Cremona e Piacenza riscoprono il Malosso. Com'è la doppia mostra su Giovanni Battista Trotti


Una mostra divisa in due parti per riscoprire Giovanni Battista Trotti detto il Malosso: il Museo Diocesano di Cremona e i Palazzo Farnese a Piacenza ospitano una piccola rassegna che introduce il pubblico al più grande artista cremonese del secondo Cinquecento. Ecco com’è la mostra: la recensione di Federico Giannini.

Nuvole gonfie, piene, finte, morbide, da toccare. Pieghe che paiono di metallo bagnato. Volti d’avorio, leggermente arrossati, delicati, espressivi. È il Malosso artista facilmente riconoscibile, e probabilmente si deve anche a questa sua riconoscibilità il successo che gli arrise nella Cremona del secondo Cinquecento. Una diceria che Carlo Cesare Malvasia riporta nella sua Felsina Pittrice vuole che Giovanni Battista Trotti fosse soprannominato “il Malosso” da Agostino Carracci, all’epoca in cui il cremonese s’era trasferito a Parma sulla scorta del suo successo: “Avendo egli per concorrente in Parma il tanto più di lui favorito e stimato Cavalier Malosso, solea dire aver egli dato in un mal’osso da rodere”. Tradotto con l’espressioni d’oggi, Carracci avrebbe detto che Trotti gli aveva dato del filo da torcere. La realtà, certo, è meno suggestiva del mito, dacché risultano attestazioni del soprannome “de’ Malossi” portato dalla famiglia Trotti da diverse generazioni. E non sappiamo per quali ragioni. L’aneddoto, dunque, è verosimilmente frutto di fantasia: rimane però il fatto che la leggenda del Malosso era ancora viva nel Seicento inoltrato, a più di sessant’anni dalla sua scomparsa. Oggi, invece, quello di Giovanni Battista Trotti è, verrebbe da dire, nome noto soltanto agli specialisti o a pochi appassionati, e non è difficile comprendere le ragioni d’un oblio che stride forte con la somma fortuna che il Malosso ebbe in vita: Trotti rimase pittore d’ambito locale, la più parte della sua produzione è stretta tra Cremona, Parma e Piacenza (benché i suoi dipinti abbiano raggiunto anche altri centri: Milano, Pavia, Brescia, e una lunga sequenza di cittadine più piccole), e soprattutto la sua produzione giungeva in un’epoca storica di forti cambiamenti di gusto, che già sugl’inizî del Seicento avrebbero premiato la strada del naturale dei Carracci, per non dire poi del caravaggismo che si sarebbe diffuso a breve anche nel piano padano, oltre che, soprattutto, del classicismo emiliano che avrebbe soppiantato nel volgere d’una generazione i turbinosi virtuosismi malosseschi. L’Emilia del primo Seicento parlava già una lingua ch’era l’opposto esatto di quella che Trotti aveva voluto imporre alla sua committenza, riuscendoci.

Chi volesse conoscere le ragioni del suo successo dovrebbe pensare, appunto, ai committenti. Era il Malosso “interprete rigoroso dei dettami della Controriforma”, capace d’una “fedeltà che lo rendeva un pittore particolarmente ambito sulla scena artistica locale, in un momento in cui le istanze religiose avevano un ruolo preponderante”: così spiega i suoi trionfi Antonio Iommelli, direttore dei Musei Civici di Palazzo Farnese a Piacenza che, assieme al Museo Diocesano di Cremona, dedicano quest’anno una piccola ma densa rassegna a Trotti (Il Cavalier Malosso. Un artista cremonese alla corte dei Farnese), curata dallo stesso Iommelli per la sede piacentina e da Stefano Macconi e Raffaella Poltronieri per entrambe. Pittore non solo in grado, dunque, di farsi esegeta ligio di quel che i committenti volevano, ma anche d’intessere relazioni fondamentali per lo sviluppo della sua carriera (coi clienti, sì, ma anche con artisti e letterati: era in rapporti con Federico Zuccari e con Giovan Battista Marino, tra gli altri, e sposò Laura Locatelli ch’era nipote di Bernardino Campi, suo maestro nonché tra i più considerati pittori della Cremona cinquecentesca). E poi, era commercialmente abile, era artista versatile in grado di progettare sontuose pale d’altare come dipinti per una devozione più quotidiana, apparati effimeri per la corte farnesiana e disegni d’architetture e d’arredi, aiutato da una bottega efficiente, produttiva, ben organizzata.

Occorre dare atto ai curatori che non è semplice allestire una mostra sul Malosso. Per radunare tutte le cose più significative della sua produzione servirebbero spazî grossi e grosse risorse, dal momento che quasi tutte le sue opere più rilevanti sono ancone di dimensioni considerevoli, gran parte delle quali ancora saldamente attaccate agli altari per i quali furono concepite: risiede anche qui il fascino di questo artista, ed è uno degli effetti benefici del sostanziale disinteresse che i posteri hanno manifestato nei riguardi della sua arte, semmai qualcosa fosse stato manifestato. Non c’è dunque da immaginarsi una mostra di grandi dimensioni: pochi sono i lavori fatti pervenire a Cremona e Piacenza, però quel poco consente di farsi un’idea piuttosto precisa di cosa sia stata l’arte del Malosso. Si potrebbe considerare questa mostra una sorta d’introduzione. E, al contempo, una riscoperta, dal momento che Giovanni Battista Trotti è stato accantonato financo dalla critica contemporanea. E allora magari la doppia rassegna al confine tra due regioni potrebbe essere, magari, viatico per nuove illuminazioni.

Allestimenti della mostra Il Cavalier Malosso. Un artista cremonese alla corte dei Farnese (Cremona)
Allestimenti della mostra Il Cavalier Malosso. Un artista cremonese alla corte dei Farnese (Cremona)
Allestimenti della mostra Il Cavalier Malosso. Un artista cremonese alla corte dei Farnese (Piacenza)
Allestimenti della mostra Il Cavalier Malosso. Un artista cremonese alla corte dei Farnese (Piacenza)
Allestimenti della mostra Il Cavalier Malosso. Un artista cremonese alla corte dei Farnese (Piacenza)
Allestimenti della mostra Il Cavalier Malosso. Un artista cremonese alla corte dei Farnese (Piacenza)

Volendo seguire un percorso il più naturale possibile, si potrebbe suggerire di cominciar la visita dalla sezione allestita al Museo Diocesano di Cremona, poiché è qui che s’indaga, ancorché per sommi capi, l’humus sul quale germogliò l’arte del Malosso. S’era formato alla bottega di Bernardino Campi che poi, s’è detto sopra, sarebbe diventato suo suocero: l’avvio della mostra presenta i due artisti appaiati, accostati in un genere, quello della ritrattistica, che non verrebbe subito da associare al Malosso, eppure l’artista cremonese, anche in questo filone della sua carriera, meno battuto rispetto ad altri, seppe prodursi in risultati oltremodo interessanti. La qualità dei suoi ritratti non raggiunge quella del suo maestro (il Ritratto di gentiluomo con cane di Campi, opera di collezione privata, è un ritratto elegante, finissimo, quasi di marca moroniana, non fosse per il fatto che quest’opera, rispetto ai ritratti di Moroni, appare più algida e trattenuta): quelli del Malosso sono più materiali, più spessi, più schematici, e il confronto con un ritrattista di mestiere e di successo quale era Bernardino Campi non può che deporre a favore di quest’ultimo. Anche i ritratti del Malosso si lasciano però apprezzare: la concentrazione dello speziale (forse, ipotizza Raffaella Poltronieri, si tratta di Siface Anguissola, cugino di Sofonisba: è un’opera interessante anche per sondare i rapporti del Malosso nel milieu cremonese degli anni Ottanta del Cinquecento, quando l’artista era poco più che ventenne) e l’espressione severa dell’agostiniano (forse Teodosio Burla), quest’ultimo probabilmente il miglior ritratto del Malosso, lasciano intendere che anche lui avesse una certa confidenza col genere, sebbene si fatichi a considerarlo un ritrattista.

Le cose migliori del Malosso dovevano arrivare nell’ambito della produzione sacra, dove fin da subito, gli riconosceva anche Adolfo Venturi quasi cent’anni fa, “prese una via opposta a quella del suo freddo e tranquillo maestro, cercando sin dall’inizio effetti spettacolosi, tumulto di linee compositive, enfasi di gesti”. Il confronto con Antonio Campi (che non aveva rapporti di parentela con Bernardino ma era comunque uno dei più importanti artisti della Cremona di metà Cinquecento), presente in mostra con una Sacra famiglia con santa Lucia mai esposta prima d’ora (è una sorta di studio intermedio per l’omologa pala d’altare oggi al Ringling Museum di Sarasota in Florida), dimostra che il Malosso cercò fin da subito una via originale, cercò d’impostare fin da subito un’alternativa alla maniera compassata dei suoi maestri, dei suoi riferimenti: lo si vede nelle tele coi Misteri del rosario che in antico accompagnavano una Madonna del Rosario dipinta da un Malosso trentenne per la chiesa di Santi Giovanni Battista e Biagio di Romanengo (le telette esposte in mostra sono lavori eseguiti con largo concorso della bottega, ma l’impostazione malossesca è chiara e la si nota in particolare nell’Annunciazione, la più interessante delle tele esposte, che contiene già i tratti salienti della cifra del pittore), ma lo si vede soprattutto con la più importante delle opere esposte al Museo Diocesano, la Vergine in gloria che intercede per Cremona guerriera con i santi Omobono e Imerio, opera del Museo Ala Ponzone di Cremona in cui la città è raffigurata con gli attributi della dea Minerva mentre viene presentata alla Madonna dai due santi patroni. Eccoli allora, quei tratti salienti: le nuvole soffici che par quasi di poter tastare, le pieghe metalliche, la composizione vorticosa, i cangiantismi, nelle figure le delicatezze di marca correggesca, i brani paesistici di gusto nordico, la gamma cromatica smaltata, tenue, leggera. Evidenti i riferimenti sui quali il Malosso deve aver meditato: Bernardino Gatti e Camillo Boccaccino paiono i precedenti più immediati, benché rilavorati per smussarne le punte più estreme in modo da incontrare i gusti d’una committenza larga che chiedeva immagini non troppo complesse, e animati da una forza drammatica che sarà evidente specialmente nella fase tarda della sua carriera, una forza già in grado di proiettare la pittura cremonese verso il nuovo secolo. A dar conto di questa forza è soprattutto un foglio, esposto alla fine del percorso assieme ai disegni di alcuni colleghi per far emergere affinità e divergenze: il Compianto sul Cristo morto di collezione privata, studio per la pala, oggi dispersa, che l’artista dipinse per l’oratorio di Santa Maria Segreta a Cremona nel 1601: il disegno consente d’apprezzare non soltanto il vigore della tensione emotiva che l’artista sul finale di carriera era in grado d’imprimere alle sue composizioni, ma anche l’originalità delle invenzioni d’un pittore che, anche in virtù di questi esiti, può esser definito, con le parole del curatore Stefano Macconi, l’unico artista cremonese “capace di sviluppare un linguaggio indipendente dalla mera ripresa dei modelli campeschi”.

Bernardino Campi, Ritratto di gentiluomo con cane (1550-1560 circa; olio su tela, 128 x 101,5 cm; Collezione privata)
Bernardino Campi, Ritratto di gentiluomo con cane (1550-1560 circa; olio su tela, 128 x 101,5 cm; Collezione privata)
Giovanni Battista Trotti detto il Malosso, Ritratto di speziale (Siface Anguissola?) (1585-1590 circa; olio su tela, 96 x 76 cm; Collezione privata)
Giovanni Battista Trotti detto il Malosso, Ritratto di speziale (Siface Anguissola?) (1585-1590 circa; olio su tela, 96 x 76 cm; Collezione privata)
Giovanni Battista Trotti detto il Malosso, Ritratto di agostiniano (Teodosio Burla?) (1590-1595 circa; olio su tela, 95 x 70 cm; Collezione privata)
Giovanni Battista Trotti detto il Malosso, Ritratto di agostiniano (Teodosio Burla?) (1590-1595 circa; olio su tela, 95 x 70 cm; Collezione privata)
Antonio Campi, Sacra famiglia con santa Lucia (anni sessanta del XVI secolo; olio su tela, 74 x 61,3 cm; Collezione privata)
Antonio Campi, Sacra famiglia con santa Lucia (anni sessanta del XVI secolo; olio su tela, 74 x 61,3 cm; Collezione privata)
Malosso e bottega, Annunciazione (1586; olio su tela, 36 x 23,7 cm; Romanengo, chiesa parrocchiale)
Malosso e bottega, Annunciazione (1586; olio su tela, 36 x 23,7 cm; Romanengo, chiesa parrocchiale)
Giovanni Battista Trotti detto il Malosso, La Vergine in gloria intercede per Cremona guerriera con i santi Omobono e Imerio (1590-1600; olio su tela, 97 x 77,5 cm; Cremona, Pinacoteca Ala Ponzone, inv. 136)
Giovanni Battista Trotti detto il Malosso, La Vergine in gloria intercede per Cremona guerriera con i santi Omobono e Imerio (1590-1600; olio su tela, 97 x 77,5 cm; Cremona, Pinacoteca Ala Ponzone, inv. 136)
Giovanni Battista Trotti detto il Malosso, Compianto sul Cristo morto (1601; penna e inchiostro bruno, acquerellature grigie, lumeggiature a biacca su carta bianca quadrettata a matita nera, 375 x 250 mm; Collezione privata)
Giovanni Battista Trotti detto il Malosso, Compianto sul Cristo morto (1601; penna e inchiostro bruno, acquerellature grigie, lumeggiature a biacca su carta bianca quadrettata a matita nera, 375 x 250 mm; Collezione privata)

Ai Musei Civici di Palazzo Farnese, la mostra offre l’occasione d’apprezzare il ricongiungimento dei tre pezzi che compongono il Trittico Salazar, ovvero l’Adorazione dei pastori firmata e datata 1595, appartenente alla Banca di Piacenza, e i due scomparti laterali con san Sebastiano e san Diego d’Alcalà, di recente riemersi sul mercato antiquario e acquistati da un collezionista privato olandese. A render possibile questo risultato, va rimarcato, è stato un importante lavoro di coordinamento tra pubblico e privato, dacché il merito d’aver individuato gli attuali proprietarî delle due ante laterali va riconosciuto all’associazione degli Amici dell’Arte di Piacenza, la cui spinta è stata decisiva per consentire la reunion d’un trittico dalla storia importante, ch’è stato diviso nel corso del Novecento. Il Malosso aveva dipinto l’opera per la chiesa dei Cappuccini di Regona, villaggio nei pressi di Pizzighettone, quattro anni dopo il trasferimento a Piacenza, che rimonta al 1591. Era il periodo di maggior successo della sua carriera: basti, a dimostrazione del successo, il nome del committente che gli affidò l’incarico di dipingere il trittico di Regona, don Diego Salazar, diplomatico spagnolo che all’epoca ricopriva la carica di Gran Cancelliere dello Stato di Milano. Salazar aveva diversi poderi nella zona di Pizzighettone e, per dimostrare la propria munificenza e la propria devozione, qualche anno prima, nel 1584, aveva promosso la fondazione d’un convento sulla strada che univa Regona a Pizzighettone. Per coronare il progetto, chiese al Malosso un trittico da sistemare sull’altare della chiesa nella quale don Diego progettava di far conservare il suo cuore. Il dipinto è citato nel testamento del 1600 di Salazar, dov’è menzionata la “speciosa tabula quae nativitatem refert Domini Nostri Jesu Christi”, ovvero la bella tavola che raffigura la natività di Gesù Cristo. Nell’Ottocento si tentò anche d’individuare l’effigie di Diego de Salazar e di sua moglie Francesca de Villelè nei due personaggi che appaiono sulla sinistra nella tavola centrale, due pastori in atteggiamento estatico, soprattutto in ragione dello stemma gentilizio con le tredici stelle dipinto dal Malosso sulla fiaschetta del pastore. Tuttavia, per come sono atteggiati i personaggi, qualora si debba tentare d’individuare il committente e la moglie tra i personaggi raffigurati, è più probabile che debbano essere identificati coi due personaggi inginocchiati al centro della scena, un atteggiamento molto più consono per due donatori che volevano farsi effigiare nella pala.

L’opera avrebbe conosciuto una certa fortuna (dell’Adorazione dei pastori sono note almeno due copie, una conservata al Palazzo Comunale di Caravaggio, l’altra nell’ufficio del Direttore Generale dell’Ospedale di Crema, proveniente però dalla chiesa di Santa Croce di Soresina), e tra Sette e Ottocento sono diversi gli eruditi locali che ne parlano. Poi, per qualche ragione, del Trittico Salazar non si seppe più niente per diverso tempo, fino al 1957, quando lo storico dell’arte piacentino Ferdinando Arisi segnalava i pannelli presso la collezione della famiglia Anguissola d’Altoè di Piacenza, che li avrebbe ereditati in epoca imprecisata. Nel 1974 però lo scomparto centrale aveva già cambiato proprietà, e si può probabilmente collocare attorno a questa data, o a poco prima, lo smembramento della macchina malossesca: fatto insolito, peraltro, che un trittico sia stato separato in epoca così recente. Nel 1992 l’Adorazione entrò a far parte della raccolta della Banca di Piacenza, mentre delle due ante laterali non s’è più saputo niente fino al 2023, quando sono state vendute in un’asta da Cambi a Genova, dove figuravano come opera di “Scuola cremonese del XIX secolo”, con stima peraltro molto bassa (5-6.000 euro la coppia), anche se poi la vendita ha quintuplicato la stima massima: la coppia di dipinti è stata infatti aggiudicata a 30.100 euro, inclusi i diritti (evidentemente chi ha partecipato all’asta s’era reso conto che le due tele erano più antiche di quanto la casa d’aste pensasse).

Nel Trittico Salazar torna la lezione compositiva di Bernardino Gatti, evidente soprattutto nella struttura articolata e nella composizione affollata, così come sono piuttosto scoperti i riferimenti correggeschi, specialmente nelle espressioni e negli atteggiamenti dei personaggi, che sono delineati con precisione, quasi ognuno fosse un ritratto: basti vedere il frate cappuccino, forse un san Giuseppe in vesti francescane, colto nell’atto di ricevere una singolare ruota di formaggio da un giovane raffigurato di spalle, a torso nudo, coperto solo da un mantello rosso, una veste bianca con inserti in pizzo e una pelliccia di lince bianca. Figure dal forte impatto visivo e narrativo, come il bambino al centro che regge due volatili e ha ai piedi un cesto di uova e un agnello, offrono al riguardante brani di realismo quotidiano che richiamano la maniera di Vincenzo Campi, mentre nel paesaggio in lontananza, ch’è dei più interessanti della produzione malossesca, risuona la solita eco del nord. Non mancano poi accenni di realismo vibrante, che il recente restauro dell’opera ha contribuito a far emergere: la resa pittorica è impreziosita da dettagli come le toppe sul saio francescano, cromaticamente ben accordate, che restituiscono un senso come di verità, di quotidianità, di semplicità.

In mostra, il Trittico Salazar è esposto al centro della Cappella Ducale, assieme ai lacerti d’affreschi, anch’essi di mano del Malosso, che fino agli anni Trenta decoravano la cappella che conservava il dipinto, al culmine d’un breve percorso che s’apre con due sontuosi lavori del Malosso piacentino, entrambi custoditi a Palazzo Farnese. Il più antico, del 1599, è la Madonna con il Bambino e i santi Antonio abate e Giovanni evangelista, eseguito per la chiesa di Santa Maria delle Grazie: la scena, ancora pregna di suggestioni campesche, trova spazio entro un’architettura classica con tanto di colonne ioniche e statue poste nelle nicchie, ad affollare ulteriormente una composizione che non concede alcunché al vuoto, e dove anche la nuda terra su cui s’inginocchia san Giovanni evangelista è colma d’oggetti finemente indagati, incluso il cartiglio sul quale Trotti aggiunge la sua firma, guardato con una certa insistenza dal maiale di sant’Antonio abate il cui muso sbuca dal bordo destro della tela, rivelando dunque che il Malosso aveva anche insospettabili doti di animalier. E poi, a fianco, l’impegnativa pala del 1603 con La Vergine e Cristo che intercedono per la città di Piacenza, in antico nella chiesa di San Vincenzo. È una delle opere più interessanti dell’artista cremonese in quanto tela che, scrivono Antonio Iommelli e Anna Perini, “si pone come un punto di raccordo e anticipazione dei canoni dell’arte barocca, in particolare nella suddivisione dello spazio su due livelli”, ovvero quello dei cielo, dove trovano posto le divinità, e quello della terra, cui è riservato un lembo sotto gli angeli bastevole giusto ad accogliere una veduta da lontano della skyline di Piacenza com’era agl’inizî del Seicento, coi profili ben distinguibili di Palazzo Farnese, della Cattedrale, della basilica di Santa Maria di Campagna, in una raffigurazione che, aggiungono Iommelli e Perini, “si distingue per originalità, in quanto coglie il profilo della città da una prospettiva inusuale, ovvero oltre il fiume Po, coronata dal monte Penice e animata da figure e imbarcazioni di piccole dimensioni”. A chiusura di percorso, una Apparizione della Vergine a san Francesco, opera complicata, d’impianto malossesco ma di minor qualità e aperta ad altre suggestioni (in primis Ludovico Carracci), e quindi ascrivibile a un allievo (probabilmente Gian Giacomo Pasini detto l’Usignolo, secondo Raffaella Poltronieri), offre la possibilità d’aprire anche sugli artisti che, in certa misura, continuarono a ragionare sulla lezione di Giovanni Battista Trotti.

Giovanni Battista Trotti detto il Malosso, Adorazione dei pastori (1595; olio su tela, 300 x 170 cm; Piacenza, Collezione Banca di Piacenza)
Giovanni Battista Trotti detto il Malosso, Adorazione dei pastori (1595; olio su tela, 300 x 170 cm; Piacenza, Collezione Banca di Piacenza)
Giovanni Battista Trotti detto il Malosso, San Sebastiano (1595; olio su tela, 117 x 60 cm; Olanda, collezione privata)
Giovanni Battista Trotti detto il Malosso, San Sebastiano (1595; olio su tela, 117 x 60 cm; Olanda, collezione privata)
Giovanni Battista Trotti detto il Malosso, San Diego d’Alcalà (1595; olio su tela, 117 x 60 cm; Olanda, collezione privata)
Giovanni Battista Trotti detto il Malosso, San Diego d’Alcalà (1595; olio su tela, 117 x 60 cm; Olanda, collezione privata)
Giovanni Battista Trotti detto il Malosso, Madonna con il Bambino e i santi Antonio abate e Giovanni evangelista (1599; olio su tela, 256 x 178 cm; Piacenza, Musei Civici di Palazzo Farnese)
Giovanni Battista Trotti detto il Malosso, Madonna con il Bambino e i santi Antonio abate e Giovanni evangelista (1599; olio su tela, 256 x 178 cm; Piacenza, Musei Civici di Palazzo Farnese)
Giovanni Battista Trotti detto il Malosso, La Vergine e Cristo che intercedono per la città di Piacenza (1603; olio su tela, 270 x 180 cm; Piacenza, Musei Civici di Palazzo Farnese)
Giovanni Battista Trotti detto il Malosso, La Vergine e Cristo che intercedono per la città di Piacenza (1603; olio su tela, 270 x 180 cm; Piacenza, Musei Civici di Palazzo Farnese)
Gian Giacomo Pasini detto l'Usignolo, Apparizione della Vergine col Bambino a san Francesco (1608-1615; olio su tela, 250 x 150 cm; Piacenza, Musei Civici di Palazzo Farnese)
Gian Giacomo Pasini detto l’Usignolo, Apparizione della Vergine col Bambino a san Francesco (1608-1615; olio su tela, 250 x 150 cm; Piacenza, Musei Civici di Palazzo Farnese)

La “grande” mostra, verrebbe da dire, s’apre fuori dal Museo Diocesano e da Palazzo Farnese. La grande mostra delle opere del Malosso è nelle tante chiese per le quali fu chiamato a dipingere, è negli edifici di culto sparsi per le due città e sparsi per il territorio, è sugli altari dai quali le sue pale non si sono mai mosse, è nel silenzio delle grandi navate, è nella luce fioca delle cappelle, tra le città e le campagne, a Cremona come a Piacenza come a Parma, e poi a Viadana, a Casalmaggiore, a Brusuglio, a Casalpusterlengo, a Bertonico, tra Emilia e Lombardia e talvolta anche oltre, dove la fama del Malosso riusciva ad arrivare. La doppia rassegna che Cremona e Piacenza offrono al pubblico dev’esser vista soprattutto come un invito, perché molte delle cose migliori di Giovanni Battista Trotti sono fuori dai musei: per chi ha poco tempo potrà esser sufficiente anche una visita alla Cattedrale di Cremona per vedere l’Annunciazione del 1594, una delle sue opere più belle, oppure la Resurrezione di Cristo nella cappella della Madonna del Popolo, oltre all’altare della cappella del Santissimo Sacramento (perché il Malosso fu anche un valente designer d’interni, diremmo oggi: è un aspetto della sua produzione che la mostra tuttavia non indaga), e poi almeno al tempio di San Pietro al Po dove s’ammirano la splendida Natività e la Vergine col Bambino e i santi Giovanni Battista e Paolo, anch’essa ambientata entro una monumentale architettura classica. 

Arrivando però nei momenti giusti, a Cremona il pubblico potrà seguire in diretta il restauro di un dipinto della bottega del Malosso, proprio nelle sale in cui è allestita la mostra. A Piacenza, invece, la possibilità di vedere riunito, per la prima volta, un lavoro di gran valore, tra i prodotti più squisiti della mano del Malosso, che il pubblico d’oggi mai aveva potuto vedere nella sua interezza, vale da sé la visita a Palazzo Farnese che, sotto la direzione di Iommelli conferma la sua linea espositiva centrata sui momenti pregnante della storia dell’arte piacentina e la sua apertura alle collaborazioni con altri istituti. Notevole, dunque, questo lavoro tra le due città in cui il Malosso ha lasciato la più parte delle sue opere per far emergere tutte le qualità della sua produzione. L’impegno per allestire un percorso denso è stato del resto encomiabile, nonostante l’esiguità del materiale di cui i curatori disponevano (tra Cremona e Piacenza non si contano più d’una dozzina di opere del Malosso, a cui vanno aggiunti i lavori degli artisti convocati a costruire un adeguato contesto: in tutto la mostra impegna due sale, una per sede), il tutto accompagnato da un ottimo catalogo, che predilige il dato storico rispetto all’analisi formale, e costituisce una ricca pubblicazione per conoscere molti aspetti dell’arte di Giovanni Battista Trotti. In attesa, magari, di nuove occasioni per continuare ad ammirare quei turbini avversi al vuoto, quelle pieghe cangianti, quei vapori pieni.


Se ti è piaciuto questo articolo abbonati a Finestre sull'Arte.
al prezzo di 12,00 euro all'anno avrai accesso illimitato agli articoli pubblicati sul sito di Finestre sull'Arte e ci aiuterai a crescere e a mantenere la nostra informazione libera e indipendente.
ABBONATI A
FINESTRE SULL'ARTE

Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Al suo attivo anche docenze in materia di giornalismo culturale (presso Università di Genova e Ordine dei Giornalisti), inoltre partecipa regolarmente come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).




Commenta l'articolo che hai appena letto



Commenta come:      
Spunta questa casella se vuoi essere avvisato via mail di nuovi commenti







MAGAZINE
primo numero
NUMERO 1

SFOGLIA ONLINE

MAR-APR-MAG 2019
secondo numero
NUMERO 2

SFOGLIA ONLINE

GIU-LUG-AGO 2019
terzo numero
NUMERO 3

SFOGLIA ONLINE

SET-OTT-NOV 2019
quarto numero
NUMERO 4

SFOGLIA ONLINE

DIC-GEN-FEB 2019/2020
Finestre sull'Arte