Cimabue, Duccio o Giotto? L'enigmatica Madonna di Castelfiorentino, opera cruciale della nostra storia dell'arte


La Madonna di Castelfiorentino è una delle opere più importanti ma anche più enigmatiche della storia dell'arte italiana: attribuita a Cimabue, aperta a Duccio di Buoninsegna, forse con un intervento del giovanissimo giotto.

È davvero impressionante scorrere la bibliografia sulla straordinaria Madonna col Bambino di fine Duecento conservata al Museo di Santa Verdiana di Castelfiorentino, tra le colline della Valdelsa. Di quest’opera, una delle più enigmatiche e problematiche di tutto il tredicesimo secolo, tra i principali capolavori della Valdelsa (oltre che della Toscana e dell’Italia tutta), nonché dipinto di un artista di primissimo livello, si sono occupati molti dei più grandi storici dell’arte d’ogni tempo: tutti i più importanti studiosi specializzati in storia dell’arte medievale hanno offerto in continuazione le loro interpretazioni di questa meravigliosa tavola. Si parte dalla fine dell’Ottocento con Guido Carocci, s’attraversa il periodo entre-deux-guerres con Ugo Procacci, Richard Offner e Carlo Gamba, s’arriva all’immediato dopoguerra con le opere di Enzo Carli e Roberto Longhi, e quindi avanti con articoli e scritti di Pietro Toesca, Carlo Ludovico Ragghianti, Ferdinando Bologna, Paolo Dal Poggetto, Giovanni Previtali, Carlo Volpe, Miklós Boskovits, Luciano Bellosi, per arrivare ai lavori più recenti di Angelo Tartuferi, Giovanna Ragionieri, Marco Ciatti, Antonio Paolucci. Punti di vista diversi, stili diversi, storie diverse, ma tutti accomunati da un’unica, assillante domanda: chi ha dipinto la tavola di Castelfiorentino?

I documenti antichi non giungono certo in soccorso, dacché la scoperta della tavola è un fatto recente e non abbiamo conoscenza d’autori del lontano passato che abbiano parlato dell’opera. Dell’opera infatti si registrano menzioni a partire dal 1890, quando Guido Carocci la include, senz’altro aggiungere, in un catalogo generale dei beni del Regno d’Italia, manoscritto. Viene quindi notata nel 1910 dallo scrittore di viaggi Edward Hutton e da alcuni storici locali che la elencano nelle opere contenute nella collegiata di San Lorenzo a Castelfiorentino, dove si trovava (su di un altare secentesco) prima del suo trasferimento al museo: è comunque lecito supporre, data la sua qualità, che non fosse quella la sua originaria collocazione, e che magari non fosse stata neppure commissionata per un centro sostanzialmente periferico come Castelfiorentino. Inoltre, possiamo tranquillamente affermare che l’aspetto attuale non sia quello che la tavola aveva in origine: la centinatura, definita “rozza” da Angelo Tartuferi, è sicuramente un intervento successivo, nell’ambito del quale sono stati eseguiti anche alcuni tagli ai lati. Per attendere la prima pubblicazione occorre aspettare il 1932, quando Ugo Procacci, nel numero XIV di Rivista d’Arte, indica la tavola come lavoro di un “anonimo fiorentino fortemente influenzato dall’arte senese”, avvicinandola alla celeberrima Madonna di Crevole di Duccio di Buoninsegna (Siena, 1255 circa - 1319 circa), conservata oggi al Museo dell’Opera del Duomo di Siena. E in effetti ci sono molte somiglianze.

Per coglierle occorre vedere più da vicino la tavola di Castelfiorentino. La Vergine, avvolta nel suo tradizionale maphorion, il manto blu dotato di velo per coprire il capo, rivolge uno sguardo maliconico all’osservatore mentre tiene tra le braccia Gesù Bambino, che s’agita scalciando e avvicinando teneramente una mano al volto della madre per accarezzarla. Questa vivacità del Bambino rappresenta una novità importante, capace d’imprimere alla tavola una svolta in senso naturalistico, per una più veridica resa degli affetti. Il maphorion è animato dalle crisografie (ovvero le striature dorate, utilizzate per sottolineare le pieghe del panneggio) che rimontano alla tradizione bizantina, ed è decorato con una bordatura dorata: la raffinatezza di tali dettagli ben s’adatta all’atmosfera altamente lirica, quasi struggente, che il dipinto riesce a evocare. “A guardarlo da vicino”, ha scritto Antonio Paolucci, che ci ha regalato una delle più dense descrizioni della Madonna col Bambino, “ti accorgi che quel piccolo dipinto ha una sua torva, malinconica, disarticolata grandezza. Basta guardare il Bambino così invadente, così vitale, così corposo. Sembra davvero che non voglia stare nel quadro, che gli stia stretta la nicchia pur spaziosa che la Madre gli ha approntato tenendolo fra le braccia. E poi, nella tunica del Cristo, ecco i sottosquadri taglienti che sono già il sistema di panneggio nelle storie assisiati di Isacco. Ecco la battuta di luce che fa emergere il ginocchio sotto la stoffa, a enfatizzare, non senza una certa brutalità, il divincolarsi del divino fanciullo. È la scoperta del vero che rompe la dura crosta smagliante dello stile bizantino. È il greco che sta trascolorando nel latino della lingua figurativa della moderna Italia, secondo l’immagine celebre di Cennino e di Vasari”.

Attribuito a Cimabue, Madonna con il Bambino (1285 circa; tempera su tavola, 68 x 46,3 cm; Castelfiorentino, Museo di Santa Verdiana)
Attribuito a Cimabue, Madonna con il Bambino (1285 circa; tempera su tavola, 68 x 46,3 cm; Castelfiorentino, Museo di Santa Verdiana)


La Madonna di Castelfiorentino al termine del corridoio nel Museo di Santa Verdiana. Ph. Credit Finestre sull'Arte
La Madonna di Castelfiorentino al termine del corridoio nel Museo di Santa Verdiana. Ph. Credit Finestre sull’Arte


La Madonna di Castelfiorentino nella sua teca. Ph. Credit Finestre sull'Arte
La Madonna di Castelfiorentino nella sua teca. Ph. Credit Finestre sull’Arte


Il Santuario di Santa Verdiana di Castelfiorentino, l'ingresso del Museo è sulla destra
Il Santuario di Santa Verdiana di Castelfiorentino, l’ingresso del Museo è sulla destra. Ph. Credit

La descrizione di Paolucci aggiunge, peraltro, alcuni importanti elementi che introducono alcune delle ricerche più recenti sulla Madonna col Bambino di Castelfiorentino. Occorre, tuttavia, andare con ordine e tornare a Procacci, che ravvisò affinità con la Madonna di Crevole di Duccio di Buoninsegna. Quest’ultima è uno dei più importanti dipinti del grande artista senese: è un’opera che affonda le sue radici nell’arte bizantina, è una tavola in cui la finezza di Duccio tocca gli apici, ed è un’opera che, con la Madonna di Castelfiorentino, probabilmente condivide il prototipo, dacché posa e gesti sono simili. Anche qui, abbiamo una Madonna che rivolge il palmo della mano destra verso l’alto (anche se l’autore della Madonna di Castelfiorentino, in certo modo, “umanizza” il gesto facendo sì che la mano adesso serva non più solo a indicare il Bambino, ma anche a sostenere la sua gamba destra), abbiamo un Gesù che allunga una mano verso la madre, abbiamo lo stesso sguardo intriso di malinconia, per niente dissipata dalla preziosità del linearismo duccesco. Per Procacci, la Madonna di Castelfiorentino era una libera copia della Madonna di Crevole, eseguita da un anonimo pittore, che lo storico dell’arte toscano battezzò come il “Maestro di Castelfiorentino”. Arrivò solo nel 1933, per merito di Carlo Gamba, la prima attribuzione all’artista cui in seguito, eccezion fatta per alcune voci discordi, l’opera sarebbe stata più spesso associata, ovvero Cimabue (vero nome Cenni di Pepo, Firenze, 1240 circa - Pisa, 1302). Così ne parlava il grande studioso: “la Madonna di Castelfiorentino sembra appartenere a prima vista a quel gruppo di Madonne tanto studiate e tanto controverse tra Cimabue e Duccio che gravitano intorno alla Pala Rucellai. Però mentre talune di queste hanno una espressione di dolcezza dolorosa e vagante e i loro Bambini senza muscoli stanno come sospesi in aria, la nostra Madonna fissa profondamente lo sguardo in quello dell’Orante e il suo Bambino ha un volume, un peso, una forza che annunziano una nuova scienza di modellato dinamico e una potenza drammatica realistica degne del grande innovatore Cimabue”.

Insomma: la consistenza delle volumetrie dei due personaggi di Castelfiorentino, secondo Gamba, era compatibile con quella delle figure note di Cimabue. Si trattò d’un parere ch’ebbe un vasto seguito: per Volpe la tavola paleserebbe una “completa presenza autografa di Cimabue”, e alla sola mano del grande artista fiorentino l’assegnarono anche studiosi del calibro di Ragghianti e Boskovits. È indubbio che i personaggi siano forti ed energici, come nelle opere di Cimabue: si pensi alla Maestà un tempo in San Francesco a Pisa e oggi al Louvre, dove giunse in seguito alle spoliazioni napoleoniche (Tartuferi collocò cronologicamente la Madonna di Castelfiorentino in un periodo successivo alla Maestà del Louvre, opera che Cimabue realizzò attorno al 1290). Eppure, al di là degli elementi eminentemente cimabueschi, la tavola presenta troppe affinità con lo stile di Duccio, cui s’avvicinano “la struggente malinconia, l’eleganza dei raffinati colori e il dolce linearismo” (Rosanna Caterina Proto Pisani). Ci furono quindi autori che pensarono di trovarsi di fronte a un’opera di Duccio o di un suo seguace: tra questi occorre annoverare Curt H. Weigelt, che nel 1930 assegnò la Madonna di Castelfiorentino a Duccio in persona, oppure Richard Offner, che nel 1933 parlò di un’opera della scuola di Duccio, e ancora Cesare Brandi, secondo il quale l’autore era un non meglio identificato pittore duccesco, e Pietro Toesca, che propose per l’opera il nome del Maestro della Madonna Rucellai (vale a dire l’autore, da lui creato, che a suo parere avrebbe dipinto la celeberrima Madonna Rucellai, oggi assegnata all’unanimità a Duccio).

E se invece l’opera fosse stata frutto della collaborazione tra i due grandi artisti? Un’opera che Cimabue e Duccio eseguirono a quattro mani? Fu Roberto Longhi che nel 1948 ebbe quest’intuizione, affermando che l’opera sembra segno di una “collaborazione solidale” di Duccio “in casa Cimabue”, e altri studiosi si mossero così sul solco tracciato dal grande storico dell’arte piemontese: tra i primi vi fu Ferdinando Bologna, che nel 1960 indicò l’opera come eseguita da Duccio su disegno di Cimabue (e magari anche con un aiuto attivo da parte di quest’ultimo, che avrebbe messo mano soprattutto alla figura del Bambino, talmente estraneo alla pittura duccesca da dover per forza chiamare in causa un altro nome). È del resto noto che molti storici dell’arte (Longhi in testa) pensano che Duccio sia stato allievo di Cimabue (“quasi creato di Cimabue”, si spinse a ipotizzare Longhi): una posizione difficile da scalfire, e che quindi renderebbe credibile l’ipotesi di una collaborazione tra i due nella realizzazione della tavola di Castelfiorentino. Tuttavia altri in seguito tornarono a propendere per il nome di Cimabue, un Cimabue che comunque si misura con la pittura di Duccio e accoglie dunque elementi ducceschi nella sua tavola: è il caso di Luciano Bellosi, che ipotizza tuttavia un’altra collaborazione, aggiungendo un ulteriore elemento oltremodo affascinante alla storia del dipinto.

I volti della Madonna e del Bambino nella Madonna di Castelfiorentino
I volti della Madonna e del Bambino nella Madonna di Castelfiorentino


Dettaglio delle crisografie
Dettaglio delle crisografie


Duccio di Buoninsegna, Madonna di Crevole (1283-1284; tempera e oro su tavola, 89 x 60 cm; Siena, Museo dell'Opera del Duomo)
Duccio di Buoninsegna, Madonna di Crevole (1283-1284; tempera e oro su tavola, 89 x 60 cm; Siena, Museo dell’Opera del Duomo)

Ed è qui che ci si può riallacciare alla descrizione di Antonio Paolucci. Lo studioso faceva riferimento alle storie di Isacco nella Basilica Superiore di San Francesco ad Assisi, in riferimento alla figura di Gesù Bambino. In effetti, il primo a legare con insistenza il Bambino agli affreschi del cantiere assisiate è stato, nel 1985, proprio Luciano Bellosi. Lo storico dell’arte fiorentino, citando uno spunto di Ferdinando Bologna che metteva in relazione il Bambino con i putti della volta dei Dottori di Assisi (attribuendo quest’ultimo a Duccio di Buoninsegna: parere su cui Bellosi non era d’accordo, ritenendo che i geni della volta fossero da assegnare a Giotto e bottega), scrisse una delle pagine più interessanti sulla Madonna di Castelfiorentino. Ci sono infatti degli elementi, nella figura di Gesù, che lascerebbero intravedere l’intervento di un artista estraneo tanto ai modi di Cimabue quanto a quelli di Duccio di Buoninsegna: un artista nuovo, un artista in grado di “trascolorare” il linguaggio bizantineggiante in una grammatica nuova. Un artista moderno, per il quale Bellosi propose un nome altisonante: Giotto (Vespignano, 1267 - Firenze, 1337). Nel suo libro più famoso (La pecora di Giotto), Bellosi scriveva che “la Madonna di Castelfiorentino, col suo preludere alla pittura per aggetti voluminosi che caratterizzerà le Storie di Isacco e il seguito degli affreschi della Basilica Superiore di Assisi, sta ad indicare la possibilità di una nuova, bruciante presenza accanto al vecchio Cimabue e al giovane Duccio [...]. Giotto fu colui che sollevò la problematica della rappresentazione dello spazio al livello più alto in tutto il Trecento. Fino a Masaccio, nessuno si comportò mai con più rigore e coerenza di lui nei confronti di questo aspetto nuovo della pittura”. Ci sarebbero alcuni particolari che lascerebbero supporre che Giotto sia intervenuto nella figura del Bambino nella Madonna valdelsana: la veste del piccolo ricorda il lenzuolo del letto (“con pieghe a sottosquadri taglienti e tesi e modellato da una sorta di alone lustro e metallico nella zona in cui emerge il gonfiore del materasso sottostante”) su cui è sdraiato Isacco nella scena in cui il figlio di Abramo respinge Esaù, e allo stesso modo ricordano la Madonna di Castelfiorentino i chiarori che, nelle Storie di san Francesco, l’autore adoperò per marcare le porzioni sporgenti delle stoffe (e che anche nella tavola di Castelfiorentino lasciano intuire che c’è un corpo vivo, una fisicità consistente, sotto quel velo). E poi ci sono i putti della volta dei dottori, ai quali il “Bambino è quasi sovrapponibile” (così Giovanna Ragionieri).

Bellosi sarebbe tornato più volte su questi argomenti: in un saggio del 2003 ribadì che a fargli credere che il Bambino della Madonna di Castelfiorentino fosse frutto di un intervento del “giovanissimo” Giotto erano stati da una parte il panneggio con pieghe a sottosquadri taglienti, dall’altra “il suo carattere di lustro un po’ metallico che indica l’aggetto della gamba, come si vede anche nelle Storie di san Francesco ad Assisi (per esempio, nella veste del padre di san Francesco nella Rinuncia agli averi)”. Ancora, nel volume della collana Dossier d’Art che Bellosi scrisse assieme a Giovanna Ragionieri e che fu pubblicato nel 2003, leggiamo ancora della “possibilità che l’energico Bambino sia stato eseguito addirittura dal giovanissimo Giotto”. L’idea di Bellosi fu vagliata dalla critica successiva con una certa cautela: Boskovits, nel 2001, scrisse che l’ipotesi della partecipazione di Giotto “può lasciare perplessi”, ma riconobbe che il panneggio del Bambino era, senz’ombra di dubbio, simile ai panneggi che troviamo nelle più antiche opere assisiati attribuite alla mano di Giotto. E anche per Boskovits la Madonna di Castelfiorentino potrebbe suggerire “per lo meno contatti stretti tra Cimabue e Giotto”. Non dello stesso avviso è Angelo Tartuferi, autore dei più recenti interventi sulla Madonna di Castelfiorentino: nel 2004, nella scheda del dipinto inclusa nel catalogo della mostra L’arte a Firenze nell’età di Dante, sosteneva che l’ipotesi di un intervento del giovane Giotto non sia “sufficientemente supportata dal punto di vista stilistico”. Una posizione ribadita in un saggio del 2014, dove Tartuferi afferma che quelli del Bambino sono “panneggi di gusto arnolfiano, che si riscontrano peraltro in tante pitture umbro-laziali su tavola e in affresco sul finire del XIII secolo”: questi ultimi vengono descritti come “uno degli stilemi più comuni del nuovo linguaggio pittorico che si andava affermando in Italia centrale: in maniera particolare nel cantiere decorativo della basilica superiore di San Francesco in Assisi, ma anche a Roma e nel Lazio, a Firenze e negli altri centri della Toscana”.

Madonna di Castelfiorentino, dettaglio dei panneggi
Madonna di Castelfiorentino, dettaglio dei panneggi


Maestro delle Storie d'Isacco (Giotto?), Isacco respinge Esaù (1290-1295 circa; affresco, 300 x 300 cm; Assisi, Basilica Superiore di San Francesco)
Maestro delle Storie d’Isacco (Giotto?), Isacco respinge Esaù (1290-1295 circa; affresco, 300 x 300 cm; Assisi, Basilica Superiore di San Francesco)


Attribuito a Giotto, San Francesco rinuncia agli averi (1292-1296; affresco, 230 x 270 cm; Assisi, Basilica Superiore di San Francesco)
Attribuito a Giotto, San Francesco rinuncia agli averi (1292-1296; affresco, 230 x 270 cm; Assisi, Basilica Superiore di San Francesco)


Dettaglio del Bambino nella Madonna di Castelfiorentino
Dettaglio del Bambino nella Madonna di Castelfiorentino


Maestro delle Storie d'Isacco (Giotto?), Volta dei Dottori della Chiesa (1290-1295 circa; affresco; Assisi, Basilica Superiore di San Francesco)
Maestro delle Storie d’Isacco (Giotto?), Volta dei Dottori della Chiesa (1290-1295 circa; affresco; Assisi, Basilica Superiore di San Francesco)


Dettaglio di uno dei putti della volta dei Dottori
Dettaglio di uno dei putti della volta dei Dottori

Tartuferi, in entrambi gli interventi, ribadiva la completa autografia cimabuesca della Madonna di Castelfiorentino, e i suoi sono i più recenti contributi sul tema. Questione chiusa? Tutt’altro, anche perché non ci sono pareri predominanti: la posizione forse più seguita negli ultimi tempi è quella secondo cui l’opera sarebbe frutto dell’estro d’un Cimabue aperto però a diverse suggestioni esterne. E questa è anche la posizione ufficiale del Museo di Santa Verdiana, dove è possibile leggere il solo nome di Cimabue nella didascalia che accompagna la tavola. Tuttavia, a prescindere da chi sia l’autore o da chi abbia partecipato all’impresa, tutti concordano su un punto: la Madonna col Bambino di Castelfiorentino è una delle opere più meravigliosamente attraenti di quel periodo così importante per la storia dell’arte tutta. La dolcezza velata di presaga mestizia della Vergine, il delicato gesto del Bambino che lambisce con la manina quasi incerta il volto della madre come a volerla confortare, la sua fisicità presente, carne che risalta dal fondo oro e che gonfia viva le curve affilate del pannello che l’avvolgono: elementi che hanno portato il summenzionato Paolucci a parlare d’una “Castelfiorentino da hit parade” per la presenza di questa sua illustre ospite, l’immagine “leader” (così sempre Paolucci) del Museo di Santa Verdiana che aveva aperto le sue porte al pubblico poco prima che lo studioso ne scrivesse.

È lecito immaginarsi che la Madonna di Castelfiorentino, oltre a suscitare meraviglia in chi si reca al Museo di Santa Verdiana e la trova esposta, solitaria, sulla parete di fondo d’uno stretto corridoio ai cui lati sono esposti antichi codici miniati, sia destinata a far discutere ancora per molto, anche per il fatto che una saldo posizionamento critico del dipinto ancora manca, e soprattutto perché quest’opera rappresenta uno snodo fondamentale di tutta l’arte medievale. È un’opera cruciale perché luogo in cui s’incontrano tre mondi: quello ancora bizantineggiante ma con volumi consistenti che s’aprono al nuovo, quello delle preziose delicatezze senesi, quello del linguaggio latino che s’intravede all’orizzonte. Insomma: un’opera moderna, che parla fiorentino con qualche inflessione senese, ma adoperando alcune parole d’un gergo appena nato.

Bibliografia di riferimento

  • Angelo Tartuferi, Giotto. La nascita del linguaggio figurativo moderno dell’Occidente in Giotto, Treccani (collana Classici Treccani, pittura italiana, i grandi maestri della prospettiva), 2014
  • Antonio Paolucci, Scritti d’arte (1996-2007), Leo S. Olschki Editore, 2007
  • Rosanna Caterina Proto Pisani (a cura di), Museo di Santa Verdiana a Castelfiorentino, Polistampa, 2006
  • Angelo Tartuferi, Mario Scalini (a cura di), L’arte a Firenze nell’età di Dante (1250-1300), catalogo della mostra (Firenze, Galleria dell’Accademia, dal 1° giugno al 29 agosto 2004), Giunti, 2004
  • Alessandro Bagnoli, Roberto Bartalini, Luciano Bellosi, Michel Laclotte, Duccio: alle origini della pittura senese, catalogo della mostra (Siena, Santa Maria della Scala, dal 4 ottobre 2003 all’11 gennaio 2004), Silvana Editoriale, 2004
  • Luciano Bellosi, Giovanna Ragionieri, Duccio di Buoninsegna, Giunti, 2003
  • Rosanna Caterina Proto Pisani (a cura di), Il Museo di Santa Verdiana a Castelfiorentino, Becocci / Scala, 1999
  • Luciano Bellosi, Cimabue, 24 Ore Cultura, 1998
  • Giovanna Ragionieri, Duccio: catalogo completo dei dipinti, Cantini, 1989
  • Luciano Bellosi, La pecora di Giotto, Einaudi, 1985
  • Miklós Boskovits, Cimabue e i precursori di Giotto, Scala, 1976
  • Ferdinando Bologna, Ciò che resta di un capolavoro giovanile di Duccio in Paragone, 125 (1960), pp.3-31
  • Carlo Ludovico Ragghianti, Pittura del Dugento a Firenze, Vallecchi, 1955
  • Cesare Brandi, Duccio, Vallecchi, 1951
  • Roberto Longhi, Giudizio sul Duecento in Proporzioni, II (1948), pp. 5-54
  • Carlo Gamba, La mostra del tesoro di Firenze sacra. La pittura in Bollettino d’arte, XXVII (1933), pp. 145-163
  • Ugo Procacci, Opere sconosciute d’arte toscana in Rivista d’arte, XIV (1932), pp. 463-466


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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

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