Andrea Bruciati (Ville di Tivoli): “Ho voluto risvegliare due belle addormentate”


Da pochi giorni è terminato il mandato di Andrea Bruciati alla direzione delle Villae di Tivoli, dopo otto anni in cui lo storico dell’arte è stato alla guida dell’istituto. Lo abbiamo intervistato per chiedergli un bilancio della sua esperienza. L’intervista è di Noemi Capoccia.

È da pochi giorni terminato l’incarico di Andrea Bruciati alla guida delle Villae, l’istituto autonomo del Ministero della Cultura che raduna i siti afferenti a Villa Adriana e a Villa d’Este. Storico dell’arte, contemporaneista, Bruciati ha approfondito la scena videoartistica italiana nel XXI secolo, con contributi critici e curatoriali. Tra il 2009 e il 2012 ha ideato il format On Stage, all’interno della fiera ArtVerona, manifestazione di cui ha assunto la direzione artistica a partire da gennaio 2013, incarico che ha mantenuto fino al 2016. In questo ruolo ha contribuito a rinnovare profondamente il profilo culturale della rassegna. Nel 2015 è stato nominato direttore artistico della BJCEM – Biennale dei Giovani Creativi dell’Europa e del Mediterraneo, curandone l’edizione milanese tenutasi presso la Fabbrica del Vapore, evento conclusivo di Expo 2015. A partire da marzo 2017 e fino al 2025 ha diretto le ville di Tivoli, ridefinendo a ottobre 2018 l’identità dell’ente con il nome Villae. Lo abbiamo intervistato per farci raccontare il suo mandato. L’intervista è di Noemi Capoccia.

Andrea Bruciati
Andrea Bruciati

NC. Dopo otto anni alla direzione dell’Istituto di Villa Adriana e Villa d’Este, secondo lei quali sono le tappe più importanti che hanno segnato il suo mandato?

AB. Le tappe fondamentali del percorso sono state diverse e graduali. L’Istituto, prima della sua costituzione, non esisteva come organismo unitario e ha fin da subito affrontato sfide importanti. Il compito principale è stato quello di preservare le caratteristiche di ogni singolo sito, ma al contempo di incanalarle verso un obiettivo comune, per una visione unitaria e condivisa. Fino a quel momento non vi era stato infatti un reale scambio tra le diverse strutture, che erano state gestite separatamente. L’Istituto è stato concepito perciò come una piattaforma dall’identità ben definita, sia per le sue peculiarità, che per una precisa strategia di comunicazione. È stato scelto il nome Villae per sottolineare la peculiarità contestuale culturale e si è avviata una riflessione approfondita sulla cifra grafica e sul messaggio da trasmettere. L’obiettivo era far dialogare con le proprie radici per offrire risposte adeguate ai visitatori contemporanei, proiettando pertanto l’Istituto verso il futuro con sensibilità aggiornate. La sua ricchezza, che era stata considerata patrimonio statico, ora è una risorsa generativa, un punto di partenza per nuove interpretazioni e narrazioni. La nostra straordinarietà va di pari passo con una grande responsabilità gestionale. L’Istituto non è infatti solo un museo, non è solo un parco archeologico e non è solo un giardino rinascimentale ma un palinsesto che si crea per moltiplicazione e non per addizione. I cinque siti che lo compongono sono un organismo complesso, un ecosistema culturale unico che vuole affermare la centralità del proprio ruolo sociale sul territorio: organizzare attività culturali è stato un modo per dialogare con il pubblico di oggi, un mezzo per costruire una visione orientata al domani, nel rispetto del valore e della portata storica di questi beni eccezionali. Negli ultimi otto anni, il filo conduttore del lavoro svolto è stato proprio questo: restituire una narrazione ai siti che al momento della mia nomina apparivano come delle “belle addormentate”, straordinari ma privi di un racconto capace di esprimerne appieno il potenziale. Il rispetto delle specificità storiche è stato sempre al centro, ma con un approccio che fosse consapevolmente contemporaneo. E da questa prospettiva il progetto ha seguito un percorso ben distinto da quello che spesso caratterizza l’inserimento della contemporaneità nel patrimonio storico: qui la contemporaneità è stata strumento concreto di interrogazione del passato così da instaurare un dialogo profondo tra epoche diverse. In questo modo, ogni iniziativa culturale è nata dall’Istituto stesso a partire dalla prima rassegna del 2018 dedicata al mito di Niobe (E dimmi che non vuoi morire), dove si è voluto evidenziare il valore attuale di temi profondamente radicati nella storia, come il concetto di hybris e l’arroganza del potere di fronte alla fragilità umana. Una programmazione culturale serrata ha poi plasmato a poco a poco l’idea di un luogo che fungesse come un cantiere di proposte in continua evoluzione: un luogo in cui ritornare perché in fondo il fattore temporale è la vera matrice comune che lega tutti i nostri siti. L’Istituto è da me concepito come un organismo che respira con il territorio. Ogni sito rimanda agli altri e crea un tessuto culturale unitario che si sviluppa in modo circolare. Questa interconnessione è una caratteristica che permette di donare ai visitatori una chiave di lettura più profonda del patrimonio storico, oltre naturalmente ad un’esperienza estetica inedita e sempre diversa. Proprio perché l’Istituto è in continuo mutamento, il suo scopo è anche quello di fidelizzare un pubblico locale, e di trasformare i suoi luoghi in elementi identitari per la comunità che va da Roma fino alla Valle dell’Aniene (Lazio). Il patrimonio culturale, per essere ‘vivo’, deve essere percepito come parte integrante del tessuto sociale, e su questo principio si è basato tutto il lavoro svolto fino ad oggi.

Osservando l’aumento dei visitatori per Villa Adriana e Villa d’Este negli ultimi anni (dal 2017 al 2023), emerge un crescente interesse per la ricezione del patrimonio culturale. Come ha gestito il bilanciamento tra l’afflusso di pubblico e la necessità di preservare l’integrità dei monumenti?

Abbiamo creato il Villae Pass proprio per riequilibrare i flussi e far conoscere meglio il sito, che io ho fortemente voluto aperto, ad ora meno visitato, il Santuario di Ercole Vincitore. Ci siamo promossi come un sistema unito e unico e in tal modo evitiamo di subire una distribuzione de-equilibrata del pubblico. D’altronde, senza una politica adeguata a monte sulle infrastrutture e sulla ricezione turistica, non riusciremo mai a valorizzare appieno le potenzialità dell’Istituto, anche in termini numerici. Potremmo triplicare la nostra capacità di accoglienza, ma per farlo servirebbe un adeguato supporto logistico e una offerta alberghiera a tutt’oggi insufficiente. Il problema dell’eccesso di visitatori pertanto non ci riguarda, se non in alcuni momenti specifici, come alcune prime domeniche del mese. Per il resto, riusciamo a ottimizzare i flussi, anche perché la nostra bellezza è strettamente legata alla nostra fragilità e proprio per questo prestiamo grande attenzione alla tutela dei luoghi. A mio avviso lo scopo ultimo dovrebbe essere quello di migliorare l’esperienza di visita, garantendo un approccio più approfondito e culturalmente consapevole. Personalmente, mi piacerebbe che i visitatori trascorressero l’intera giornata nei nostri siti, immergendosi nel luogo. In fondo tutto si basa, entrando nelle Villae, di suggerire un diverso rapporto con il nostro tempo, che qui è scandito dal ritmo della natura, muovendoci con la stessa fluidità.

Villa Adriana, Teatro Marittimo
Villa Adriana, Teatro Marittimo
Villa Adriana, Canopo
Villa Adriana, Canopo
Villa Adriana, percorso Yourcenar
Villa Adriana, percorso Yourcenar

Qual è il suo bilancio dell’esperienza e quali sono stati i principali vantaggi e criticità che ha riscontrato nella gestione dell’Istituto?

Essendo stato un libero professionista avrei voluto risultati ancora più incisivi. Nonostante l’attività svolta dall’intero gruppo di collaboratori sia stata importante, avrei desiderato un impatto ancora maggiore, sia in termini di attività legate allo scavo, al restauro, alla riapertura di aree, che di maggior visibilità su iniziative culturali. Detto questo ho lavorato con gli strumenti a mia disposizione e posso ritenermi soddisfatto. Ad ogni modo credo che per garantire una reale autonomia, questi istituti dovrebbero trasformarsi in fondazioni così da potersi autogestire. Attualmente, il regime di autonomia impone standard di performance elevati, ma al tempo stesso non consente la libertà di assumere stabilmente professionisti specializzati, se non con incarichi temporanei. È una contraddizione che ci rende un’entità ibrida dalle enormi potenzialità che però non possono essere sempre realizzate. Nonostante queste limitazioni, il percorso intrapreso ha comunque dato buoni frutti: da luoghi un tempo percepiti come statici, siamo riusciti a trasformare i nostri siti in veri e propri cantieri culturali, centri di riferimento artistico e sociale per il territorio. Le ville sono tornate a essere un patrimonio identitario per tutti: non parliamo più di mete da visitare frettolosamente durante una gita scolastica, bensì luoghi densi e stratificati da riscoprire e frequentare. Anche l’offerta culturale si rinnova costantemente: ciò ha consentito di percepire anche al grande pubblico l’Istituto in modo differente: in movimento, trattando la bellezza come qualcosa di mutevole, capace di adattarsi ai cambiamenti della società. Dal punto di vista curatoriale inoltre, uno degli aspetti più stimolanti è stato tracciare una terza via tra la rigidità della specializzazione dell’offerta per i soli addetti ai lavori e l’eccessiva semplificazione del mainstream generalista. Abbiamo sviluppato progetti rigorosi partendo dalla ricerca, ma offrendo chiavi di lettura per renderli accessibili a un pubblico il più possibile ampio e diversificato. Credo che questo debba essere il vero compito di chi opera nella cultura: ampliare l’accesso al patrimonio fornendo strumenti adeguati a tutti. Nello specifico, anche nei progetti legati all’arte contemporanea e alla convegnistica abbiamo sempre mantenuto una forte coerenza con il codice genetico dei luoghi, creando un percorso diacronico autentico fra passato e presente. Il riscontro positivo del pubblico ha confermato che questa fosse la direzione giusta: luoghi incredibili meritano sperimentazione e soluzioni altrettanto eccezionali. Le Villae di Tivoli non possono essere gestite come semplici siti di interesse storico, perché furono concepite come macchine rivoluzionarie per il loro tempo. Chi le amministra deve raccogliere questa sfida e porsi in una tensione che guardi sempre al futuro.

Secondo lei in che modo l’indipendenza ha influenzato la valorizzazione e la tutela di Villa Adriana e Villa d’Este?

Credo che per chi produce cultura la libertà sia un valore necessario e consentire mobilità di azione, sia di certo un passo fondamentale. Naturalmente, le risorse economiche e gli strumenti a disposizione restano sempre limitati rispetto alla visione che si vorrebbe realizzare, anche se la nostra autonomia ci ha comunque permesso di conferire ai progetti una forte riconoscibilità e di costruire un’identità solida per l’Istituto stesso. Tutto questo è stato possibile anche grazie all’esperienza maturata nella gestione di progetti che, pur differenti tra loro, hanno sempre mantenuto una coerenza di fondo. Oggi, chi si avvicina alle Villae di Tivoli sa di trovare una proposta culturale diversificata ma con un’identità ben definita. In un contesto in cui spesso tutto risulta massificato e omogeneo, dare un messaggio chiaro e distintivo rappresenta un valore aggiunto.

Santuario di Ercole Vincitore
Santuario di Ercole Vincitore
Santuario di Ercole Vincitore, Triportico
Santuario di Ercole Vincitore, Triportico

La riforma del 2024 prevede una gestione più integrata a livello regionale. Secondo lei come questo tipo di cambiamento potrebbe influenzare il futuro delle Villae?

Noi siamo un palinsesto aperto, siamo paesaggio. Creare reti e instaurare collaborazioni fa parte della nostra stessa struttura genetica. Il nostro approccio si basa sull’idea di costruire percorsi e vettorialità nuove, in costante dialogo con il territorio e i suoi attori (Comune e Regione innanzitutto). Fin dall’inizio, con la denominazione Villae, abbiamo interrogato il contesto in cui operiamo, cercando di comprenderne le caratteristiche e di potenziarle in sintonia con le nuove sensibilità e richieste del pubblico. Per noi si tratta di un’evoluzione naturale di un percorso già avviato, che vedo esclusivamente come un arricchimento. Concepisco la diversità come un valore e non sono per una forma di pensiero unico o monolitico. L’esperienza nella direzione di questi luoghi mi ha insegnato che per ottenere risultati concreti è necessario un confronto costante e dialettico anche con professionalità apparentemente distanti dal mondo della cultura. Ogni intervento richiede il contributo di più competenze e non solo quelle specifiche del settore. Questa presa di coscienza ha dato vita a un metodo di lavoro differente in cui il legame tra discipline e prospettive ha assunto un ruolo fondamentale. Pensare che un intervento archeologico debba coinvolgere esclusivamente archeologi è una prospettiva miope e ormai superata se non vi è un confronto continuo fra tutte le parti. Conservazione e valorizzazione devono perciò procedere di pari passo, e per farlo servono sguardi plurali perché noi siamo un organismo complesso. Probabilmente è proprio questo l’elemento distintivo dell’Istituto: uno sguardo diverso sul patrimonio che considera i siti come elementi coagenti per un sistema dinamico e non come entità isolate. In passato la gestione tendeva a inquadrarli in modo autonomo, senza un reale confronto tra di essi: oggi, invece, è evidente come il dialogo tra i luoghi sia essenziale. Tanto più per le Villae: lavorandoci dall’interno, camminandoci dentro, ho compreso che studiare Villa Adriana aiuta meglio a capire Villa d’Este, e viceversa. Lo stesso vale per gli altri siti dove questa circolarità è un metodo funzionale anche nel generare nuove prospettive di ricerca. Non abbiamo mai puntato su operazioni facili, sui grandi nomi o su eventi di puro impatto mediatico: concepisco lo stare al margine come opportunità per comprendere in maniera differente la complessità che ci connota e cercare soluzioni meno battute. L’obiettivo è porre interrogativi e stimolare riflessioni che possano offrire esperienze culturali che siano autentiche e in grado di legare, dialogare con l’identità profonda dei nostri luoghi.

Qual è il filo conduttore che lega le proposte in programma per il 2024-2025 e come si inseriscono nella sua visione curatoriale dell’istituto?

Sono molto contento dei risultati ottenuti nella seconda metà del 2024, in cui siamo riusciti a trasformare l’Istituto in un vero e proprio laboratorio culturale. Abbiamo presentato ai visitatori mostre, convegni e giornate di studio dedicate a temi specifici e siamo riusciti a creare un ambiente mutageno e mutante in cui la ricerca e la divulgazione si sono integrate e meticciate compiutamente. Elemento fondamentale della programmazione è stata la possibilità di fruire contemporaneamente di più progetti in diversi siti, dando la possibilità ai visitatori di immergersi in un percorso di scoperta articolato ma coerente. Ogni progetto è stato pensato in relazione al contesto in cui è stato allestito, pur mantenendo una connessione costante con gli altri luoghi, dimensioni, dell’Istituto. Tra le iniziative voglio ricordare la mostra dedicata alla presenza fiamminga a Tivoli (Venere disarma Marte ndr), allestita presso il Santuario di Ercole Vincitore. Il progetto è nato dall’analisi di un dipinto frutto della collaborazione tra Brueghel e Rubens, che presentava sorprendenti analogie con la via Tecta del Santuario. Da questa scoperta è partita una ricerca che ha rivelato una corrispondenza letterale e filologica con la struttura tiburtina, permettendoci quindi di approfondire il legame tra la colonia fiamminga romana e i paesaggi di Tivoli. È stata un’indagine che ha riportato l’attenzione su un aspetto poco esplorato della storia dell’arte moderna legata ai luoghi del Grand Tour. A Villa Adriana, invece, ci siamo concentrati sulla pittura di età adrianea (Sotto il segno del Capricorno ndr), riunendo frammenti e mettendoli a confronto con i reperti provenienti dalle ultime indagini archeologiche. Il lavoro ha permesso di restituire alla Villa la sua dimensione originaria, andando oltre la percezione attuale, spesso limitata agli elementi architettonici superstiti. Abbiamo voluto restituire la vera pelle della Villa per mostrare come l’architettura, la statuaria, i materiali, la natura, le parti decorate creassero un vero e proprio progetto culturale unitario, rivoluzionario per l’epoca. È stato un modo per superare le conoscenze consolidate e per dimostrare che un imperatore innovatore come Adriano non poteva non avere un interesse vario, multiforme e molteplice, e pertanto di grande interesse anche per il campo pittorico. Il terzo progetto ha avuto invece un taglio più concettuale e ha sviluppato una riflessione sul valore cromatico del bianco e sul suo legame con il travertino, materiale che caratterizza il paesaggio e l’architettura tiburtina. Da qui è nata un’indagine più ampia che ha ripercorso la storia del bianco (La via lattea ndr) come codice visivo e simbolico, da Malevič fino alle sue declinazioni più recenti, in cui è ben visibile come il concetto di purezza assoluta inizia a frantumarsi e a essere rielaborato in chiave critica. Il filo conduttore di tutte queste iniziative è stato perciò il desiderio di affiancare ai nostri monumenti delle occasioni di approfondimento che mettessero in relazione ancora una volta il lascito del passato concepito come proattivo per il presente. Ritengo infatti di estrema importanza che l’Istituto diventi un luogo di ricerca attiva, capace di proporre sempre nuove riflessioni e stimoli. Oltre a questi progetti, stiamo lavorando a una mostra documentaria e fotografica (Futura ndr) che accompagnerà l’apertura di tre siti: la Via Tecta, con il suo fascino quasi piranesiano legato alla poetica del sublime; l’intero Museion a Villa Adriana, dove saranno esposte in modo continuativo le opere rinvenute negli scavi dal 1950 in poi; e la Grotta di Diana a Villa d’Este, che finalmente sarà restituita alla fruizione pubblica dopo decenni di chiusura grazie all’opera di mecenatismo di Fendi. L’idea di ampliare costantemente l’offerta culturale è stato il cambio di paradigma di questi otto anni. Se si pensa che, al mio arrivo, il Santuario di Ercole Vincitore era visitabile solo sporadicamente, si capisce quanto sia stato fatto per valorizzare anche i luoghi meno noti, integrandoli in una narrazione più ampia e articolata. Ritengo che sia questa la chiave per rendere il patrimonio culturale realmente soggetto protagonista: creare percorsi sempre nuovi, in cui ogni elemento del sito possa parlare con il contesto storico e artistico. Tutto ciò dona al pubblico un’esperienza di visita più ricca e sempre diversa che stimola il desiderio di ritornare.

Il restauro della Grotta di Diana ha permesso di preservare decorazioni e apparati scultorei importanti. Quali sono stati gli interventi più complessi durante le fasi di restauro?

All’interno dell’Istituto c’era una parte rimasta in una sorta di limbo: chiuso, tutti sapevano della sua esistenza ma nessuno era mai intervenuto in modo così esaustivo. La Grotta di Diana è forse l’esempio più straordinario del manierismo cinquecentesco a noi pervenuto. Si tratta di uno spazio che incarna una sintesi perfetta di elementi polisensoriali e policromatici, con una varietà di materiali già in uso nell’antichità combinati e fusi per creare uno scrigno metamorfico. Una sorta di gioiello prezioso, una sorta di antro di Platone di favolosa complessità e ricchezza. La stratificazione di materiali eterogenei, apparentemente incongrui ma funzionali alla creazione della grotta all’interno del percorso di Villa d’Este, ha reso quindi necessario un intervento di restauro tanto minuzioso quanto approfondito. La ristrutturazione ha avuto lo scopo di rimuovere i depositi accumulati nel tempo e di restituire leggibilità alla grotta, il cui stato di conservazione è stato influenzato anche dall’esposizione agli agenti atmosferici, data la sua parziale apertura verso l’esterno. Negli anni, alcune parti del rivestimento si sono distaccate e hanno compromesso la continuità visiva e narrativa dell’insieme facendone perdere la sua bellezza primeva. L’intervento ha richiesto perciò un’operazione di pulizia e recupero dei dettagli decorativi e ha permesso di ricostruire le storie racchiuse nei vari tasselli della grotta. Un progetto di questa portata non avrebbe potuto concretizzarsi senza il sostegno di una Maison come FENDI con un forte legame agli enti culturali. Dopo oltre un anno di lavori, il 5 maggio la grotta riaprirà finalmente al pubblico con un inedito derma, più leggibile, stratificato e luminoso. L’intervento rafforza anche l’identità di Villa d’Este come luogo metafisico al di fuori del mondo: proprio nella Grotta di Diana l’arte si manifesta come esperienza totale, sinestesica.

Villa d'Este
Villa d’Este
Villa d'Este, Grotta di Diana
Villa d’Este, Grotta di Diana
Villa d'Este, le Cento fontane
Villa d’Este, le Cento fontane

Ci saranno nuovi percorsi o modalità di fruizione per il pubblico che visiterà i siti?

Si tratta dell’antico accesso di Villa Adriana lungo il percorso che abbiamo denominato Yourcenar, del nuovo ingresso da via del Colle per il Santuario di Ercole Vincitore, mentre per Villa d’Este l’unica variazione concreta riguarda l’accesso contingentato alla Grotta di Diana. Continueremo a proporre un biglietto unico, che offre vantaggi economici e consente anche la visita per tre giorni consecutivi. Riteniamo fondamentale promuovere infatti un turismo lento, che permetta di esplorare e conoscere a fondo questo territorio incredibile. Tutte queste iniziative fanno parte di un più ampio progetto di valorizzazione, pensato per rafforzare l’unione tra il sito e l’intera valle dell’Aniene e per poter finalmente essere un luogo che la comunità sente proprio e riconosce come parte rigenerativa della propria identità.

Cosa si aspetta dalla riapertura dei tre siti restaurati, sia in termini di risposta del pubblico che sulla valorizzazione di Villa Adriana e Villa d’Este?

Non voglio che questi luoghi siano percepiti come monumenti passivi, né come semplici mete da visitare una volta nella vita. Devono essere spazi dialettici, osmotici, capaci di parlare con chi li attraversa, e che allo stesso tempo mantengano un legame profondo con la loro storia e con le esigenze e le urgenze del presente. Mi auguro che vengano sempre più percepiti come musei, luoghi di bellezza e di benessere, perché per il resto è evidente il loro presentarsi come monumenti incredibili. Per me sono territori extraterrestri, pianeti regolati dal tempo, testimoni di un flusso continuo, fisico e concettuale. Questo li rende indiziari del nostro passato e allo stesso tempo attori del presente in quanto spazi da vivere e non solo da contemplare. La cultura dovrebbe essere assorbita, respirata, interiorizzata. Proprio per questo sono piattaforme di confronto e dialogo primariamente con noi stessi e ponti verso l’altro. Ne è un esempio il legame che siamo riusciti a instaurare tra Villa d’Este e Pechino, tra culture e civiltà profondamente diverse, ma capaci di arricchirsi a vicenda attraverso lo scambio e il confronto. Voglio ricordare che questi luoghi furono innovatori nel loro tempo e mi auguro che lo siano ancora oggi: laboratori e fucine dove costruire nuove prospettive. Negli ultimi mesi, ad esempio, abbiamo organizzato convegni su tematiche inedite come la relazione tra natura e corpo a metà del Cinquecento (Anatomicae Natura ndr), la figura di Ciriaco d’Ancona, primo archeologo dell’età moderna (Renovatio ndr), o il ruolo di Erode Attico, un personaggio che, erede palmare della visione adrianea (Imitatio Hadriani ndr), ha saputo rivoluzionare la cultura della sua epoca. Vogliamo fornire strumenti di riflessione utili anche per comprendere la complessità del presente e conferire valore agli aspetti paesaggistici e agricoli attraverso la valorizzazione della produzione agricola autoctona, la transumanza e l’attenzione riservata all’acqua, la grande sfida del prossimo futuro

Come è riuscito a coniugare l’interesse del contemporaneo con il restauro del patrimonio antico?

Non vedo una frattura tra conservazione e valorizzazione, anzi, le considero due dimensioni che si integrano perfettamente. Ogni restauro è figlio di una ideologia e della propria epoca e pertanto non può mai essere considerato definitivo: le tecniche e i materiali evolvono costantemente, e ciò che oggi riteniamo all’avanguardia potrebbe essere superato fra vent’anni. Per questo motivo, un intervento che non tiene conto del dialogo con il presente rischia di non avere alcuna proiezione verso il futuro. Valorizzazione e conservazione sono infatti imprescindibili l’una dall’altra e sono mossi dalla medesima curiosità conoscitiva volta alla conservazione della memoria e alla decriptazione dell’attualità. Se da un lato si differenziano per approccio e metodo, dall’altro devono convergere verso un obiettivo comune, proprio come accade nel nostro Istituto. È in questa integrazione che risiede la vera opportunità: solo attraverso una valorizzazione attenta, calibrata sulle specificità di ogni bene, possiamo restituire nuova linfa al nostro patrimonio. L’Italia con la sua ricchezza artistica e culturale immensa ha l’opportunità di distinguersi in questo settore e di affermare una propria cifra identitaria. La vastità del nostro patrimonio, spesso sproporzionata rispetto alle risorse disponibili, ci impone di adottare strategie oculate e interventi fenomenologici, capaci di coniugare tutela e fruizione con modalità sempre all’avanguardia. Solo così la bellezza che abbiamo ereditato potrà essere nuovamente donata a tutti, rinnovandosi e rinnovandoci.


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Noemi Capoccia

L'autrice di questo articolo: Noemi Capoccia

Originaria di Lecce, classe 1995, ha conseguito la laurea presso l'Accademia di Belle Arti di Carrara nel 2021. Le sue passioni sono l'arte antica e l'archeologia. Dal 2024 lavora in Finestre sull'Arte.



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