Da otto anni esiste negli Stati Uniti un gruppo di politologi di tutti gli orientamenti, circa 500 in tutto, che sottopone a serrata verifica la tenuta di tutte le pratiche democratiche del paese per valutare la loro resistenza e le potenziali minacce. Si chiama Bright Line Watch e ad aprile ha pubblicato l’ultimo rapporto, mostrando, attraverso alcuni grafici, come buona parte degli indicatori abbia segnato una ripidissima discesa rispetto a novembre 2024, data delle elezioni presidenziali vinte da Donald Trump: sono in vertiginoso calo la libertà d’espressione, l’assenza d’interferenze con la stampa, le investigazioni non compromesse, l’indipendenza dei giudici, l’assenza di violenza politica, i limiti che il potere legislativo pone all’esecutivo, la tolleranza nei riguardi delle proteste. Rimangono invece poco mossi altri indicatori: i diritti legali, l’uguaglianza di fronte alla legge, la trasparenza e via dicendo. Il sunto, tuttavia, è lapidario ed eloquente: “nei primi mesi del secondo mandato presidenziale di Donald Trump, la sua amministrazione ha sfidato le norme costituzionali e democratiche su un vasto insieme di questioni, tra cui la portata del potere esecutivo e l’autorità dei tribunali di controllarlo, la libertà individuale di espressione, il giusto processo e l’habeas corpus, l’immigrazione e la libertà accademica”. Il rapporto non misura l’autonomia dei musei, ma è del tutto evidente che oggi, negli Stati Uniti, anche l’indipendenza degli istituti della cultura sia costantemente e gravemente minacciata.
Certo: l’aggressione di Trump all’indipendenza dei musei non è sicuramente la più appariscente delle sue sfide alle istituzioni democratiche, e non è nemmeno la più importante. Uno studio del Carnegie Endowment for International Peace, pubblicato il 25 agosto, parla apertamente di “democratic backsliding”, uno “scivolamento” che erode le basi stesse della democrazia mediante un progetto di esaltazione del potere esecutivo che si distingue per la sua agenda fondata sulla delegittimazione e per la sua sorprendente rapidità. Un buon sunto di quello che ha fatto Trump in neanche un anno di mandato si può trovare nell’editoriale che Nathalie Tocci ha scritto lo scorso 28 agosto per La Stampa: tentativo di eliminare il voto per corrispondenza, modifica dei distretti elettorali in Texas per favorire i candidati repubblicani, dispiegamento della Guardia Nazionale contro cittadini in California, arresti e deportazioni di massa (val la pena citare il caso, celeberrimo, di Kilmar Ábrego García, cittadino salvadoregno espulso illegalmente, tornato negli USA con pesante ritardo, e ora nuovamente arrestato senza prove), revoca del diritto di studio a studenti che hanno espresso opinioni contrarie a quelle dell’amministrazione, attacchi alle università sotto minaccia di taglio dei finanziamenti, attacchi agli organi di stampa (che spesso finiscono per autocensurarsi), attacco alla separazione dei poteri mediante svuotamento delle agenzie federali con la scusa dell’efficientamento e della razionalizzazione delle spese, rimozione di funzionari federali che esprimono posizioni contrarie a quelle dell’amministrazione. L’attacco all’indipendenza dei musei s’inserisce in questo contesto.
Val la pena riepilogare brevemente quello che è accaduto, ricordando che al momento tutti i tentativi di controllo diretto riguardano lo Smithsonian, il più grande complesso museale degli Stati Uniti, che amministrativamente è un’agenzia federale, dunque è molto legato all’amministrazione centrale. L’attacco è cominciato a marzo, quando Trump ha firmato un ordine esecutivo per dare al vicepresidente il mandato di garantire che i programmi del museo riflettano i presunti “valori tradizionali”, secondo l’idea che lo Smithsonian, negli ultimi anni, sia “caduto sotto l’influenza di un’ideologia divisiva e incentrata sulla razza”. Per risolvere quello che per Trump è un problema, l’ordine stabilisce che il vicepresidente collabori col Congresso affinché gli stanziamenti dedicati allo Smithsonian non prevedano spese per mostre o programmi che “degradano i valori americani condivisi, dividono gli americani in base alla razza o promuovono programmi o ideologie incoerenti con la legge e la politica federale”, o addirittura “che celebrano i successi delle donne senza riconoscere in alcun modo gli uomini come le donne all’interno del museo”. E già qui ci sarebbero tutti gli elementi sufficienti per bollare come profondamente antidemocratiche le idee che Trump ha sul suo museo più grande. Ma l’attuale presidente s’è spinto oltre, in questi ultimi giorni: poco prima di Ferragosto, ha inviato una lunga lettera al segretario dello Smithsonian, Lonnie G. Bunch, per avvisarlo che l’amministrazione sottoporrà a un controllo rigoroso tutti i contenuti del museo, sia quelli esistenti sia quelli in produzione, dando allo Smithsonian due mesi e mezzo di tempo per inviare alla presidenza tutto il materiale da sottoporre a verifica: testi di mostre e pannelli, contenuti di siti web, materiali didattici, contenuti di social e media digitali, dati sulle sovvenzioni, materiale promozionale. Dopodiché, entro quattro mesi, tutti i musei dello Smithsonian dovranno cominciare ad apportare le correzioni sui contenuti indicate dall’amministrazione. Infine, la scorsa settimana, la Casa Bianca ha pubblicato sul proprio sito web un articolo, senza firma, intitolato “President Trump is right about the Smithsonian”, che elencava una ventina di opere, mostre o iniziative ritenute contrarie ai presunti valori dell’amministrazione: superfluo rimarcare che si trattava di opere e iniziative mirate a dar lustro alle prospettive delle comunità LGBTQ+, afroamericane e latine. In poche parole, una lista di proscrizione indegna di qualunque paese civile. Così come, del resto, indegno d’un qualunque paese civile e democratico è, più in generale, tutto quello che Trump sta facendo coi musei.
Purtroppo, se ne sta parlando troppo poco (in Italia, invece, non se ne parla proprio). Ovvio: il personaggio è talmente imprevedibile e la sua minaccia talmente estesa, talmente pervasiva, talmente capillare e capace d’investire quasi ogni emanazione della democrazia statunitense, che ogni discorso su quello che Trump sta facendo ai musei finisce per essere percepito come poco rilevante. Se hai, mettiamo, una corte d’appello federale che ritiene illegali i dazi che Trump ha imposto a tutto il mondo, a chi può importare dello Smithsonian? Se hai un presidente degli Stati Uniti che bullizza il suo omologo ucraino e stende tappeti rossi a un dittatore ricercato per crimini di guerra, che senso può avere parlar di musei? Se hai un presidente che ordina arresti illegali e deportazioni di massa, che traffica per abolire il voto per corrispondenza, che vuol mettere in discussione il diritto all’aborto, che briga per rafforzare il suo controllo sulla Federal Reserve, che posto possono avere le mostre e le opere d’arte nella scala delle priorità dell’opinione pubblica? Eppure, l’attacco ai musei, lungi dall’essere poco più che una scaramuccia, è un tassello fondamentale del progetto antidemocratico di Trump. Ed è per questo motivo che stupisce tutto questo silenzio attorno a quello che sta accadendo allo Smithsonian: l’ICOM, per esempio, non s’è ancora espresso sugli attacchi di Trump. Si è invece pronunciata la American Alliance of Museums, che in una nota del 15 agosto ha ribadito che “quando una direttiva stabilisce cosa dovrebbe o non dovrebbe essere esposto, rischia di restringere la visuale del pubblico su fatti, idee e un insieme completa di prospettive”, che le pressioni “possono avere un effetto deprimente sull’intero settore museale”, che “la libertà di pensiero e di espressione sono valori fondamentali americani e i musei li sostengono creando spazi in cui le persone possono confrontarsi con la storia, la scienza, l’arte e la cultura secondo modalità oneste, basate sui fatti” e che occorre “sostenere il settore museale nella resistenza alla censura”. Ad ogni modo, la comunità degli studiosi e degli intellettuali sta facendo troppo poco. In Italia neppure se ne parlerebbe, se non fosse per qualche articolo che fa la cronaca di quel che accade negli Stati Uniti. Ma praticamente nessuno ha preso posizione.
Lo Smithsonian non è neppure l’unico museo che sta affrontando le conseguenze della deriva autoritaria degli Stati Uniti. Sullo Smithsonian s’abbattono semplicemente quelle più vistose, dal momento che, essendo legato all’amministrazione centrale, è quello su cui il controllo può esser più diretto. Ma non è detto che non possa accadere a qualunque altro museo (musei privati, musei gestiti da fondazioni, da enti locali) ciò che sta accadendo al mondo delle università: pressioni affinché si adeguino alle linee politiche dell’amministrazione. E non è difficile: basta minacciare il taglio dei finanziamenti federali. In parte sta già accadendo: l’ordine esecutivo di marzo emanato per ridurre al minimo il funzionamento dell’agenzia federale che sostiene musei e biblioteche ha già prodotto i primi risultati, con i musei che si sono visti ridurre o tagliare risorse già assegnate (e c’è già il caso di un istituto, il Woodmere Art Museum, che ha fatto causa all’amministrazione centrale).
Va detto in maniera chiara: la minaccia ai musei è gravissima. E non è difficile comprendere perché, da una parte, Trump coltivi il desiderio di ridurre al minimo le funzioni dei musei, e dall’altro di sottoporli a controllo: il suo progetto neanche troppo velato di smantellamento delle istituzioni democratiche richiede la riduzione ai minimi termini di qualunque strumento di sviluppo del pensiero critico e, allo stesso tempo, il controllo dei contenuti dei musei affinché siano funzionali a trasmettere, se non a imporre, la mitologia nazionalista di Trump, fondata sull’idea che gli Stati Uniti abbiano conosciuto un passato mitico, un passato di grandezza e prosperità ch’è stato messo in discussione da quanti hanno voluto, a suo avviso, riscrivere la storia del paese. Le mostre che, in tempi recenti, hanno affrontato temi come la schiavitù e la segregazione in epoche storiche o che hanno raccontato i punti di vista della comunità LGBTQ+ son state viste come colonne portanti d’un “movimento revisionista”, per adoperare le stesse parole di Trump, che ha cercato “di minare i risultati degli Stati Uniti gettando luce negativa sui suoi principî fondanti e sulle sue pietre miliari storiche”. I musei, secondo la visione ideologica di Trump, non sono più luoghi dove s’impara, dove si forma il discorso pubblico, dove si sviluppa pensiero critico, dove si studia la storia, anche nei suoi aspetti più scomodi: diventano, più banalmente, luoghi che devono “accendere l’immaginazione delle giovani menti, onorando la ricchezza della storia americana e instillando orgoglio nei cuori di tutti gli americani”.
L’impostazione ideologica di Trump e del movimento Maga è quella propria d’un regime autoritario: l’idea d’un museo che serva per ispirare orgoglio nazionale ricorda, per esempio, il pensiero dell’ideologo nazista Wolfgang Willrich per il quale l’arte doveva ambire a “stabilire la nobiltà del popolo tedesco, fungendo da guida per il popolo tedesco” e a “risvegliare il desiderio per una tale nobiltà”. Certo: non siamo all’istituzione di una Reichskulturkammer, né mai ci arriveremo, così come siamo ancora lontani dalla censura diretta, che non sarà necessaria: intanto perché, come detto, Trump ha impostato la sua azione sulla delegittimazione piuttosto che sulla coercizione, e poi perché nel XXI secolo esistono forme di controllo più larvate e probabilmente anche più efficaci rispetto alla censura tradizionalmente intesa (Trump, per esempio, usa spesso i social perché tramite i social è possibile ampliare a dismisura la portata di un discorso estremamente semplice e immediato, cosa più difficile da ottenere con una contronarrazione complessa: è più efficace della censura perché meno problematico e perché arriva prima). Le forme di controllo che Trump progetta per i musei americani somigliano, più che a quelle della Germania nazista, a quelle dell’Ungheria di oggi, dove il governo di Orbán ha plasmato una politica culturale che promuove una visione nazionalista unitaria, che non ammette punti di vista alternativi, ritenendoli anti-ungheresi. Ecco allora perché il progetto d’azzeramento delle funzioni democratiche dei musei statunitensi è preoccupante: l’attuale governo rischia di trasformare gl’istituti della cultura in strumenti di propaganda nazionalista dove si somministra al pubblico una narrazione selettiva e semplificata della storia e dell’arte, dove non esiste spazio per la complessità o per un’elaborazione critica del passato o del presente, dove la cultura serve semmai soltanto a legittimare il potere. Senza contare, poi, che l’indipendenza dei musei (così come quella delle università e dei centri di ricerca) e fondamentale per garantire libertà e confronto. In poche parole: la funzione dei musei è strettamente legata alla loro indipendenza, ed è anche per questo che sono così importanti.
Di recente la Casa Bianca ha fatto sapere, per adesso in via informale, che l’amministrazione vuole estendere ad altri musei le revisioni già cominciate allo Smithsonian. È comunque utile rammentare che la Costituzione pone dei limiti a quello che Trump può fare: una censura esplicita, un divieto su ciò che un museo intende esporre costituirebbe una violazione del Primo Emendamento della Costituzione americana, che garantisce la libertà d’espressione. E anche il taglio dei finanziamenti a una mostra sulla base del suo contenuto potrebbe violare lo stesso principio costituzionale. D’altro canto, Trump ha più volte mostrato una brutale disinvoltura nei riguardi di quella stessa Costituzione che lui per primo dovrebbe rispettare (è stato calcolato che almeno 39 giudici si sono pronunciati contro le sue azioni, anche se finora pochi casi sono giunti fino alla Corte Suprema, che però è a maggioranza conservatrice): Trump non si ferma davvero di fronte alla possibilità di violare un emendamento, specialmente quando sa di agire spesso su territorî situati sul confine che corre tra il consentito e il non consentito e su cui le interpretazioni possono essere contrastanti. Possiamo dunque esser certi che non si farà grossi scrupoli a trasformare i musei nel braccio culturale della sua deriva antidemocratica. Ci sono però almeno tre buone notizie: la prima è che, paradossalmente, la velocità di questa deriva verso l’autoritarismo è incredibilmente alta, e quando le trasformazioni sono rapide si riescono a riconoscere meglio. La seconda è che, stando al Carnegie, il grado di erosione non è ancora grave come quello di altri paesi. La terza è che le istituzioni democratiche statunitensi per il momento non sono ancora state messe in discussione. Quanto ai musei, si potrebbe innescare un movimento di resistenza interna: professionisti, istituti, movimenti civici potrebbero opporsi in maniera ferma a questa deriva e provare quanto meno a frenarla (il caso del Woodmere potrebbe accendere una miccia). Certo è che la velocità e l’aggressività dell’amministrazione Trump costituiscono la peggior minaccia che la tenuta della democrazia statunitense abbia mai conosciuto.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Al suo attivo anche docenze in materia di giornalismo culturale (presso Università di Genova e Ordine dei Giornalisti), inoltre partecipa regolarmente come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).
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