Amore, morte e fiori. La brevità della vita secondo il Genovesino


Le vanitas del Genovesino (Luigi Miradori; Genova?, 1605-1610 circa - Cremona, 1656) sono tra i dipinti che meglio ci comunicano il carattere del XVII secolo. Tra queste, il capolavoro conservato al Museo Civico di Cremona.

Luigi Lanzi ha scritto, nella sua Storia pittorica d’Italia, che il Genovesino riusciva in tutti i temi, ma soprattutto in quelli “più orridi”. È difficile dar torto all’abate quando s’ammirano certe vanitas del pittore ligure, a principiare da quella ch’è forse la più famosa, il Cupido dormiente del Museo Civico di Cremona. Un dipinto tuttavia poco noto al di fuori delle cerchie degli studiosi e degli appassionati: la piccola tela paga, del resto, la scarsa fortuna di Luigi Miradori, a cui la critica ha quasi sempre riservato poche attenzioni. Dimenticato presto in patria, dacché Miradori abbandonò Genova trentenne per non farvi più ritorno, l’artista ebbe tra Piacenza e Cremona una vita e una carriera professionale non avare di soddisfazioni, godette d’una certa considerazione nel Settecento, specie in area lombarda, per poi tornare a esser menzionato solo nelle guide locali nel corso del XIX secolo. Si deve a Mina Gregori l’inizio della lunga opera di riposizionamento critico dell’artista: la grande storica dell’arte dedicò al Genovesino la sua tesi di laurea, nel 1949, riaccendendo così l’interesse per l’artista, benché solo nel 2017 abbia potuto fregiarsi della prima monografica a lui interamente dedicata, una splendida mostra ricca di spunti e novità, tenutasi proprio al Museo Civico di Cremona.

E nell’itinerario di quella mostra, il Cupido dormiente era tra le opere più apprezzate e fotografate dal pubblico, che rimaneva ammaliato dal violento contrasto tra il puttino tranquillamente assopito e l’orrorifico teschio con la bocca spalancata che, dettaglio ulteriormente raccapricciante, dà rifugio a una rana che spunta tra i suoi denti: l’anfibio, al pari degli insetti saprofagi, nei memento mori richiama la dissoluzione della carne. Il piccolo dio dell’amore, un tenero angioletto dai riccioli biondi e dalle carni molli, simile a tanti che si vedono nelle tele del Genovesino, s’è addormentato su di un pesante tomo. Tra le dita grassocce tiene una freccia, suo classico attributo iconografico, e col braccio sinistro s’appoggia al teschio sdentato. A chiudere la composizione è, a destra, un brano di natura morta: un rigoglioso vaso di fiori.

Luigi Miradori detto il Genovesino, Cupido dormiente
Luigi Miradori detto il Genovesino, Cupido dormiente (tela, 76 x 61 cm; Cremona, Museo Civico Ala Ponzone)

Non conosciamo il nome del primo proprietario del dipinto (forse, come vedremo più avanti, la famiglia Ponzone), ma si può azzardare qualche congettura sulle circostanze in cui nacque, provando a dar per buona una datazione agli anni Quaranta del Seicento e immaginando il quadro come prodotto d’una temperie culturale ricca di stimoli sul tema della caducità della vita. Il Cupido dormiente è già di per sé un evidente ed efficace simbolo della sua epoca: ciò nondimeno, la forza di questo straordinario dipinto potrebbe anche nutrirsi di riferimenti culturali che, forse, hanno suggerito a Luigi Miradori la sua immagine. Possiamo supporre che molte delle vanitas miradoriane siano state dipinte nell’ambito dell’inesauribile committenza di don Álvaro Suárez de Quiñones, militare spagnolo divenuto governatore di Cremona nel 1644: dall’inventario della sua collezione d’arte, redatto post mortem, sappiamo che il governatore era in possesso d’un foltissimo numero d’opere del Genovesino, in gran parte oggi irrintracciabili. E sappiamo anche con certezza che il governatore aveva combattuto assieme a Pedro Calderón de la Barca, che per i servigi resi nella guerra di Catalogna fu anche lodato, il 19 ottobre del 1641, da Quiñones. È dunque lecito pensare che Quiñones conoscesse bene l’opera letteraria di Calderón: non si spiegherebbe altrimenti un’opera del Genovesino come la Zenobia regina di Palmira che, ha giustamente notato Marco Tanzi, è da mettere in relazione alla commedia La gran Cenobia del drammaturgo spagnolo, pubblicata nel 1640.

Ora, non c’è forse opera che riassuma in sé il clima, la mentalità, l’atmosfera dei decennî centrali del Seicento meglio de La vida es sueño: e nel dramma di Calderón c’è un’immagine che ben potrebbe attagliarsi al quadro di Luigi Miradori. È uno dei passaggi più tesi e intensi della storia: è il momento in cui, nella terza giornata, verso il finale del dramma, due soldati si recano dal protagonista, il principe Sigismondo, per riferirgli che il popolo polacco vuole chiedergli di muovere le armi contro il padre, il re Basilio di Polonia, che trama per lasciare il regno a uno straniero, Astolfo, duca di Moscovia. Prima d’accettare, Sigismondo è dapprima titubante, e si schermisce, rispondendo che non vuole illusioni che svaniscano come fiori di mandorlo (“como el florido almendro / Que por madrugar sus flores, sin aviso y sin consejo, / Al primer soplo se apagan, marchitando y desluciendo / De sus rosados capillos belleza, luz y ornamento”), perché sa che la vita è un sogno e non vuol essere ingannato come “cualquiera que se duerme”, “qualcuno che dorme”. Il topos rinascimentale del putto addormentato sul teschio, che il Genovesino potrebbe aver desunto da una stampa di Hendrick Goltzius in cui l’amorino è in atteggiamento simile a quello miradoriano, potrebbe qui esser riletto: il sonno non come allusione alla morte, ma in continuità col tema del sogno. Illusorietà e vanità.

E nel vaso di fiori, tra le essenze che alludono alla brevità della vita (tulipani, anemoni e narcisi, e uno di questi è già appassito), vediamo anche un rametto di fiori di mandorlo, presenza certo attestata nelle nature morte secentesche, ma comunque non così frequente. Nel bouquet, il pittore inserisce poi il tulipano, che nel Seicento era un fiore molto costoso, uno status symbol, segno dunque di lusso, ma dalla vita breve: nelle vanitas fiamminghe e olandesi coeve è un fiore onnipresente. Gli anemoni richiamano il mito di Adone, il bellissimo amante di Venere che secondo il mito, da morto, avrebbe macchiato col suo sangue gli anemoni tingendoli di rosso. Il narciso ci rievoca un altro personaggio della mitologia, il Narciso che si specchia nell’acqua, innamorato di se stesso al punto di consumarsi fino a morire.

Ovviamente l’idea che l’inserto dei fiori di mandorlo sia stato dettato da una scelta così consapevole non può esser altro che una suggestione, atteso che neppure sappiamo con certezza quand’è stato eseguito questo dipinto: se però, come racconta Desiderio Arisi, il primo biografo del Genovesino, Quiñones amava trascorrere “giornate intere” a vederlo dipingere, e se quella “triangolazione tra il pittore, il castellano e il campione del Siglo de Oro della letteratura spagnola”, come la definisce Marco Tanzi, può aver trovato un terreno anche nelle numerose vanitas miradoriane, quei fiori potrebbero in qualche modo suggerirci un rimando al capolavoro di Calderón de la Barca. E forse per questo volo pindarico non è neppure necessario immaginare una committenza del governatore: il dipinto, del resto, è pervenuto al museo col legato Ponzone, ed è pertanto probabile che sia stato eseguito dall’artista per la nobile famiglia cremonese, al pari del ritratto del giovane Sigismondo Ponzone, risalente al 1646.

Non abbiamo certezze neppure sulla completa autografia del dipinto: alcuni studiosi, notando come i fiori abbiano un’anima eminentemente fiamminga, hanno proposto nomi di possibili collaboratori. Mina Gregori, per esempio, ha avanzato i nomi di Stefano Lambri o Giovanni Battista Tortiroli: la collaborazione tra il Genovesino e Lambri per opere dietro incarico di Quiñones è peraltro ancora attestata dalla biografia di Arisi. Ci sono però anche dipinti che Miradori eseguì in autonomia e che dimostrano il suo talent negli ornamenti floreali: la questione è, insomma, di difficile risoluzione.

Ma, ad ogni modo, l’eventuale presenza d’altre mani non toglierebbe alcunché a un capolavoro che potrebbe assurgere a simbolo del Seicento: in questo dipinto, dominato dal gusto per l’eccesso e per lo stravagante, convivono amore e morte, tenero e macabro, infanzia e fine, effimero ed eterno, bellezza e orrore. In un irresistibile gioco di contrasti, compiutamente barocco.


Se ti è piaciuto questo articolo, leggi i precedenti della stessa serie: il Concerto di Gabriele Bella; la Ninfa rossa di Plinio Nomellini; l’Apparizione di Cristo alla madre del Guercino; la Maddalena di Tiziano; le Mille e una notte di Vittorio Zecchin; la Trasfigurazione di Lorenzo Lotto; il Tobia e l’angelo di Jacopo Vignali; il Profumo di Luigi Russolo; Novembre di Antonio Fontanesi; i tondi di san Maurelio di Cosmè Tura, la Madonna col Bambino e Angeli di Simone dei Crocifissi, le Bilance a bocca d’Arno di Francesco Gioli, lo Specchio della vita di Pellizza da Volpedo, la Galatea di Elisabetta Sirani, la Madonna della candela di Luca Cambiaso, la Danza delle ore di Gaetano Previati, la Sacra Famiglia di Pietro Bernardi, la Crocifissione di Anrea Previtali, Pessimismo e Ottimismo di Giacomo Balla, la Madonna della Pace del Pinturicchio, Forme uniche della continuità nello spazio di Umberto Boccioni, il Trattenimento in un giardino di Albaro di Alessandro Magnasco, la Madonna del latte di Ambrogio Lorenzetti, le Donne che imbarcano legna nel porto di Anzio di Nino Costa.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Giornalista d'arte, nato a Massa nel 1986, laureato a Pisa nel 2010. Ha fondato Finestre sull'Arte con Ilaria Baratta. Oltre che su queste pagine, scrive su Art e Dossier e su Left.




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