo fu rivisitata, orientando il corpo maggiormente di lato, in una posizione più simile a quella rivelata dalla radiografia dell’opera originale.
Diversa è l’impostazione di Lucas Cranach il Vecchio, che dipinse varie versioni del tema. In La tentazione di Adamo ed Eva (1526), il serpente assume le sembianze di una donna-serpente dai lunghi capelli biondi, ricalcando l’arte figurativa medievale della serpenta. La scena si svolge in un paesaggio sereno, ma la tensione è tutta nella gestualità: Eva offre il frutto con naturalezza, mentre Adamo sembra esitare. La tentazione è silenziosa e già avvenuta. Il corpo del serpente femminile è un doppio speculare di Eva. Cosa vuol dire? Che la tentazione proviene dalla stessa natura umana.
In ogni caso, il simbolismo del serpente ha origini più antiche e più complesse. Nelle culture mesopotamiche, il serpente era emblema di vita, rigenerazione e sapienza. In Egitto, la dea Wadjet, rappresentata da un cobra, proteggeva il faraone e incarnava il potere regale. Nella Grecia arcaica, il bastone di Asclepio, avvolto da un serpente, era segno di guarigione e conoscenza (ed è ancora oggi utilizzato come logo dall’Organizzazione Mondiale della Sanità). Il serpente compare anche nel racconto biblico del serpente di bronzo che Mosè solleva nel deserto: chi lo guarda viene guarito dai morsi di altri serpenti. Lo scopo del Necustan, nome del serpente di bronzo, conferma infatti che il simbolo poteva avere anche valenza terapeutica o protettiva.
La progressiva demonizzazione del serpente avviene soprattutto con l’affermazione del cristianesimo. L’Apocalisse di Giovanni definisce Satana come “il grande drago, il serpente antico” (Ap 12:9), sancendo definitivamente la connessione tra rettile e male assoluto. L’associazione viene poi trasmessa alla cultura visiva e letteraria del Medioevo e del Rinascimento, in cui il serpente assume connotazioni sempre più sinistre, spesso antropomorfe.
Ma la figura mitica che più radicalmente unisce serpente, femminilità e colpa è forse Medusa (qui per il focus su Medusa). Nella mitologia greca, Medusa è una delle tre Gorgoni, e l’unica mortale. Il suo mito si evolve nel tempo. In versioni più antiche, Medusa è una divinità ctonia legata alla terra e alla fertilità. Solo più tardi diventa il mostro che pietrifica chi la guarda, con serpenti al posto dei capelli. Secondo Ovidio e le sue Metamorfosi, Medusa era una giovane sacerdotessa di Atena, violentata da Poseidone nel tempio della dea. In risposta all’oltraggio, Atena la punisce trasformandola in un mostro, non il suo aggressore. Anche qui, come in Eva o Lilith, il femminile viene punito per un atto che si colloca a cavallo tra la trasgressione e la sopraffazione.
Il volto di Medusa, fissato nello scudo di Perseo e nelle raffigurazioni apotropaiche, è insieme terribile. Si parte dall’idea che l’orrore (dato dai serpenti), per essere sopportato, debba essere incanalato in una forma visiva: un’effigie simbolica, o eikón, capace di contenere il terrore e allontanare l’eidolon, lo spettro. La Medusa diventa l’incarnazione della figura: una creatura ancestrale, il cui sguardo non è rivolto ai vivi ma ai morti, per proteggerli o respingerli. La sua capacità di pietrificare è inoltre una forma estrema di difesa. Nei Dialoghi di Luciano di Samosata, Medusa viene evocata come simbolo della bellezza capace di immobilizzare, dominare, soggiogare. Nei secoli, la figura di Medusa verrà reinterpretata in una lettura più psicoanalitica e femminista. Sigmund Freud, nel saggio Das Medusenhaupt (Testa di Medusa) del 1922, legge il volto della Gorgone come rappresentazione del trauma della castrazione. Simone de Beauvoir, nella sua critica alla misoginia strutturale del mito, vede in Medusa la vittima di una cultura patriarcale che trasforma la paura della donna in mostruosità.
Nell’arte moderna e contemporanea, Medusa è stata rivalutata come emblema di resistenza. In Medusa del 1878 di Arnold Böcklin, la Gorgone non è più un mostro, ma una donna dal volto triste e consapevole. Nel 2008, la scultura Medusa with the Head of Perseus di Luciano Garbati, una rilettura in chiave inversa del Perseo con la testa di Medusa di Benvenuto Cellini, mostra Medusa che regge la testa dell’eroe che l’ha decapitata, trasformando la vittima in agente.
Nel confronto tra Lilith, Eva e Medusa emerge un filo rosso: il serpente, da animale reale, si trasforma in simbolo. Rappresenta l’enigma, la soglia, il passaggio tra due stati. Seduce alla colpa e alla conoscenza, alla libertà, alla ribellione. Le tre figure femminili condividono il destino di essere state narrate come origine del disordine, del male o della crisi di un sistema. E tutte, nel tempo, sono state riscoperte come possibilità alternative di lettura del potere, del desiderio e dell’identità femminile. Il serpente, dunque, è una figura del linguaggio e della metamorfosi. Nella Bibbia, nel mito, nella pittura e nella psicoanalisi, attraversa gli ambiti della fede, della filosofia e della storia culturale, e rimane, tutt’oggi, uno degli emblemi più ambigui della civiltà occidentale.
L'autrice di questo articolo: Noemi Capoccia
Originaria di Lecce, classe 1995, ha conseguito la laurea presso l'Accademia di Belle Arti di Carrara nel 2021. Le sue passioni sono l'arte antica e l'archeologia. Dal 2024 lavora in Finestre sull'Arte.Per inviare il commento devi
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