Alla fine del XIX secolo, l’Italia, allora giovane nazione appena unificata, era ancora una terra di profonde differenze regionali, di città e campagne scollegate, di culture locali fortemente radicate. Tuttavia, le grandi trasformazioni economiche e infrastrutturali, l’espansione significativa della rete ferroviaria, lo sviluppo del commercio e della borghesia urbana prepararono il terreno a una nuova idea di paese, quello di una terra che si poteva percorrere, raccontare, visitare. Era, sostanzialmente, la nascita del turismo. In questo clima di mutamenti profondi, i manifesti pubblicitari turistici si configuravano non soltanto come strumenti di promozione, ma quasi come la base per una nuova identità visiva nazionale. I manifesti turistici furono, prima ancora della fotografia di massa, dei cinegiornali o della televisione, i primi a fissare nella mente dei viaggiatori — italiani e stranieri — l’immagine iconica del cosiddetto “Bel Paese”.
La ricognizione svolta in occasione della mostra Visitate l’Italia! Promozione e pubblicità turistica 1900-1950 (dal 13 febbraio al 25 agosto 2025, a Torino, Palazzo Madama, a cura di Dario Cimorelli e Giovanni C.F. Villa), ha ripercorso in maniera significativa le tappe di questa storia, una storia che permette di leggere, proprio attraverso la grafica pubblicitaria, anche la storia sociale, culturale ed economica del nostro paese.
Se il Grand Tour settecentesco aveva destinato l’Italia ai giovani aristocratici europei come tappa di formazione culturale, il nuovo turismo di fine Ottocento si rivolgeva a una borghesia desiderosa di vivere il viaggio non più come studio delle antichità, ma come esperienza di piacere, benessere, scoperta estetica. Le tappe classiche del Grand Tour, come Roma, Firenze, Napoli e Venezia, restavano imprescindibili, ma si affiancavano ora nuove mete: i laghi lombardi, le spiagge liguri, le terme alpine, le cittadine d’arte minori, la Riviera romagnola. Per promuovere questi luoghi e solleticare l’immaginazione di un pubblico sempre più ampio, era necessario un linguaggio nuovo, rapido, immediato, capace di evocare emozioni al primo sguardo: il manifesto illustrato.
L’arte del manifesto in Italia si sviluppò in parallelo con l’evoluzione della tecnica litografica. Se, in Francia, Jules Chéret aveva dato vita a una grafica colorata e popolare, in Italia la tradizione figurativa millenaria e la sensibilità per il paesaggio influenzarono in modo decisivo la nascita del cartellonismo turistico. I primi manifesti italiani non si limitarono a promuovere viaggi o alberghi: questi lavori cercavano di costruire un intero immaginario, di sintetizzare in una singola immagine la promessa di bellezza, serenità, cultura che l’Italia offriva. È curioso risalire alla nascita del primo manifesto turistico italiano, perché non era la pubblicità di una destinazione particolarmente famosa in tutto il mondo: la prima città, ricorda Dario Cimorelli, a “cimentarsi” nell’uso di questi strumenti promozionali fu Fano, che nel 1893 commissionò alla litografia G. Wenk e figli di Bologna il suo cartellone pubblicitario in una tiratura di duemila copie. “La tecnologia è nuova e l’investimento ingente”, scrive Cimorelli, “ma l’intraprendenza creativa e tecnica permette di concretizzare il progetto. Questo primo manifesto viene pensato per essere utilizzato per più stagioni, in modo da suddividere il costo di realizzazione su più esercizi: così la superficie viene divisa in parti, di cui una è stampata a colori e un’altra, più piccola, è lasciata libera – in basso, oppure di lato – per essere stampata di volta in volta con le nuove informazioni della stagione”. A cimentarsi nella realizzazione di questi manifesti sono, soprattutto all’inizio, i pittori, dopodiché emergeranno importanti figure di artisti che dedicheranno proprio alla cartellonistica una parte significativa del loro impegno.
Il Touring Club Italiano, fondato nel 1894, svolse un ruolo fondamentale nel diffondere una nuova concezione del viaggio come educazione del corpo e dello spirito. Le Ferrovie dello Stato, istituite nel 1905, promossero sistematicamente destinazioni turistiche lungo le nuove linee ferroviarie. I manifesti creati per queste istituzioni non erano semplici strumenti commerciali, ma rappresentazioni potenti del paesaggio e della storia italiana. Giovanni C.F. Villa, riprendendo un’intuizione di Gerardo Dottori che, nel 1931, ebbe a dire che questa nuova forma d’arte era “la più adatta ad influenzare direttamente il gusto estetico di un popolo”, osserva che i primi manifesti turistici non facevano altro che popolarizzare “forme e stili che dall’eclettismo al floreale – Liberty, Art Nouveau, Jugendstil – in poi, attraverso le diverse avanguardie, supereranno le prime declinazioni visive di fine Ottocento”. I manifesti diventano così “l’immediata espressione della creatività italiana nella promozione turistica, proponendo anche il primato di un’idea di paesaggio, elemento che avrà una fortuna incontenibile” grazie anche alla varietà degli ambienti italiani.
Fra i pionieri di questa stagione figurano nomi come Leopoldo Metlicovitz (Trieste, 1868 – Ponte Lambro, 1944), artista triestino di formazione mitteleuropea, capace di fondere la precisione descrittiva con la grazia del decorativismo Liberty. Nei suoi manifesti dedicati ai laghi lombardi o alle esposizioni internazionali, la natura viene trasformata in uno spazio ordinato, armonioso, poetico. Altro protagonista assoluto fu Marcello Dudovich (Trieste, 1878 – Milano, 1962), triestino anch’egli, capace di interpretare il passaggio dallo stile liberty a una nuova modernità grafica fatta di ampie campiture di colore, linee morbide, atmosfere leggere e sognanti. I suoi manifesti per Rimini, Venezia o Padova raccontano un’Italia estiva, vitale, giovane, affascinante.
Forse però prima ancora di loro fu Adolf Hohenstein (San Pietroburgo, 1854 – Bonn, 1928), artista tedesco trapiantato in Italia, ad avviare una nuova stagione portando nel manifesto italiano la raffinatezza delle correnti viennesi e mitteleuropee. Il suo contributo fu infatti fondamentale nel definire uno stile grafico elegante e stilizzato, capace di evocare il lusso della villeggiatura termale o la suggestione delle città d’arte. Villa individua inoltre, tra i capolavori di questa nuova forma d’arte, una veduta di Portofino di Leonetto Cappiello (Livorno, 1875 – Cannes, 1942), artista attivo soprattutto a Parigi e in grado d’innovare il linguaggio visivo del manifesto introducendo immagini audaci, simboliche, lontane dal naturalismo. Il manifesto contiene tutti gli elementi che in quegli anni facevano leva sull’immaginario dei turisti: le vedute, le belle signore italiane, l’eleganza nel vestire, i colori del paesaggio italiano. Il celebre manifesto del 1905, realizzato per il Portofino Kulm Hotel, con le figure colorate che si stagliano sullo sfondo vibrante del paesaggio ligure, segna poi anche una svolta nell’immaginario turistico: il viaggio non è più solo contemplazione, ma partecipazione emotiva. Naturale poi rilevare che i manifesti facevano leva su alcuni luoghi comuni: per esempio, scrive Villa, la montagna come maestosità “da contemplare in giacca e calzettoni” (e poi, dagli anni Venti, sarebbe diventata anche meta di sport invernali), il mare come luogo di divertimento, e le città identificate coi loro monumenti principali, coi manifesti che, attraverso l’uso dell’imperativo, suggeriscono ai turisti le attrazioni da non perdere. Parte così, osserva Villa, anche la ricerca degli elementi di un canone fatto di icone, punti di vista, squarci di vedute che finiranno per identificare una destinazione turistica marcandone l’immagine fino ai giorni nostri.
Proprio il paesaggio, nelle prime opere cartellonistiche, assumeva un ruolo centrale: dalle Dolomiti alle colline toscane, dai laghi prealpini ai golfi mediterranei, ogni scorcio veniva trasformato in un’icona immediatamente riconoscibile. Non si trattava di semplici riproduzioni realistiche: i manifesti operavano una stilizzazione poetica, accentuando colori, luci, geometrie per rendere il paesaggio ancora più seducente, ancora più archetipico.
Con la nascita dell’Ente Nazionale per l’Incremento delle Industrie Turistiche (ENIT) nel 1919, il turismo venne definitivamente riconosciuto come settore strategico per l’economia e l’immagine internazionale dell’Italia. L’ENIT produsse una quantità impressionante di materiale promozionale: manifesti, dépliant, cartoline, guide. La grafica turistica divenne un vero e proprio strumento di costruzione identitaria. Attraverso selezioni iconografiche mirate, si consolidarono stereotipi destinati a durare decenni: Venezia come città dell’amore e dei sogni, Roma come culla della civiltà, Firenze come cuore del Rinascimento, Napoli come paradiso naturale.
Il passaggio dagli anni Venti agli anni Trenta portò ulteriori mutamenti. Il linguaggio Liberty lasciò spazio a un modernismo più sobrio, influenzato dalle avanguardie europee e dalle esigenze della propaganda politica. Durante il regime fascista, il turismo venne sostenuto come strumento di legittimazione del prestigio nazionale. La grafica turistica celebrava non solo il passato glorioso dell’Italia classica e rinascimentale, ma anche la modernità delle nuove infrastrutture, delle colonie marine, delle stazioni sciistiche come Sestriere, costruita ex novo negli anni Trenta. Manifesti come quello di Gino Boccasile, con la famosa “ragazza in verde” sulla neve, sintetizzavano in un solo sguardo la libertà, la salute, la bellezza giovanile e la modernità architettonica della nuova Italia. I manifesti montani degli anni Venti e Trenta cambiarono radicalmente l’immaginario della montagna: da luogo remoto e pittoresco divenne teatro di sport, vitalità, progresso. Le immagini di sciatori, escursionisti, giovani atleti scalatori sostituirono le vedute romantiche di valli solitarie. Anche la rappresentazione delle donne mutò: snelle, atletiche, moderne, le figure femminili dei manifesti turistici incarnavano un nuovo ideale di femminilità emancipata, lontana sia dalla figura tradizionale mediterranea sia dalla retorica della donna madre e sposa. Negli anni Trenta spicca in particolare la figura di Virgilio Retrosi (Roma, 1892 – 1975), allievo di Duilio Cambellotti, autore di cartelloni che, scrive Villa, “colpiscono per la presenza di un segno importante in primo piano: la colonna romana, o l’ombrellone in spiaggia, o lo sporto di un architrave, elementi dominanti e subito dotati di pregnanza comunicativa, oltre che di immediato impatto visivo”, e che rispondono a una politica visuale che “tende sempre più a imporre un canone e un linguaggio immediati”.
Si nota, in questi anni, un forte cambiamento stilistico nei manifesti, rispetto a quelli di fine Ottocento o del primo Novecento, ben sintetizzato da Anna Villari: “Se il linguaggio che la pubblicità adopera tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, sulla scia di esempi principalmente francesi di qualche anno precedenti, è quello della rievocazione, dell’ambientazione, della mimesi, con risultati fortemente influenzati dalle finezze sinuose dello stile Liberty e con la figura umana, idealizzata e rarefatta, quale unica protagonista di scene ‘ambientate’ in interni eleganti o esterni esclusivi, a partire soprattutto dagli anni venti del secolo ecco affacciarsi – come riconobbero con un certo stupore anche i critici contemporanei – nella grafica italiana, oggetto di studi e approfondimenti su riviste specializzate e all’avanguardia anche rispetto a quella di altri paesi europei, echi dei principali movimenti artistici del momento: Cubismo, Metafisica, Razionalismi di matrice tedesca. In un progressivo abbandono delle delicate raffinatezze fin de siècle, la figura umana, pur rimanendo personaggio principale, assume un carattere nuovo: solidamente costruita, tracciata con segno nitido e colori decisi e ben definiti, diventa più reale, dinamica, brillante”. I manifesti degli anni Venti, si potrebbe dire, cominciano ad asciugarsi: non hanno più il carattere elaborato di quelli dei decenni precedenti, ma diventano più immediati, omogenei, si pongono l’obiettivo di catturare subito l’attenzione dell’osservatore e di fissarsi nella sua memoria.
Nel dopoguerra, dopo la tragedia della Seconda guerra mondiale, il turismo in Italia riprese lentamente. La nuova stagione, segnata dal boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta, vide un turismo sempre più di massa. Il manifesto turistico, pur mantenendo una funzione centrale, cambiò volto: i temi si fecero più leggeri, più solari, più popolari. Artisti come i liguri Mario Puppo (Levanto, 1905 – 1977) e Filippo Romoli (Savona, 1901 – Genova, 1969) dipinsero un’Italia sorridente, giovane, accogliente, dove il viaggio era sinonimo di libertà, gioia, benessere. I manifesti mostravano spiagge assolate, ragazze eleganti, panorami abbaglianti di luce. Del resto, il “miracolo economico” italiano trovò nel turismo uno dei suoi motori principali. Le nuove autostrade, le utilitarie accessibili come la Fiat 500, la diffusione del tempo libero retribuito permisero a milioni di italiani di scoprire il proprio paese, mentre i turisti stranieri tornavano in massa a popolare le città d’arte, le coste, i laghi.
I manifesti degli anni Cinquanta e Sessanta, infine, mantenevano il retaggio iconografico dei decenni precedenti, ma lo aggiornavano a un gusto più immediato e gioioso. Rimaneva la tendenza a fissare alcune icone — la cupola del Brunelleschi per Firenze, il Vesuvio fumante per Napoli, il Colosseo per Roma — ma si moltiplicavano anche immagini più leggere e quotidiane: coppie che ridono sulla spiaggia, famiglie che si godono il sole, bambini che giocano tra le onde. Il manifesto turistico, in sostanza, si adattò alle nuove esigenze del turismo di massa, mantenendo però la capacità di evocare sogni, desideri e atmosfere, e contribuendo a consolidare il mito dell’Italia come meta privilegiata per il turismo internazionale. Ancora oggi, questi manifesti rappresentano non solo una testimonianza storica e artistica, ma anche un patrimonio vivo, capace di parlare a un pubblico globale e di ispirare le nuove generazioni di viaggiatori.
La storia dei manifesti turistici italiani, dalla fine dell’Ottocento agli anni Sessanta, è dunque anche, volendo riassumere e cercando anche d’allargare lo sguardo, la storia della costruzione di un mito. Un mito che, pur idealizzando e semplificando spesso fino alla banalizzazione e all’annullamento della complessità (del resto si avvertono ancora oggi gli effetti di un turismo che si concentra soltanto su pochi luoghi), seppe cogliere il cuore profondo dell’Italia: la sua infinita varietà di paesaggi, la stratificazione millenaria della sua cultura, la dolcezza della sua luce, la passione e la gioia di vivere del suo popolo. E ancora oggi, guardando quei manifesti, non possiamo non riconoscerci, non sentire, sotto l’eleganza stilizzata di quelle immagini, il battito di una terra che continua a incantare il mondo.
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