Storia della critica d'arte: Bernard Berenson e il suo metodo


Bernard Berenson è stato uno dei più grandi studiosi di storia dell'arte: in questa nuova 'puntata' della nostra storia della critica d'arte parliamo del suo metodo.

Riprendiamo la nostra breve storia della critica d’arte per parlare di uno dei più importanti studiosi del passato: Bernard Berenson, nato Bernhard Valvrojenski (Butremanz, 1865 – Firenze, 1959). Originario della Lituania ed emigrato negli Stati Uniti con la famiglia nel 1874 a causa delle persecuzioni religiose contro gli ebrei, Berenson studiò dapprima a Boston e poi si iscrisse alla Harvard University, dove studiò letteratura. Fu durante i suoi studi che Berenson si avvicinò all’arte: iniziò infatti a frequentare il Museum of Fine Arts di Boston, studiando soprattutto gli artisti italiani, che ebbe poi modo di approfondire con un viaggio in Europa che compì nel 1887, dopo aver conseguito la laurea. Fu durante la sua permanenza in Europa che decise di dedicarsi completamente alla storia dell’arte.

Bernard Berenson
Bernard Berenson

Decisiva fu la conoscenza degli studi di Giovanni Morelli, che esercitò un’importante influenza sul giovane Berenson. Si procurò dunque una copia dei Kunstkritische Studien über Italienische Malerei (“Studi di critica d’arte sulla pittura italiana”, l’opera principale di Morelli) e meditò di recensirla. Il giovane lituano-statunitense scrisse così un saggio di venti pagine, che non fu mai pubblicato, ma che fu poi ritrovato tra le sue carte. È in questo lavoro che Berenson esprime per la prima volta la sua ammirazione per Morelli: secondo il suo parere, i “servizi resi alla scienza delle immagini” da parte di Morelli “sono più importanti di quelli resi da Winckelmann alla scultura antica o di quelli resi da Darwin alla biologia”. Berenson ebbe anche modo di conoscere Morelli di persona, attraverso un altro storico dell’arte, il francese Jean-Paul Richter (e nello stesso periodo, cioè tra il 1889 e il 1890, Berenson conobbe anche Giovanni Battista Cavalcaselle): almeno sul piano umano, tuttavia, le considerazioni di Berenson erano di tutt’altro tenore. Così infatti scriveva, nel 1891, a Mary Whitall Smith, sua compagna di studi (nonché futura moglie), all’epoca sposata con il magistrato Benjamin Costelloe: “non riesco proprio a parlare con Morelli, perché si aspetta di essere trattato come un maestro”. La strada comunque era tracciata, e anche Berenson iniziò a sviluppare, prestissimo, le sue abilità da connoisseur.

Francesco Morandini detto il Poppi, Madonna col Bambino
Francesco Morandini detto il Poppi, Madonna col Bambino (1561; olio su tavola, 126 x 102,9 cm; Boston, Museum of Fine Arts)
Berenson cominciò facendo il consulente, attività che aveva già intrapreso poco dopo essersi stabilito in Europa, e che seguitò a praticare con sempre più continuità verso la fine degli anni Novanta, grazie soprattutto all’aiuto di Mary, che gli trovava i “contatti” giusti. Uno dei pezzi di maggior interesse della collezione d’arte antica del Museum of Fine Arts di Boston, ovvero una Madonna col Bambino che Berenson, pur con cautela, aveva avvicinato alla maniera del Bronzino, limitandosi però a ritenerla semplicemente “di scuola fiorentina” (nel 1983 fu formulata una più calzante attribuzione a Francesco Morandini detto il Poppi, e sotto tale nome figura oggi il dipinto), fu acquisita dall’istituto statunitense proprio grazie al lavoro del giovane studioso, allora appena ventiseienne (l’ingresso nella collezione risale infatti al 1890). Lui stesso infatti l’aveva individuata e segnalata all’amico Edward Perry Warren, grande collezionista d’arte, che acquistò l’opera e la donò al museo. Fu proprio attraverso la sua attività di consulente che Berenson, il quale non pubblicò alcunché fino al 1893 (a quest’anno risale il suo primo articolo), iniziò a costruirsi la sua fama di esperto d’arte.

Qual era tuttavia il metodo che Berenson, sulla scorta degli studi morelliani, aveva iniziato a elaborare? Lo studioso, come anticipato, partì proprio da Morelli, cercando di studiare col metodo di quest’ultimo le opere di Lorenzo Lotto, primo artista a cui Berenson si dedicò totalmente. Iniziò pertanto a esaminare, opera dopo opera, la produzione dell’artista veneto, col fine di trovare nessi e rassomiglianze, financo nei più minuti e apparentemente insignificanti dettagli, che permettessero di ricostruire la formazione, le influenze ricevute, i rapporti tra Lotto e altri artisti. Ciò gli permise di arrivare a sostenere, contrariamente a quanto pensava Morelli, che Lotto fosse stato allievo di Alvise Vivarini (Morelli invece lo riteneva discepolo di Giovanni Bellini: benché le notizie su Lorenzo Lotto siano scarsissime e non sia possibile arrivare a certezze, oggi si tende a premiare la visione di Berenson). Tuttavia, il metodo di Morelli non era ritenuto sufficiente: Berenson aveva iniziato dunque a perfezionarlo, migliorarlo ed espanderlo, e i risultati delle sue ricerche furono pubblicati in un saggio intitolato The rudiments of connoisseurship (“I rudimenti della connoisseurship”), che uscì nel 1902 ma la cui composizione risaliva al 1894. Il limite principale del metodo morelliano, quello dei cosiddetti “motivi sigla”, consisteva nel fatto che portava il connoisseur a soffermarsi troppo sui particolari, tralasciando gli aspetti generali dell’opera, i suoi tratti essenziali. Berenson si accorse di ciò, e pur senza mai nominare Morelli nel suo saggio, propose di fatto un aggiornamento del metodo morelliano. I tratti morfologici degli elementi dell’opera, quelli che già Morelli aveva individuato come tratti distintivi della mano di un artista, per Berenson dovevano essere separati “dal sentire dell’artista, dal suo spirito”. E per comprendere il “sentire” dell’artista, lo storico dell’arte non può che fare appello, secondo Berenson, al "senso della qualità“, che diventa il criterio massimo per valutare l’opera di un artista o, per dirla con le parole di Berenson, ”lo strumento più essenziale per chi vuol essere un connoisseur“, oltre che ”il punto di riferimento per tutte le prove documentarie e storiche raccolte e per tutti i possibili test morfologici condotti su un’opera d’arte".

Tuttavia, Berenson era consapevole del fatto che “la discussione sulla qualità non riguarda il campo della scienza”, e concluse il suo saggio limitandosi ad asserire che "non abbiamo neppure menzionato l’arte della connoisseurship": un concetto che sarebbe rimasto costante nella critica di Berenson, è che la conoscenza dello storico dell’arte non è mai pienamente e strettamente scientifica. La sola analisi dei motivi-sigla può però bastare quando si ha a che fare con opere per le quali una dimostrazione può essere scontata: è il caso di una Madonna con Bambino e san Giovannino che entrò nel 1927 al Metropolitan di New York come opera di Antonello da Messina, attribuzione largamente accettata da molti critici (anche di alto livello, come Adolfo e Lionello Venturi). Per Berenson invece non si trattava di un’opera del maestro siciliano, e per arrivare a tale conclusione lo studioso riteneva che “i metodi più tangibili, i più ovvii, i meno soggettivi, i metodi, dico, quasi puramente quantitativi dell’archeologia, bastano seppure non avanzino addirittura” (nel 1941 infatti l’opera fu poi assegnata a Michele da Verona). Ma Berenson sosteneva anche, come scrisse in un suo saggio risalente proprio al 1927, che un problema d’attribuzione “non si può trattare solo per via di dialettica e di assaggi. Bisogna che sia esperimentato e vissuto, provato e sentito. [...] Ma proprio a tal sostrato vitale, non arriva il solo mezzo delle parole. La più palese e reale evidenza ci sta davanti, ed essa è infine più forte d’ogni argomentazione”.

Michele da Verona, Madonna col Bambino e san Giovannino
Michele da Verona, Madonna col Bambino e san Giovannino (1495-1499 circa; tempera e olio su tavola, 73,7 x 57,8 cm; New York, Metropolitan Museum)

Già nel 1897, nel suo libro The Central Italian painters of the Renaissance (“I pittori del Rinascimento nell’Italia centrale”), Berenson, sulla scia della teoria della pura visibilità e accostandosi dunque alla critica formalista, aveva introdotto i due concetti di "decorazione“ e di ”illustrazione“. Per ”decorazione“, Berenson intendeva ”tutti quegli elementi che, in un’opera d’arte, fanno leva direttamente sui sensi, per esempio i colori e le tonalità, oppure che stimolano direttamente certe sensazioni, per esempio la forma e il movimento“. Invece, per ”illustrazione“, sarebbe da intendersi ”tutto ciò che in un’opera d’arte richiama la nostra attenzione non per una qualità intrinseca contenuta nell’opera, ma per ciò che essa rappresenta, sia nella realtà esteriore, sia nella mente di qualcuno". Un ritratto colorato male e disegnato in modo sbrigativo può comunque ricordarci una persona realmente esistente: in tal caso l’opera sarebbe carente di tutto ciò che concorre a formare la sua qualità intrinseca (e quindi sarebbe carente di decorazione), ma potrebbe essere un’ottima illustrazione in quanto in grado di richiamare subito alla mente il soggetto rappresentato. Nel campo della “decorazione”, Berenson avrebbe fatto poi rientrare un concetto centrale del suo metodo: i cosiddetti "valori tattili", dei quali fornirà un’interessante definizione nel suo lavoro del 1948 Aesthetics, ethics and history in the arts of visual representation (“Estetica, etica e storia nelle arti della rappresentazione visiva”, tradotto in italiano da Mario Praz). Scriveva Berenson: “i valori tattili si trovano nelle rappresentazioni di oggetti solidi allorché questi non sono semplicemente imitati (non importa con quanta veridicità) ma presentati in un modo che stimola l’immaginazione a sentirne il volume, soppesarli, rendersi conto della loro resistenza potenziale, misurare la loro distanza da noi, e che ci incoraggia, sempre nell’immaginazione, a metterci in stretto contatto con essi, ad afferrarli, abbracciarli o girar loro intorno”. I valori tattili, insieme al movimento, sono dunque le qualità che permettono a un oggetto raffigurato di essere percepito come esistente. Berenson riteneva che Giotto fosse un “maestro supremo nello stimolare la coscienza tattile”. Questo perché, secondo Berenson, Giotto riusciva a ottenere quello che il pittore deve ottenere, ovvero la costruzione della terza dimensione. E per fare ciò, il pittore non può far altro che conferire “valori tattili alle impressioni della retina” ed “eccitare il senso tattile”. In altri termini, quando ci troviamo di fronte a un’opera, secondo Berenson dobbiamo avere l’illusione di poter toccare con mano le figure in essa rappresentate (ecco il perché dell’aggettivo “tattile”), che devono quindi essere in grado di fornire, a noi che osserviamo, sensazioni forti ed efficaci.

Per dar meglio un’idea di quanto detto, Berenson, in uno dei suoi principali capolavori (The Italian painters of the Renaissance, “I pittori italiani del Rinascimento”, uscito per la prima volta nel 1930), operò un confronto tra la Maestà di Santa Trinita di Cimabue e la Madonna di Ognissanti di Giotto, le due grandi tavole che si trovano appese assieme agli Uffizi. Per Berenson, esisterebbe una profonda differenza tra i due dipinti, una differenza “di realizzazione”: guardando l’opera di Cimabue, sostiene lo studioso, “si finisce per concludere” che le linee e i colori “sono intesi a rappresentare una donna seduta, con intorno uomini ed angeli in piedi o genuflessi”, ma per arrivare a questa identificazione “abbiamo dovuto fare uno sforzo assai maggiore di quello che le cose e le persone effettive ci avrebbero richiesto”, perché la capacità di evocare sensazioni tattili in Cimabue è inferiore rispetto a Giotto. Infatti, continua Berenson, guardando la Madonna di Ognissanti “l’occhio ha appena avuto tempo di posarsi sul dipinto, che già lo realizza in ogni parte” e “la nostra immaginazione tattile entra subito in gioco”. Nel saggio vengono poi elencati gli elementi che consentirebbero a Giotto di evocare queste sensazioni, e successivamente si sostiene che il merito principale di Giotto consiste nella sua maggior capacità, rispetto a Cimabue, di rendere i valori tattili (e la resa dei valori tattili per Berenson è “la suprema qualità”): per tali motivi Giotto avrebbe assicurato un notevole contributo allo sviluppo della pittura.

Confronto tra la Maestà di Santa Trinita di Cimabue e la Madonna di Ognissanti di Giotto
A sinistra: Cimabue, Maestà di Santa Trinita (1290 circa; tempera su tavola, 385 x 223 cm; Firenze, Uffizi). A destra: Giotto, Madonna di Ognissanti (1310 circa; tempera su tavola, 325 x 204 cm; Firenze, Uffizi)

Giovanni Bellini, Santa Giustina
Giovanni Bellini, Santa Giustina (1470 circa; tempera su tavola, 129 x 55 cm; Milano, Museo Bagatti Valsecchi)
Ovviamente la valutazione del movimento e dei valori tattili deve guidare lo storico dell’arte nella sua attività. Prendiamo, per esempio, il caso della santa Giustina all’epoca nella collezione Bagatti Valsecchi e oggi nell’omonimo museo creato negli anni Settanta per aprire al pubblico la raccolta della famiglia milanese. Sul finire dell’Ottocento, Berenson attribuì l’opera ad Alvise Vivarini, ma poco meno di vent’anni dopo, nel 1913, scrivendo sulla Gazette des beaux-arts in un articolo intitolato La sainte Justine de la collection Bagatti-Valsecchi à Milan, si rese conto che la figura era dotata di “qualità di ritmo, di maestosità, di nobiltà nei panneggi che la pongono a un livello che Vivarini non avrebbe mai potuto raggiungere”, che le vesti “rivelano in modo eloquente la sostanza intima del corpo che ricoprono”, che dal dipinto traspare un “amore” per il preziosismo dei gioielli assente invece in Vivarini. Sono tutti elementi che riguardano quella “qualità intrinseca” di cui Berenson parlava nel 1897 e che perciò prescindono dall’analisi morfologica dell’opera. Questi elementi convinsero Berenson che la santa Giustina fosse opera non di Alvise Vivarini, bensì di Giovanni Bellini: l’attribuzione fu accettata e ancor oggi la tavola Bagatti Valsecchi è ritenuta opera del grande maestro veneziano.

Anche il metodo di Berenson aveva comunque dei limiti: lo studioso era infatti convinto che l’analisi stilistica, quella su cui il suo metodo si fondava, fosse nettamente superiore rispetto a indagini che tenessero conto del contesto storico e sociale oltre che dei documenti, delle fonti scritte, e di altri tipi di testimonianze che non avessero direttamente a che fare con le immagini. Anzi: per Berenson i metodi fondati sulla filologia e sullo studio dei documenti erano inaccettabili. Questo è quanto scriveva nel saggio Aesthetics, ethics... che abbiamo citato prima: “Ciò che è più contestabile nel modo come studiano l’arte i critici dalla mentalità germanica, è che questo studio è coltivato o da filologi, con metodi venutisi a formare nello studio dei testi, delle iscrizioni e dei documenti, o da storici che usano l’opera d’arte solo come un sussidio per ricostruire il passato. Questi metodi sono fuori luogo nello studio di opere d’arte create in periodi sui quali non difettiamo d’informazione, ed esistenti ancora nell’originale. Come tutte le cose fuori posto, questi metodi recano gran fastidio. Riescono solo a seppellire l’opera d’arte sotto mucchi di cianfrusaglie”. Per Berenson, ogni elemento che si inserisca tra l’opera d’arte e il suo fruitore (inclusi documenti e fonti) finisce con l’alterare la percezione da parte di quest’ultimo. Tuttavia il metodo di Berenson non fu certo immune da errori. Valga come esempio il celebre caso del cosiddetto "Amico di Sandro", un nome fittizio che Berenson aveva inventato per trovare il possibile autore di un gruppo di dipinti variamente attribuiti a Sandro Botticelli, Filippino Lippi e altri autori a loro contemporanei, ma che secondo Berenson avevano tratti comuni che avrebbero potuto far supporre l’esistenza di un’unica e sconosciuta mano che li avrebbe dipinti. Lo studioso arrivò persino a delineare una sorta di profilo psicologico del presunto artista, senza preoccuparsi di dar peso alle fonti: era insomma un tentativo di costruire una storia dell’arte il cui impianto fosse unicamente sostenuto dall’analisi delle immagini. L’inconsistenza di questo “amico di Sandro”, e le forzature che Berenson aveva messo in piedi per giustificarlo, furono evidenziate soprattutto da Herbert Horne, lo studioso che più di ogni altro si preoccupò di smontare, sistematicamente e in modo convincente, la tesi di Berenson, che rifiutò poi la sua stessa idea nel 1932. Rimane il fatto che Berenson è stato uno degli studiosi più influenti del suo tempo e, come successo anche per altri storici dell’arte della sua epoca, ancora oggi molte delle sue attribuzioni resistono.

Bibliografia di riferimento

  • Mauro Minardi, Morelli, Berenson, Proust. «The art of connoisseurship» in Studi di Memofonte, 2015, n. 14, pp. 211-226
  • Charlotte Klonk, Michael Hatt, Art History: A critical introduction to its methods, Manchester University Press, 2006
  • Daniele Pisani, “A more agreeable subject of contemplation” in Engramma, 2006, n. 48
  • David Alan Brown, Giovanni Morelli and Bernard Berenson in Giacomo Agosti, Maria Elisabetta Manca, Matteo Panzeri (a cura di), Giovanni Morelli e la culture dei conoscitori, atti del convegno (Bergamo, 4-7 giugno 1987), Lubrina-LEB, 1993, vol. 2, pp. 389-397
  • Ernest Samuels, Bernard Berenson. The Making of a Legend, Belknap Press, 1987
  • Ernest Samuels, Bernard Berenson. The Making of a Connoisseur, Belknap Press, 1979
  • A.K. McComb, The selected letters of Bernard Berenson, Hutchinson, 1963
  • Bernard Berenson, Aesthetics, ethics and history in the arts of visual representation, nella traduzione italiana di Mario Praz (“Estetica, etica e storia nelle arti della rappresentazione visiva”), Electa, 1948
  • Bernard Berenson, Three essays on method, The Clarendon Press, 1927


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ho fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrivo su Art e Dossier e su Left.

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