Ha aperto il 13 febbraio e chiuderà tra pochi giorni, l’11 maggio, nelle Uccelliere Farnesiane sul Palatino, gestite dal Parco Archeologico del Colosseo, la mostra "Brancusi: scolpire il volo", una piccola selezione di opere dell’artista romeno, naturalizzato francese, Constantin Brancusi (1876-1957), considerato il padre della scultura moderna, per la prima volta esposte a Roma. La mostra è in co-organizzazione con il Centre National d’art et de la culture Georges Pompidou di Parigi, ed è a cura di Alfonsina Russo, Philippe-Alain Michaud, Maria Laura Cavaliere e Daniele Fortuna.
La mostra, scrive il Parco, “esplora uno dei temi principali della produzione artistica di Brancusi: il bestiario degli uccelli”. Il percorso espositivo è articolato nei due ambienti delle Uccelliere, il primo dedicato alla scultura, che presenta le tre opere Il Gallo (Le Coq, 1935), L’Uccellino (L’Oiselet, 1928) e Leda (1920/1926), il secondo alla fotografia e ai film dell’artista.
Ciò che però nel racconto della mostra è appena accennato, è che in mezzo alle opere di Brancusi, protagonista unico dell’esposizione, ci sono anche “una selezione di sculture antiche” che “arricchiscono l’esposizione” cioè “statue, balsamari, are e sonagli di età romana, provenienti dal Museo Nazionale Romano, dal Museo Archeologico Nazionale di Venezia e dal Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, che raccontano di come le espressioni artistiche del passato abbiano influenzato la cultura visiva di Brancusi”. Opere originali, spostare dai rispettivi musei all’inizio di febbraio (l’inaugurazione della mostra è stata ritardata di qualche giorno). In realtà non sono tutte di età romana, a differenza di quanto riportato nei comunicati del ParCo: ci sono due balsamari di VI-V secolo a.C. da Villa Giulia, e la Leda e il Cigno del Museo Archeologico Nazionale di Venezia ha conosciuto pesanti integrazioni in età rinascimentale. Ma al di là dei dettagli, queste presenze sollevano un dubbio più generale: ha senso spostare opere d’arte antica originali per esposizioni incentrate totalmente sull’arte contemporanea?
Il caso della mostra alle Uccellerie Farnesiane è più emblematico di altri per le particolari condizioni: il Parco Archeologico del Colosseo è diretto ad interim, la direttrice Alfonsina Russo è da luglio anche capo del neonato dipartimento della valorizzazione, quindi dirigente di tutti i musei italiani, e contemporaneamente è curatrice della mostra in questione. Ma non è un caso isolato.
Uno dei più rilevanti degli ultimi anni è stata la mostra Vita dulcis di Francesco Vezzoli al Palazzo delle Esposizioni di Roma, nel 2023: curata da Vezzoli e da Stéphane Verger, allora direttore del Museo Nazionale Romano, esponeva insieme a clip di film e opere di Vezzoli (alcune delle quali, come noto, rielaborano l’arte romana) decine di opere e reperti di vario genere provenienti dal Museo Nazionale Romano. Era una mostra d’arte contemporanea a tutti gli effetti, allestita e pensata come tale negli spazi, senza didascalie, ma in cui si sovrapponevano opere d’arte romane e opere pienamente contemporanee in un modo volutamente poco intelligibile. Il Museo archeologico nazionale di Napoli, che ha prestato moltissimo in questo ultimo decennio, più volte ha offerto capolavori a esposizioni o anche eventi contemporanei (ormai celebre il prestito del Corridori di Ercolano per lo stand di Bottega Veneta alla Milano Fashion Week, ma anche la Tazza Farnese era stata prestata alla Fondazione Prada).
Il prestito di opere d’arte antica per mostre d’arte contemporanea (lasciamo perdere eventi, fiere e aeroporti, in questo contesto) si inserisce nel più vasto e dibattuto tema del dialogo tra arte contemporanea e arte antica, già trattato su questa testata. Ma con delle specificità: chiaro è che un’opera mobile, per fungere da confronto (o arredo scenografico, o arricchimento) può facilmente essere sostituito da una copia fedele. Se non c’è dubbio che gli originali diano molto di più al catalogo di una mostra, al racconto della stessa, altrettanto indubbio è che per il visitatore interessato all’artista che dà il nome alla mostra, un’ara romana in più o in meno non farà differenza, figuriamoci se copia o no. Senza contare che questi reperti vengono spostati dai loro contesti museali, dove a volte sono tra i motivi per cui si paga il biglietto, o pezzi suppostamente inamovibili della collezione.
Si potrà dire che quell’arte è ciò che hanno i nostri musei per sedersi al tavolo dei grandi, siano il Centre Pompidou, artisti di livello internazionale o Fondazioni. Ma se l’Italia deve utilizzare la sua arte antica per convincere artisti o istituzioni internazionali a esporre qui, forse qualcosa non va. Il rischio, per nulla celato, è di impostare relazioni, tra antico e moderno, tra collezioni statali e realtà non statali, basate sulla subalternità. Ironico per un paese che si vanta di avere il più importante patrimonio culturale al mondo.
L'autore di questo articolo: Leonardo Bison
Dottore di ricerca in archeologia all'Università di Bristol (Regno Unito), collabora con Il Fatto Quotidiano ed è attivista dell'associazione Mi Riconosci.