Leonor Fini (Eleonora Elena Maria Fini a Buenos Aires; Buenos Aires, 1907 – Parigi nel 1996) è riconosciuta come una delle personalità più originali e indipendenti del panorama artistico del XX secolo ed è nota soprattutto per la sua opera pittorica, ma in realtà ha lasciato anche un corpus grafico di notevole importanza, e un nucleo rilevante di questo corpus è conservato al Museo Villa Bassi Rathgeb di Abano Terme (Padova), dove è entrato nel 2025 a seguito della donazione dell’ambasciatore Ugo Gabriele de Mohr (Bruxelles, 1940), di cui si dirà meglio poco più avanti, e che ha fornito l’occasione per la mostra Leonor Fini e la Collezione grafica Bassi Rathgeb. Segni e invenzioni dal Rinascimento al Novecento (Abano Terme, Museo Villa Bassi Rathgeb, dal 22 novembre 2025 al 15 marzo 2026, a cura di Giovanni Bianchi, Raffaele Campion, Barbara Maria Savy e Federica Stevanin).
Artista di caratura europea, Leonor Fini ha trascorso la sua infanzia e la sua adolescenza a Trieste, in un clima familiare non semplice e che fu però importante per lo sviluppo del suo profondo senso di indipendenza e per la sua capacità di trasformazione, elementi centrali nella sua produzione artistica. L’ambiente mitteleuropeo triestino nutrì inoltre la sua cultura visiva e letteraria, portandola a sviluppare precoci passioni per l’arte e la sperimentazione, sebbene si definisse autodidatta.
Dopo un breve periodo a Milano negli anni Venti, dove tenne la sua prima personale nel 1929 ed entrò in contatto con il gruppo Novecento, la svolta decisiva avvenne con il trasferimento a Parigi nel 1931. Qui, benché in dialogo e in rapporto con i principali movimenti e protagonisti della sua epoca, tra cui i surrealisti come André Breton, Max Ernst e Salvador Dalí, Fini rivendicò sempre la propria autonomia stilistica e concettuale, rifiutando di aderire formalmente al gruppo.
La sua pittura trae ispirazione da fonti diverse e autorevoli, tra cui il Manierismo italiano, i maestri fiamminghi e il Romanticismo tedesco. La visione onirica ed erotica che caratterizza le sue opere si concentra sull’archetipo della donna intesa come figura potente, sovrana della propria sessualità, spesso raffigurata come maga, sfinge, sacerdotessa o regina, discostandosi dalla visione maschile prevalente nel Surrealismo canonico.
La donazione dell’ambasciatore Ugo Gabriele de Mohr (Bruxelles, 1940) che rappresenta una delle più significative acquisizioni mai ricevute dal Museo Villa Bassi Rathgeb, include un nucleo di 24 opere grafiche di Leonor Fini, realizzate nel corso del Novecento. Questa aggiunta ha arricchito in modo rilevante le collezioni permanenti del museo di Abano, aprendo l’istituto a direttrici artistiche che superano quelle tradizionalmente consolidate. La pratica costante del disegno ha permesso a Leonor Fini di dare vita a una notevole produzione di opere a stampa, utilizzate per l’illustrazione di poesie o racconti (suoi o di altri) e per la creazione di album e portfolio d’artista. Le composizioni grafiche presenti nella donazione, tra cui fotolitografie e incisioni, delineano la poetica di un’artista internazionale del Novecento che si è sempre mantenuta libera da definizioni e schemi rigidi. La Fini stessa considerava il disegno, scrive Federica Stevanin, come uno “strumento di sconfinamento creativo capace di assorbire e trasformare le suggestioni provenienti dai diversi ambiti artistici da lei frequentati quali la letteratura, la poesia, il teatro, oltre che, naturalmente, la pittura”. Le sue realizzazioni su carta sono state descritte da Leonor Fini stessa come una “specie di sogno lineare”, un “fantastico autentico” che le permetteva di dare forma a “un intimo teatro macabro” in cui convivevano bellezza, ambiguità e crudeltà. Le immagini grafiche, spesso enigmatiche, creano un’atmosfera misteriosa e densa, dove i personaggi sembrano sonnambuli in un’ipnosi lucida, compiendo atti inspiegabili.
I lavori grafici inclusi nella donazione de Mohr sono riconducibili a due principali categorie della produzione a stampa di Leonor Fini: album e portfolio d’artista, e libri da lei illustrati. Una parte cospicua (tredici opere) è costituita da fotolitografie tratte dal volume a tiratura limitata Fruits de la passion. Trente-deux variations sur un thème de Leonor Fini, pubblicato nel 1980. In questa serie, l’artista mette in scena, quasi in una sequenza cinematografica, una parata di personaggi, per lo più coppie, che incarnano le molteplici sfaccettature della passione amorosa. Attraverso queste variazioni, Fini esplora il suo tema prediletto del doppio, inteso come alterità, instabilità e sofferenza. La tenerezza, la seduzione e i corteggiamenti galanti sono accostati alla violenza, alla crudeltà e alla sofferenza, in un’incessante lotta tra i sessi. Le composizioni si distinguono per la rappresentazione accurata e carnale del corpo, a volte evocando figure di “spellati”, un interesse che l’artista aveva coltivato fin dalla giovinezza con le visite all’obitorio di Trieste e lo studio di trattati di anatomia. I personaggi, con i loro accessori e abiti ricercati (maschere, corsetti, scarpe coi tacchi), agiscono su un palcoscenico di carta con “grazia settecentesca” e movenze coreografiche.
Altre opere grafiche della donazione provengono da importanti raccolte, tra cui Livre d’images (1971), Les Leçons (1976) e Fêtes secrètes (1978). Le tre litografie presenti relative a Livre d’images ripropongono soggetti ricorrenti nella poetica finiana, come le figure femminili nude, sensuali e languide, che esistono in una realtà liminale e si mostrano in una totale auto-possessione. Il tema della sfinge, che Fini considerava una sorta di alter ego, appare combinato con il tema del doppio in una di queste stampe. Per Fini, la sfinge, essere ibrido metà animale e metà umano, rappresenta la condizione ideale, capace di dominare gli uomini con calma ma anche di essere pericolosa.
La serigrafia La Leçon de braise / La Peine Capitale, inclusa nel portfolio Les Leçons, delinea una scena di complessa interpretazione, che lo studioso Pierre Borgue ha letto come una rappresentazione della “castrazione del maschio come simbolo della fecondità della vergine”, ma potrebbe essere anche una rivendicazione femminile di indipendenza, anche sessuale, contro la supremazia maschile. Anche i disegni di Fêtes secrètes, di cui sono presenti due fotolitografie, illustrano la lotta tra eros e thanatos, cioè tra amore e morte, con scheletri ballerini e figure impiccate. Queste scene di seduzione e danza macabra, caratterizzate da estenuazioni lineari e da una ricercatezza formale, sono state accostate alla descrizione di una festa nel Vasari, ma reinterpretate con l’attenzione di Fini alla fisicità e alla teatralità. L’artista utilizza un segno che alterna leggerezza e nervosismo, talvolta lasciando le figure senza contorni definiti, accentuandone l’aspetto fantasmatico.
Il corpus grafico comprende anche esempi della sua prolifica attività di illustratrice per opere altrui, come Les Petites Filles Modèles (1973) e Carmilla (1983). Nelle illustrazioni per il racconto della Contessa di Ségur, Fini sovverte il tono didascalico dell’originale focalizzandosi sugli aspetti trasgressivi e civettuoli delle giovani protagoniste, spesso ritratte senza mutandine, per smascherare la loro finta innocenza. Per quanto riguarda Carmilla, il romanzo di Joseph Sheridan Le Fanu, la donazione include due litografie di teste immaginarie. Queste effigi, che galleggiano nel vuoto del foglio, sono in dialogo con i Visages imaginaires dell’artista e richiamano l’arte funeraria antica, in particolare i ritratti di El Fayyum. Infine, sono esposte anche due litografie riferibili a studi non pubblicati per l’edizione illustrata del 1964 de Les Fleurs du Mal di Charles Baudelaire.
L’artista si distinse anche come poliedrica scenografa e costumista per il teatro. Nel 1951, Fini partecipò al Festival Internazionale di Musica Contemporanea della Biennale di Venezia, firmando scenografia e costumi per l’opera coreografica in atto unico Orfeo di Roberto Lupi. L’opera fu accolta con successo e la scenografia fu descritta come “metafisica e mortuaria,” dominata da una foresta cupa e misteriosa dove emergeva un enorme bucranio (cranio di bue) riflesso sull’acqua immobile. Un bozzetto originale di scena per l’opera è esposto in mostra, grazie alla collaborazione con l’Archivio Storico delle Arti Contemporanee della Biennale. I costumi erano improntati a semplicità e raffinatezza, con elementi ricorrenti come le piume di fagiano fissate alle caviglie di Orfeo, che donavano alla figura danzante un aspetto di estrema leggerezza.
Questo impegno a Venezia nel 1951 rafforzò il suo status internazionale, combinando l’attività espositiva (la personale all’Ala Napoleonica) con la creazione di un’immagine pubblica enigmatica, culminata con la sua apparizione al celebre “Ballo del Secolo” di Don Carlos de Beistegui vestita da “Angelo nero”. La sua arte, che non conobbe confini o categorizzazioni, continua a essere celebrata per la sua forza magnetica e la sua capacità di esplorare l’enigma umano
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